Il delitto di cui all’art. 609-bis cod. pen. è integrato ogni qual volta sia lesa la libertà dell’individuo di poter compiere atti sessuali in assoluta autonomia, senza condizionamenti di ordine fisico o morale; con la conseguenza che non hanno diritto di cittadinanza, nella valutazione della condotta criminosa, eventuali giustificazioni dedotte in nome di presunti limiti o diversità culturali nella concezione del rapporto coniugale, posto che le stesse porterebbero al sovvertimento del principio dell’obbligatorietà della legge penale e all’affievolimento della tutela di un diritto assoluto e inviolabile dell’uomo quale è la libertà sessuale.
In tema di violenza sessuale, ai fini del riconoscimento della diminuente per i casi di minore gravità di cui all’art. 609-bis, ultimo comma, cod. pen., deve farsi riferimento ad una valutazione globale del fatto, nella quale assumono rilievo i mezzi, le modalità esecutive, il grado di coartazione esercitato sulla vittima, le condizioni fisiche e psicologiche di quest’ultima, anche in relazione all’età, mentre per il diniego della stessa attenuante è sufficiente la presenza anche di un solo elemento di conclamata gravità. Nel caso di specie correttamente il giudice di appello, appunto valutando il fatto “globalmente”, ha rilevato che il rapporto coniugale tra imputato e p.o. non potesse ritenersi motivo di attenuazione della gravità intrinseca della violenza sessuale, considerata la sostanziale abitualità del comportamento dell’imputato stesso, il quale, del tutto indebitamente, riteneva l’attività sessuale una sorta di prestazione dovuta dalla moglie. In questo contesto relazionale il “caso” di violenza sessuale non può in alcun modo considerarsi di “minore gravità”.
Suprema Corte di Cassazione
sezione III penale
sentenza 12 luglio 2016, n. 28492
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza in data 10 dicembre 2014 la Corte d’appello di Milano parzialmente riformava la sentenza in data 4 giugno 2014 con la quale il Gip del Tribunale di Monza aveva condannato M.B. alla pena di anni 5 di reclusione per i delitti di cui agli artt. 81 cpv., 94, 572, 582, 576, n. 5, 609 bis, cod. pen. in danno di G.A.. La Corte territoriale osservava che era stata raggiunta la prova della responsabilità penale del prevenuto in ordine a detti reati, in particolare confermando il giudizio di attendibilità piena della p.o., anche con riguardo al dissenso in relazione all’unico episodio di violenza sessuale ritenuto nella sentenza del primo giudice. Il giudice di appello riteneva peraltro non congruamente fissato il trattamento sanzionatorio, sicchè riduceva la pena inflitta al B. ad anni 3 mesi 8 giorni 20 di reclusione.
2. Contro la sentenza, tramite il difensore fiduciario, ha proposto ricorso per cassazione l’imputato deducendo cinque motivi.
2.1 Con un primo motivo si duole di vizio della motivazione in ordine alla valutazione di attendibilità della p.o., evidenziandone i profili.
2.2 Con un secondo motivo lamenta violazione di legge e vizio della motivazione in ordine alla mancata applicazione dell’art. 649, cod. proc. pen., ravvisando per il reato di maltrattamenti una preclusione pro judicato rispetto alla sentenza del Tribunale di Monza in data 17 novembre 2008, come dedotto nello specifico correlativo motivo di appello, peraltro non riscontrato dalla Corte territoriale.
2.3 Con un terzo motivo ancora relativamente lamenta violazione di legge e vizio della motivazione relativamente al presupposto della abitualità/stabilità dei maltrattamenti ed alla ritenuta sussistenza di quello di violenza sessuale.
2.4 Con un quarto motivo si duole di violazione di legge e vizio della motivazione particolarmente quanto alla ritenuta sussistenza della “violenza” ai fini della affermazione della sua penale responsabilità per il reato di cui all’art. 609 bis, cod. pen.
2.5 Con un quinto motivo lamenta violazione di legge e vizio della motivazione rispetto alla mancata concessione della attenuante di cui all’art. 609 bis, terzo comma, cod. pen.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è infondato.
2. Con il primo motivo il ricorrente censura la motivazione della sentenza impugnata in punto valutazione della attendibilità della p.o. In particolare il B. ribadisce l’assenza di riscontri alle dichiarazioni della medesima, chè anzi da quelle della figlia della coppia si ricaverebbero elementi logici di inferenza contrari.
Il motivo è infondato.
La Corte territoriale ha puntualmente ricostruito in fatto il diuturnamente problematico rapporto coniugale de quo, giustamente valorizzando sul piano deduttivo le pregresse denuncia e condanna per fatti analoghi (su cui v. anche in fra); ha inoltre analiticamente valutata l’attendibilità intrinseca delle dichiarazioni accusatorie della A., con particolare riguardo allo stato di completa soggezione fisica e morale nel quale essa era stata ridotta dal comportamento aggressivo del marito. Tanto che le “prestazioni sessuali” richieste ed ottenute sono state la derivazione inevitabile di questo assoggettamento permanente della p.o.
In ogni caso la censura non può essere scrutinata oltre ossia nei profili più strettamente inerenti le valutazioni probatorie fattuali, ciò essendo pacificamente inibito nel presente giudizio di legittimità
Non si vede inoltre in qual modo la deposizione della figlia della coppia infici la logicità inferenziale della motivazione del giudice di appello quanto alla questione oggetto della censura medesima, trattandosi di una sorta di “prova negativa”, di per sé non escludente quella “positiva” data appunto dalle dichiarazioni della A..
In conclusione la motivazione della sentenza impugnata sul punto risulta pienamente compatibile con il correlativo standard di cui al pacifico principio di diritto -enunciato nella giurisprudenza di legittimità- che impone un esame particolarmente rigoroso delle dichiarazioni della p.o./p.c.
3. Con il secondo motivo il ricorrente si duole della violazione del principio del ne bis in idem ex art. 649, cod. proc. pen. asserendo che la sentenza impugnata abbia deciso su fatti già coperti dal giudicato formato con sentenza del Tribunale di Monza in data 17 novembre 2008.
Il motivo è infondato.
Con la citata sentenza irrevocabile il B. era stato condannato per fatti analoghi sussunti nella fattispecie di cui all’art. 572, cod. pen. con tempus commissi delicti individuato “sino al 4 giugno 2006”.
Il capo A della rubrica nel presente procedimento penale invidua il tempus dello stesso titolo di reato “dal giugno 2006 all’agosto 2013”.
Non vi è alcuna sovrapposizione di fatti e di sentenze, per la semplice ragione che nella denuncia querela della A. che ha originato il presente processo si fa appunto riferimento a fatti successivi a quelli già giudicati, come puntualmente e correttamente rilevato dalla Corte territoriale.
Si tratta dunque all’evidenza di due serie delittuose diverse, l’una susseguente all’altra.
4. Con un terzo motivo il B. denuncia violazione di legge e vizio della motivazione in ordine alla, asseritamente erronea, affermazione di abitualità delle condotte di maltrattamenti.
La censura è manifestamente infondata.
Il ricorrente infatti coglie un solo aspetto -quello delle violenze sessualidelle considerazioni, ben più ampie, che il giudice di appello dedica al reato di maltrattamenti, nient’affatto ancorato alle violenze sessuali, delle quali di contro si da atto esservene stata soltanto una (di cui si dirà appena oltre).
La censura deve pertanto considerarsi capziosa e travisante.
5. Con un quarto motivo il ricorrente si duole di violazione di legge e vizio della motivazione in relazione al punto decisionale sul reato di violenza sessuale di cui al capo C della rubrica. In particolare il B. si sofferma sulla effettività del “dissenso” opposto dalla A. nell’unico episodio sussumibile nella norma incriminatrice, per l’effetto devolutivo, valutato dalla Corte d’appello di Milano ossia quello del 15 giugno 2013, contestando la pertinenza dei precedenti di legittimità che il giudice di appello cita.
Il motivo è infondato.
Il Collegio intende anzitutto ribadire il -condivisibile- principio che «Il delitto di cui all’art. 609-bis cod. pen. è integrato ogni qual volta sia lesa la libertà dell’individuo di poter compiere atti sessuali in assoluta autonomia, senza condizionamenti di ordine fisico o morale; con la conseguenza che non hanno diritto di cittadinanza, nella valutazione della condotta criminosa, eventuali giustificazioni dedotte in nome di presunti limiti o diversità culturali nella concezione del rapporto coniugale, posto che le stesse porterebbero al sovvertimento del principio dell’obbligatorietà della legge penale e all’affievolimento della tutela di un diritto assoluto e inviolabile dell’uomo quale è la libertà sessuale» (tra le molte, v. Sez. 3, n. 37364 del 05/06/2015, B., Rv. 265187).
Su questa base giuridica, con motivazione ineccepibile, la Corte territoriale ha rilevato che, nel generale contesto di abiezione e sottomissione nella quale era costretta da anni a vivere la p.o., l’episodio in oggetto non possa che essere sussunto nella ipotesi delittuosa imputata al B. sub C della rubrica. In particolare ha rilevato che quella notte la A. era a dormire in un’altra stanza della casa coniugale e vi è stata letteralmente “prelevata” dall’imputato, che poi l’ha assoggettata alle attività sessuali che riteneva, senza che evidentemente avesse la necessità di usare altri particolari mezzi di costrizione, dato appunto il suo “costume” di vita coniugale accertato.
6. Con il quinto motivo il B. si duole di violazione di legge e vizio della motivazione relativamente al mancato riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 609 bis, terzo comma, cod. pen., in particolare sostenendo l’inadeguatezza delle considerazioni -specificamente- fattuali utilizzate dalla Corte territoriale a suffragio del diniego.
Il motivo è infondato.
Escluso in questa sede ogni apprezzamento sulla valutazione, tipicamente meritale, del contesto concreto dell’episodio, vi è dunque più propriamente da osservare che la Corte d’appello di Milano ha correttamente interpretato l’ambito di operatività della previsione attenuatrice in questione, secondo peraltro i canoni espressi nella giurisprudenza di legittimità. Il Collegio intende infatti ribadire il principio che «In tema di violenza sessuale, ai fini del riconoscimento della diminuente per i casi di minore gravità di cui all’art. 609-bis, ultimo comma, cod. pen., deve farsi riferimento ad una valutazione globale del fatto, nella quale assumono rilievo i mezzi, le modalità esecutive, il grado di coartazione esercitato sulla vittima, le condizioni fisiche e psicologiche di quest’ultima, anche in relazione all’età, mentre per il diniego della stessa attenuante è sufficiente la presenza anche di un solo elemento di conclamata gravità. (Sez. 3, n. 21623 del 15/04/2015, K. Rv. 263821).
Dunque correttamente il giudice di appello, appunto valutando il fatto “globalmente”, ha rilevato che il rapporto coniugale tra imputato e p.o. non potesse ritenersi motivo di attenuazione della gravità intrinseca della violenza sessuale, considerata la sostanziale abitualità del comportamento dell’imputato stesso, il quale, del tutto indebitamente, riteneva l’attività sessuale una sorta di prestazione dovuta dalla moglie.
In questo contesto relazionale il “caso” di violenza sessuale non può in alcun modo considerarsi di “minore gravità”.
7. In conclusione il ricorso deve essere rigettato ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali nonché di quelle di costituzione e rappresentanza della parte civile, liquidate come in dispositivo e distratte allo Stato, per effetto dell’ammissione al patrocinio gratuito.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione delle spese del grado in favore della costituita parte civile A.G., che liquida in euro 1.359,00 oltre accessori di legge, con attribuzione in favore dello Stato.
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