Corte di Cassazione, sezione III penale, sentenza 24 luglio 2017, n. 36636

Nell’ipotesi di reati fiscali è ammessa la conversione della pena detentiva in pecuniaria anche se la persona potrebbe risultare insolvente

Sentenza 24 luglio 2017, n. 36636

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAVALLO Aldo – Presidente

Dott. SOCCI Angelo Matteo – Consigliere

Dott. CERRONI Claudio – Consigliere

Dott. ACETO Aldo – rel. Consigliere

Dott. CIRIELLO Antonella – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS), nata a (OMISSIS);

avverso la sentenza del 05/12/2014 della Corte di appello di Torino;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Aldo Aceto;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Spinaci Sante, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. La sig.ra (OMISSIS) ricorre per l’annullamento della sentenza del 05/12/2014 della Corte di appello di Torino che, in parziale riforma di quella del 06/12/2013 del Tribunale di quello stesso capoluogo, pubblicata all’esito di giudizio abbreviato, le ha concesso il beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale e ha confermato, nel resto, la condanna alla pena principale (ridotta per il rito) di sei mesi di reclusione (oltre pene accessorie) per il reato di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10 a lei ascritto perche’, quale legale rappresentante della societa’ ” (OMISSIS) S.r.l.”, non aveva versato nel termine di legge le ritenute operate, a fini fiscali, sulle retribuzioni corrisposte ai lavoratori dipendenti nell’anno 2009, per un ammontare complessivo pari a 151.341,00 Euro.

1.1. Con unico motivo eccepisce la nullita’ della sentenza per carenza e illogicita’ della motivazione e deduce, al riguardo, che la Corte di appello non ha spiegato le ragioni del mancato accoglimento dei motivi di impugnazione ne’ ha tenuto conto delle circostanze addotte a giustificazione della condotta omissiva ai fini della sostituzione della pena detentiva espressamente richiesta.

CONSIDERATO IN DIRITTO

2. Il ricorso e’ fondato.

3. La pena base applicata all’imputata e’ pari a un anno di reclusione.

3.1. La Corte di appello spiega le ragioni della mancata attenuazione del trattamento sanzionatorio individuandole nella rilevante entita’ delle somme non versate, superiori al triplo della soglia della penale rilevanza, fissata, all’epoca, in Euro 50.000,00, e valuta tale unico aspetto (la oggettiva gravita’ del reato) come soverchiante rispetto alle condizioni economiche nelle quali versava l’impresa (successivamente fallita) e alle ragioni della omissione. Anche la mancata sostituzione della pena detentiva in quella pecuniaria e’ motivata con la considerazione che non e’ “allegato che la (OMISSIS) sia in grado di ottemperare alle obbligazioni patrimoniali che conseguirebbero all’accoglimento del motivo”.

3.2. Tanto premesso, ricorda questa Suprema Corte che gli indici di commisurazione della pena di cui all’articolo 133 c.p., forniscono al giudice l’armamentario per forgiare la condanna sulla persona dell’imputato in considerazione della finalita’ rieducativa della pena stessa. La centralita’ e l’importanza della sua quantificazione e’ stata piu’ volte sottolineata dal Giudice delle leggi che ha ribadito che “il potere discrezionale del giudice nella determinazione della pena forma oggetto, nell’ambito del sistema penale, di un principio di livello costituzionale” rimarcando che la finalita’ rieducativa della pena stessa non e’ limitata alla sola fase dell’esecuzione, ma costituisce “una delle qualita’ essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue” (sentenza n. 313 del 1990; si vedano anche le sentenze n. 129 del 2008, n. 257 del 2006, n. 341 del 1994)” (sentenza n. 183 del 10/06/2011).

3.3. La quantificazione della pena, dunque, non puo’ essere frutto di scelte immotivate ne’ arbitrarie, ma nemmeno di valutazioni esasperatamente analitiche. Quel che conta, in ultima analisi, e’ che dell’uso del potere discrezionale il giudice dia conto, rendendo noti gli elementi che lo giustificano (articolo 132 c.p.).

3.4. A tal fine risulta insuperato l’insegnamento di Sez. U, n. 5519 del 21/04/1979, Pelosi, Rv. 142252, secondo cui e’ da ritenere adempiuto l’obbligo della motivazione in ordine alla misura della pena allorche’ sia indicato l’elemento, tra quelli di cui all’articolo 133 c.p., ritenuto prevalente e di dominante rilievo, non essendo tenuto ad una analitica valutazione di tutti gli elementi, favorevoli o sfavorevoli, dedotti dalle parti ma, in una visione globale di ogni particolarita’ del caso, e’ sufficiente che dia l’indicazione di quelli ritenuti rilevanti e decisivi (cosi’, in motivazione, anche Sez. 3, n. 19639 del 27/01/2012, Gallo; si veda anche Sez. 5, n. 7562 del 17/01/2013, La Selva).

3.5. Tuttavia, quanto piu’ il giudice intenda discostarsi dal minimo edittale, tanto piu’ ha il dovere di dare ragione del corretto esercizio del proprio potere discrezionale, indicando specificamente quali, tra i criteri, oggettivi o soggettivi, enunciati dall’articolo 133 c.p., siano stati ritenuti rilevanti ai fini di tale giudizio, dovendosi percio’ escludere che sia sufficiente il ricorso a mere clausole di stile, quali il generico richiamo alla “entita’ del fatto” e alla “personalita’ dell’imputato (cosi’, in motivazione, Sez. 6, n. 35346 del 12/06/2008, Bonarrigo; cfr. anche Sez. 1, n. 2413 del 13/03/2013, Pachiarotti; Sez. 6, n. 2925 del 18/11/1999, Baragiani). E’ consentito far ricorso esclusivo a tali clausole, cosi’ come a espressioni del tipo: “pena congrua”, “pena equa”, “congruo aumento”, solo quando il giudice non si discosti molto dai minimi edittali (Sez. 1, n. 1059 del 14/02/1997, Gagliano; Sez. 3, n. 33773 del 29/05/2007, Ruggieri) oppure quando, in caso di pene alternative, applichi la sanzione pecuniaria, ancorche’ nel suo massimo edittale (Sez. 1, n. 40176 del 01/10/2009, Russo; Sez. 1, n. 3632 del 17/01/1995, Capelluto).

3.6. Secondo alcune pronunce di questa Corte, anche nel caso in cui venga irrogata una pena al di sotto della media edittale, non e’ necessaria una specifica e dettagliata motivazione da parte del giudice, essendo sufficiente il richiamo al criterio di adeguatezza della pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all’articolo 133 c.p. (Sez. 5, n. 46412 del 05/11/2015, Scaramozzino, Rv. 265283; nello stesso senso Sez. 3, n. 38251 del 15/06/2016, Rignanese, Rv. 267949, che pero’ precisa che in questi casi non e’ necessaria una specifica e dettagliata motivazione da parte del giudice, se il parametro valutativo e’ desumibile dal testo della sentenza nel suo complesso argomentativo e non necessariamente solo dalla parte destinata alla quantificazione della pena).

3.7. Al di fuori di questi casi, la determinazione della pena tra il minimo e il massimo edittale non puo’ essere affidata a generiche formule di stile o sommari richiami al parametro contenuto nell’articolo 133 c.p. e se e’ pur vero che non e’ richiesto l’analitico esame in rapporto a ogni elemento del complesso parametro richiamato, resta tuttavia la doverosita’ della specifica individuazione delle ragioni determinanti la misura della pena, al fine di dar conto dell’uso corretto del potere discrezionale che al giudice di merito e’ affidato, e di garantire l’imputato della congruita’ della pena inflitta (Sez. 1, n. 12364 del 02/07/1990, Italiano, Rv. 185320; cfr. anche Sez. 1, n. 5210 del 14/01/1987, Cardile, Rv. 175802, che ha ricordato come nell’irrogazione di una pena, relativa ad un reato circostanziato, analogamente a quanto previsto per un reato semplice, il giudice adempie all’obbligo di motivazione solo allorche’ indica in modo specifico i motivi che giustificano l’uso del suo potere discrezionale al riguardo e non gia’ adoperando delle formule stereotipate. Infatti, l’obbligo della motivazione, predisposto dalla legge, e’ generale, in quanto vale per tutti i provvedimenti per i quali la legge lo prescrive; indisponibile perche’ deve essere adempiuto unicamente dall’autore del provvedimento; destinato ad essere pubblicizzato e completo, nel senso che deve essere quantitativamente correlato al dispositivo, con l’effetto che in assenza di queste caratteristiche non puo’ dirsi compiutamente adempiuto).

3.8. In sede di appello e’ inoltre necessario che il giudice si confronti anche con gli argomenti devoluti a sostegno del piu’ mite trattamento sanzionatorio rivendicato dall’imputato purche’ tali argomenti siano connotati dal requisito della specificita’ (Sez. 1, n. 707 del 13/11/1997, Ingardia, Rv. 209443; Sez. 1, n. 8677 del 06/12/2000, Gasparro, Rv. 218140; Sez. 4, n. 110 del 05/12/1989, Buccilli, Rv. 182965).

3.9. Nel caso di specie all’imputata e’ stata applicata una pena base che, al netto delle riduzioni, e’ oggettivamente grave in quanto pari (e non inferiore) alla media edittale. Ne consegue che a fronte della sollecitazione ad una rivisitazione della sua quantificazione, che faceva leva principalmente sulla valutazione dei motivi a delinquere, la valorizzazione della sola oggettiva gravita’ non assolve all’onere di una puntuale spiegazione della confutazione delle ragioni dell’imputata il cui esame e’ stato totalmente pretermesso.

3.10. Si aggiunga, peraltro, che anche il criterio della gravita’ oggettiva della condotta (unita’ di misura privilegiata dalla Corte di appello nella quantificazione della pena) risente pesantemente dell’intervento riformatore del 2015 che ha mutato radicalmente i relativi parametri di giudizio; oggi la condotta dell’imputata si colloca di soli Euro 1.341,00 sopra la soglia della penale rilevanza.

3.11. Anche le ragioni del rifiuto della sostituzione della pena detentiva in quella pecuniaria non sono condivise dal Collegio.

3.12. A norma della L. 24 novembre 1981, n. 689, articolo 53, comma 1, “il giudice, nel pronunciare sentenza di condanna, quando ritiene di dovere determinare la durata della pena detentiva entro il limite di due anni, puo’ sostituire tale pena con quella della semidetenzione; quando ritiene di doverla determinare entro il limite di un anno, puo’ sostituirla anche con la liberta’ controllata; quando ritiene di doverla determinare entro il limite di sei mesi, puo’ sostituirla altresi’ con la pena pecuniaria della specie corrispondente”. “La sostituzione della pena detentiva – recita il comma 2 – ha luogo secondo i criteri indicati dall’articolo 57”. L’articolo 57, cit., recita: “1. Per ogni effetto giuridico la semidetenzione e la liberta’ controllata si considerano come pena detentiva della specie corrispondente a quella della pena sostituita. 2. La pena pecuniaria si considera sempre come tale, anche se sostitutiva della pena detentiva”. Ai sensi della L. n. 689 del 1981, articolo 53, comma 2, u.p., cit. “alla sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria si applica l’articolo 133-ter c.p.”, secondo il quale il giudice “puo’ disporre, in relazione alle condizioni economiche del condannato, che la multa o l’ammenda venga pagata in rate mensili da tre a trenta”. In base alla L. n. 689 del 1981, articolo 58 cit., “1. Il giudice, nei limiti fissati dalla legge e tenuto conto dei criteri indicati nell’articolo 133 c.p., puo’ sostituire la pena detentiva e tra le pene sostitutive sceglie quella piu’ idonea al reinserimento sociale del condannato. 2. Non puo’ tuttavia sostituire la pena detentiva quando presume che le prescrizioni non saranno adempiute dal condannato. 3. Deve in ogni caso specificamente indicare i motivi che giustificano la scelta del tipo di pena erogata”. A norma dell’articolo 660 c.p.p., “quando e’ accertata la impossibilita’ di esazione della pena pecuniaria o di una rata di essa, il pubblico ministero trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza competente per la conversione, il quale provvede previo accertamento dell’effettiva insolvibilita’ del condannato e, se ne e’ il caso, della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria. Se la pena e’ stata rateizzata, e’ convertita la parte non ancora pagata. 3. In presenza di situazioni di insolvenza, il magistrato di sorveglianza puo’ disporre la rateizzazione della pena a norma dell’articolo 133-ter c.p., se essa non e’ stata disposta con la sentenza di condanna ovvero puo’ differire la conversione per un tempo non superiore a sei mesi. Alla scadenza del termine fissato, se lo stato di insolvenza perdura, e’ disposto un nuovo differimento, altrimenti e’ ordinata la conversione. Ai fini della estinzione della pena per decorso del tempo, non si tiene conto del periodo durante il quale l’esecuzione e’ stata differita. 4 Con l’ordinanza che dispone la conversione, il magistrato di sorveglianza determina le modalita’ delle sanzioni conseguenti in osservanza delle norme vigenti”. Ai sensi della L. n. 689 del 1981, articolo 102, comma 1, cit., “Le pene della multa e dell’ammenda non eseguite per insolvibilita’ del condannato si convertono nella liberta’ controllata per un periodo massimo, rispettivamente, di un anno e di sei mesi”.

3.13. Questo dunque il quadro normativo.

3.14. La possibilita’, per il giudice, di considerare la solvibilita’ dell’imputato ai fini della sostituzione della pena detentiva con la corrispondente pena pecuniaria e’ stata oggetto di contrasto giurisprudenziale, alimentato dalla diversa latitudine interpretativa applicata da alcune sezioni di questa Corte di Cassazione al termine “prescrizioni”, di cui alla L. n. 689 del 1981, articolo 58, comma 2, e dalla considerazione che la possibilita’ di applicare la sanzione sostitutiva a chi e’ gia’ certo o altamente probabile che non sara’ in grado di adempiervi potrebbe di fatto sottrarre il meno abbiente alla pena ritenuta piu’ adeguata alla sua tendenziale rieducazione. Secondo quest’ultimo indirizzo, “una indiscriminata conversione, che prescindesse dalle capacita’ economiche del reo, comporterebbe la violazione dell’articolo 27 Cost., in quanto il condannato non abbiente potrebbe sottrarsi alla pena detentiva e, in definitiva, alla pena ‘tout court; data l’impossibilita’ del ripristino puro e semplice della pena detentiva nel caso di inadempimento dell’obbligo di pagamento (articolo 660 c.p.p. dopo la sentenza n. 212 del 2003 della Corte costituzionale) semplicemente chiedendo la conversione. In tal modo verrebbe eluso il principio dell’emenda (articolo 27 Cost., comma 3) e si verrebbe a configurare una disparita’ di trattamento a parti invertite, in favore del non abbiente” (cosi’ in motivazione, Sez. U, n. 24476 del 2010, infra).

3.15. Secondo un diverso orientamento interpretativo, invece, “il sistema della conversione delineato dalla L. n. 689 del 1981 prevede l’imposizione di “prescrizioni” solo nel caso di sostituzione della pena detentiva con la semidetenzione o con la liberta’ controllata, con la conseguenza che la previsione del secondo comma dell’articolo 58 non si riferirebbe all’ipotesi di sostituzione con pena pecuniaria, con il pregnante rilievo che l’eventuale ritenuta operativita’ del divieto anche per la sostituzione della detenzione con il pagamento di una somma di denaro, quando il condannato fosse persona non abbiente, darebbe ingresso ad un’interpretazione in contrasto con il principio costituzionale di uguaglianza davanti alla legge (articolo 3 Cost.), introducendo una disparita’ di trattamento per ragioni di censo tra persone che si trovano in situazione analoga” (Sez. U., cit.).

3.16. Il contrasto e’ stato definitivamente risolto da questa Suprema Corte con sentenza resa a Sezioni Unite, n. 24476 del 22/04/2010, Gagliardi, Rv. 247274, che ha affermato il seguente principio di diritto: “la sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria e’ consentita anche in relazione a condanna inflitta a persona in condizioni economiche disagiate, in quanto la prognosi di inadempimento, ostativa alla sostituzione in forza della L. 24 novembre 1981, n. 689, articolo 58, comma 2, (“Modifiche al sistema penale”), si riferisce soltanto alle pene sostitutive di quella detentiva accompagnate da prescrizioni, ossia alla semidetenzione e alla liberta’ controllata, e non alla pena pecuniaria sostitutiva, che non prevede alcuna particolare prescrizione”.

3.17. In motivazione si e’ precisato che, coerentemente con il tessuto normativo sopra riportato, il giudice, nell’esercitare il potere discrezionale di sostituire le pene detentive brevi con le pene pecuniarie corrispondenti, deve tenere conto dei soli criteri indicati nell’articolo 133 c.p. (L. n. 689 del 1981, articolo 58 cit.), tra i quali e’ compreso quello delle condizioni di vita individuale, familiare e sociale dell’imputato, ma non quello delle sue condizioni economiche.

3.18. Il Collegio condivide e ribadisce il principio espresso con la sentenza teste’ citata (successivamente confermato, da ultimo, da Sez. 3, n. 17103 del 08/02/2016, Bolognini, Rv. 266639), del quale la Corte territoriale non ha fatto buon governo ed al quale non si e’ attenuta.

3.19. Essa ha infatti negato alla ricorrente la conversione della pena pecuniaria in base alla prognosi della sua possibile insolvenza. Ed invece e’ necessario che la Corte d’appello valuti la possibilita’ di sostituire o meno la pena detentiva alla luce delle finalita’ dell’istituto, avuto riguardo, nell’ottica della funzione rieducativa della pena, ai piu’ ampi criteri indicati dalla L. n. 689 del 1981, articolo 58 a prescindere dalle condizioni economiche del condannato.

3.20. La sentenza deve percio’ essere annullata limitatamente al trattamento sanzionatorio con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Torino.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio e rinvia ad altra Sezione della Corte di appello di Torino.

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