Corte di Cassazione, sezione III penale, sentenza 17 luglio 2017, n. 34783

Commette reato il titolare del ristorante che non indichi nel menù quali prodotti siano surgelati.

Corte di Cassazione

sentenza 17 luglio 2017, n. 34783

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAVALLO Aldo – Presidente

Dott. GALTERIO Donatella – Consigliere

Dott. GENTILI Andrea – Consigliere

Dott. GAI Emanuela – rel. Consigliere

Dott. CIRIELLO Antonella – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS), nato a (OMISSIS) il (OMISSIS);

avverso la sentenza del 17/11/2015 della Corte d’appello di Milano;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. GAI Emanuela;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CORASANITI Giuseppe che ha concluso chiedendo l’inammissibilita’ del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 17 novembre 2015, la Corte d’appello di Milano ha confermato la sentenza del Tribunale di Milano con la quale (OMISSIS) era stato condannato, alla pena sospesa di Euro 200,00 di multa, per il reato di cui all’articoli 56, 515 c.p. per avere compiuto atti idonei alla somministrazione agli avventori dell’esercizio commerciale di ristorazione, prodotti surgelati non indicati come tali nel menu’. Fatto accertato in (OMISSIS) il (OMISSIS).

2. Avverso la sentenza ha presentato ricorso (OMISSIS), a mezzo del difensore di fiducia, e ne ha chiesto l’annullamento deducendo con un unico motivo la violazione di cui all’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b).

La Corte d’appello avrebbe erroneamente ritenuto sussistente l’ipotesi di reato di tentativo di frode in commercio senza che vi fosse la prova della “pattuizione”, quantomeno in termini iniziali, circostanza esclusa dal testimoniale che aveva escluso la presenza di avventori nel locale.

La mera detenzione di cibi surgelati non integrerebbe il reato contestato mancando l’inizio della contrattazione.

3. Il Procuratore Generale ha chiesto, in udienza, che il ricorso sia dichiarato inammissibile.

CONSIDERATO IN DIRITTO

4. Il ricorso e’ manifestamente infondato.

Il ricorso ripropone la medesima censura gia’ devoluta nei motivi di appello e da questi giudici valutata e correttamente disattesa alla luce del consolidato orientamento giurisprudenziale sul punto.

La Corte d’appello ha fatto corretta applicazione dei piu’ recenti e consolidati arresti secondo cui ai fini della configurazione del reato di frode in commercio non e’ necessaria la concreta contrattazione con un avventore, essendo integrato il reato, nella forma tentata, in presenza di detenzione all’interno di un esercizio per la ristorazione di alimenti surgelati destinati alla somministrazione, senza che nella lista delle vivande sia indicata tale qualita’ in assenza, oltretutto, di alimenti freschi essendo congelata la totalita’ delle provviste.

Il contrasto interpretativo in ordine alla configurabilita’ dei tentativo di frode in commercio, peraltro risalente nel tempo (cfr. per la tesi opposta Sez. 3, n. 37569 del 25/09/2002, P.M. in proc. Silvestro, Rv 222556), risulta definitivamente superato dalla giurisprudenza piu’ recente, ma ormai consolidata, di questa Suprema Corte, secondo la quale “anche la mera disponibilita’ di alimenti surgelati, non indicati come tali nel menu, nelle cucina di un ristorante, configura il tentativo di frode in commercio, indipendentemente dall’inizio di una concreta contrattazione con il singolo avventore”, (Sez. 3, n. 899 del 20/11/2015 Bordonaro, Rv. 265811; Sez. 3, n. 5474 del 05/12/2013, Prete, Rv. 259149; Sez. 3, n. 44643 del 02/10/2013, Pellegrini e altri Rv. 257624; Sez. 3, n. 6885 del 18/11/2008, Chen, Rv. 242736; Sez. 3, n. 24190 del 24/05/2005 Bala, Rv. 231946).

Il Collegio non ravvisa ragioni per discostarsi dal piu’ recente indirizzo interpretativo, neppure prospettate dal ricorrente.

5. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali ai sensi dell’articolo 616 c.p.p.. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi e’ ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilita’”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Motivazione semplificata.

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