Corte di Cassazione, sezione III penale, sentenza 28 agosto 2017, n. 39458 

Integra il delitto di detenzione di materiale pedopornografico la cancellazione di files pedopornografici, scaricati da internet, mediante lo spostamento nel cestino del personal computer, in quanto restano comunque disponibili al detentore. La detenzione cessa solo per i files definitivamente cancellati, i quali risultano, effettivamente, non più disponibili

Suprema Corte di Cassazione

sezione III penale

sentenza 28 agosto 2017, n. 39458

Ritenuto in fatto

1. La Corte d’Appello di Bologna con sentenza in data 4.11.2016 ha confermato la sentenza in data 19.2.2013 del Giudice per le indagini preliminari di Bologna che aveva condannato B.A. , concesse le circostanze attenuanti generiche, alla pena di mesi 2, giorni 20 di reclusione, oltre pene accessorie e spese, pena sospesa (da intendersi anche quella accessoria secondo la precisazione aggiuntiva della Corte territoriale) e non menzione, confisca e distruzione di quanto in sequestro, per il reato di cui al capo b), art. 600 quater c.p., perché consapevolmente si era procurato ed aveva detenuto all’interno del personal computer il materiale pedopornografico di cui al capo a), da cui era stato assolto perché il fatto non sussiste, e cioè un file video prodotto mediante l’utilizzo di minori di anni 18, in (omissis) .
2. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), c.p.p., in relazione all’elemento psicologico. Osserva che nel caso dell’art. 600quater c.p., il legislatore aveva inteso circoscrivere la punibilità alle sole condotte di procacciamento e detenzione sorrette da dolo diretto o intenzionale, escludendo la rilevanza penale del dolo eventuale. Nel caso di specie, gli unici elementi certi erano stati l’utilizzo da parte dell’imputato del programma di file-sharing “e-mule” ed il fatto che all’interno del personal computer erano stati rinvenuti dei file di contenuto pedopornografico. Tali elementi non erano sufficienti, di per sé, a far ritenere provata la volontà di procacciamento e detenzione del materiale trovatosi nel computer. Come riferito nel verbale d’interrogatorio del 26.10.2010 ed all’udienza del 19.2.2013 innanzi al Giudice per l’udienza preliminare di Bologna, non era sua intenzione scaricare il materiale pedopornografico, ma materiale pornografico, e si era trattato di un mero errore. Una volta scaricato il materiale, era lo stesso programma che salvava automaticamente e non era stata offerta la prova che il materiale fosse stato coscientemente salvato. Secondo la difesa, la creazione della cartella in cui erano i file poteva essere stata creata apposta per inviare in quell’occasione il download di e-mule; dai dettagli dei file positivi indicati nella relazione si evinceva che erano stati scaricati tramite un download mediante il programma emule con una connessione di lunga durata dalle 19,53 del 6.9.2009 alle 00,28 dell’8.9.2010 con un unico accesso il 9.1.2010; da tale data a quella della perquisizione e del sequestro, 22.2.2010, i file non erano stati più spostati o visionati; se era vero che i file erano sul computer, era vero anche che egli non poteva esserne il detentore perché non ne aveva mai usufruito.
Con il secondo motivo, deduce la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p., in relazione alla mancata applicazione degli art. 131bis c.p. e 129 c.p.p.. La Corte territoriale avrebbe dovuto applicare d’ufficio l’art. 131bis c.p., senza necessità dell’istanza di parte e del suo esplicito consenso, bastando la non opposizione.
Nei motivi aggiunti, insiste sulla mancanza di motivazione in merito all’applicazione dell’art. 131bis c.p. Argomenta che l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto ha natura sostanziale ed è applicabile ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del d. Lgs. 28/15, ivi quelli pendenti in sede di legittimità, nei quali la Suprema Corte può rilevare d’ufficio ex art. 609, comma 2, c.p.p., la sussistenza delle condizioni di applicabilità dell’istituto, fondandosi sulle emergenze processuali e sulla motivazione della decisione impugnata. Premette che l’applicazione dell’art. 131bis c.p. non è stata chiesta dall’imputato nel ricorso in appello, pur essendo possibile, ma in ogni caso la questione è rilevabile d’ufficio perché la norma ha portata generale e sistemica. Contesta l’orientamento di parte della giurisprudenza di legittimità secondo cui la questione dell’art. 131bis c.p. non può essere dedotta per la prima volta in cassazione, ostandovi il disposto dell’art. 609, comma 3, c.p.p., se il predetto articolo era già in vigore alla data di deliberazione della sentenza d’appello, perché la ponderazione sull’esistenza dei presupposti essenziali per l’applicabilità della causa di non punibilità, è caratterizzata da un’intrinseca ed insuperabile natura di merito, siccome a) l’applicazione della norma pone una questione di qualificazione giuridica del fatto e non può inibirsi alla Corte una diversa qualificazione, quando le sue componenti sono accertate in sede di merito; b) non è precluso al giudice di legittimità di adottare una pronuncia di annullamento senza rinvio quando non è richiesta una valutazione sul fatto estranea al sindacato di legittimità; c) le stesse Sezioni Unite n. 13681/16, Rv 266593, Tushaj, sembrano implicitamente avallare tale assunto laddove affermano che “quando non sia in questione l’applicazione della sopravvenuta legge più favorevole ai sensi dell’art. 609, comma 2, c.p.p., l’inammissibilità del ricorso per cassazione preclude la deducibilità e rilevabilità d’ufficio della causa di non punibilità”. Pertanto, in applicazione dell’art. 129 c.p.p., in presenza di un ricorso ammissibile, la causa di non punibilità di cui all’art. 131bis c.p. può essere rilevata d’ufficio, anche se non dedotta nel corso del giudizio d’appello, ove pure ciò fosse stato possibile, quando i presupposti per la sua applicazione siano immediatamente rilevabili dagli atti e non siano, quindi, necessari, ulteriori accertamenti fattuali a tal fine. Il rilievo d’ufficio non è invece possibile quando occorrono ulteriori indagini di merito, mentre, nella specie, basta una semplice valutazione della corrispondenza del fatto, nel suo minimum di tipicità, al modello legale di una fattispecie incriminatrice. Nel caso in esame, la Corte territoriale aveva rappresentato che la condotta dell’imputato era marginale, avendo ad oggetto solo la detenzione del materiale pornografico, la scarsissima entità del dolo, l’incensuratezza e la giovane età.
La sentenza inoltre aveva motivato in modo illogico, laddove aveva valorizzato il dolo basandosi esclusivamente sulla denominazione dei file detenuti; la condotta delittuosa era stata occasionale; il fatto era certamente di particolare tenuità.

Considerato in diritto

3. Il ricorso è manifestamente infondato.
3.1. La Corte territoriale, dopo aver confermato l’accertamento in fatto del Giudice di prime cure che i 13 file a contenuto pedopornografico recavano nomi che indiscutibilmente ed inequivocabilmente rendevano edotti del loro contenuto, ha osservato che chi scarica i file da un programma di file-sharing, quale e-mule, procede, nell’ambito della ricerca impostata, a selezionare i singoli file da scaricare, sicché è del tutto evidente che l’imputato, consapevolmente, aveva scelto di scaricare dei file dall’inequivoco contenuto pedopornografico. Inoltre, dalla relazione della Polizia postale era emerso che i 13 file erano stati rinvenuti all’interno di una cartella che non era quella dei file in arrivo dal programma e-mule, poiché i file, dopo scaricati, erano stati spostati in un’altra cartella e quindi “lavorati”, operazione che aveva reso l’imputato vieppiù edotto del contenuto del materiale scaricato da e-mule. Il ricorrente sostiene che la creazione della cartella si giustificava per il download dei file ma era certo che non ne avesse usufruito, quindi non poteva esserne considerato detentore.
Tale assunto difensivo è fallace. La motivazione della sentenza impugnata è solida ed immune da vizi logici, soprattutto sull’elemento psicologico, nonché in linea con la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui anche la presenza dei file nella cartella spostata nel cestino integra il reato contestato (Cass., Sez. 3, n. 24345/15, Rv 264307, Cagnazzo, secondo cui “integra il delitto di detenzione di materiale pedopornografico la cancellazione di “files” pedopornografici, “scaricati” da internet, mediante l’allocazione nel “cestino” del sistema operativo del personal computer, in quanto gli stessi restano comunque disponibili mediante la semplice riattivazione dell’accesso al “file”, mentre solo per i “files” definitivamente cancellati può dirsi cessata la disponibilità e, quindi, la detenzione”; si veda anche nello stesso senso la successiva Cass., Sez. 3, n. 11044/17, Rv 269170, S.).
3.2. Quanto alla mancata applicazione dell’art. 131bis c.p., lo stesso ricorrente ha ammesso di non averne fatto richiesta nella sede appropriata dell’appello. Va data continuità all’orientamento di questa Corte per il quale, in tema di esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto, la questione dell’applicabilità dell’art. 131-bis cod. pen. non può essere dedotta per la prima volta in cassazione, ostandovi il disposto di cui all’art. 606, comma terzo, cod. proc. pen., se il predetto articolo era già in vigore alla data della deliberazione della sentenza impugnata, né sul giudice di merito grava, in difetto di una specifica richiesta, alcun obbligo di pronunciare comunque sulla relativa causa di esclusione della punibilità (si veda tra le ultime, Cass., Sez. 3, n. 19207/17, Rv 269913, Celentano). La conclusione è in linea con la stessa sentenza a Sezioni Unite, invocata dal ricorrente, la n. 13681/16, Rv 266554, Tushaj, ove si afferma che l’inammissibilità del ricorso per cassazione preclude la deducibilità della questione per la prima volta in questa sede nonché il rilievo d’ufficio. Ed invero, va richiamata in termini la sentenza Sez. 6, n. 7606/17, Rv 269164, secondo cui la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto prevista dall’art. 131-bis cod. pen., nel giudizio di legittimità, può essere rilevata d’ufficio, in presenza di un ricorso ammissibile, anche se non dedotta nel corso del giudizio di appello pendente alla data di entrata in vigore della norma, a condizione che i presupposti per la sua applicazione siano immediatamente rilevabili dagli atti e non siano necessari ulteriori accertamenti fattuali a tal fine. Il che certamente non è nel caso di specie, in cui la Corte territoriale ha ritenuto già mite la pena inflitta in primo grado, in considerazione del numero di file scaricati e della mancanza di qualsivoglia resipiscenza da parte dell’imputato.
3.3. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

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