La responsabilità del prestatore di opera intellettuale nei confronti del proprio cliente per negligente svolgimento dell’attività professionale presuppone la prova del danno e del nesso causale tra la condotta del professionista ed il pregiudizio del cliente e, in particolare, trattandosi dell’attività del difensore, l’affermazione della responsabilità per colpa professionale implica una valutazione prognostica positiva circa il probabile esito favorevole dell’azione giudiziale che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente seguita

Suprema Corte di Cassazione

sezione III civile

sentenza 10 giugno 2016, n. 11905


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente
Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – Consigliere
Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere
Dott. PELLECCHIA Antonella – rel. Consigliere
Dott. DI MARZIO Fabrizio – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 28825/2013 proposto da:
(OMISSIS), (OMISSIS), domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati (OMISSIS) giusta procura speciale a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
(OMISSIS), (OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), difensore di se’ medesimo;
– controricorrente –
e contro
(OMISSIS);
– intimata –
avverso la sentenza n. 5446/2012 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 31/10/2012, R.G.N. 4138/2007;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/02/2016 dal Consigliere Dott. GIUSEPPINA LUCIANA BARRECA;
udito l’Avvocato (OMISSIS);
udito l’Avvocato (OMISSIS);
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale DOTT. SERVELLO Gianfranco, che ha concluso per l’inammissibilita’, in subordine rigetto.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.- (OMISSIS) conveniva in giudizio gli avvocati (OMISSIS) e (OMISSIS), deducendone l’inadempimento al mandato conferito loro per impugnare la sentenza del Tribunale di Roma che, decidendo in materia di divorzio tra l’attore e la moglie, lo aveva condannato a corrispondere Lire 500.000 mensili a favore di quest’ultima e Lire 1.500.000 nei confronti della figlia. L’attore esponeva che l’atto di appello era stato confezionato con la forma dell’atto di citazione invece che con ricorso e percio’ la Corte d’Appello aveva dichiarato inammissibile il gravame, con condanna dell’appellante al pagamento delle spese del grado. Deducendo che i motivi di appello sarebbero stati fondati e quindi sicuramente accolti dal giudice di secondo grado, con riforma della sentenza impugnata nel senso dell’eliminazione dell’assegno in favore della moglie e della riduzione all’importo di Lire 900.000 di quello a favore della figlia, l’attore chiedeva la condanna dei convenuti, in solido, al risarcimento del danno subito per il maggior esborso sostenuto di Lire 1.100.000 mensili e per le spese del grado d’appello, liquidate in lire 2.473.704, oltre alle spese di precetto (pari a Lire 168.485).
1.1.- Si costituiva in giudizio l’avv. (OMISSIS), contestando la domanda, e, pur non negando l’errore professionale, opponeva all’attore il ritardo nel conferimento del mandato e la non riformabilita’ nel merito della sentenza impugnata. Spiegava domanda riconvenzionale per ottenere il pagamento della somma di Lire 18.000.000, o di altra ritenuta di giustizia, per spese legali maturate nelle varie fasi in cui aveva seguito il cliente e da questi mai onorate.
Si costituiva anche l’avv. (OMISSIS) ed, eccepito in via preliminare il proprio difetto di legittimazione passiva per essere stato soltanto domiciliatario, chiedeva comunque il rigetto della domanda.
1.2.- Il Tribunale di Roma rigettava sia la domanda principale che la riconvenzionale, compensando tra le parti le spese di lite.
2.- Avverso la sentenza proponeva appello (OMISSIS). Gli appellati si costituivano, contestando il gravame, e l’avv. (OMISSIS) proponendo appello incidentale.
Con la decisione qui impugnata, pubblicata il 31 ottobre 2012, la Corte d’Appello di Roma ha rigettato sia l’appello principale che l’incidentale, compensando le spese del grado tra l’ (OMISSIS) e l’avv. (OMISSIS); ha condannato l’appellante a rimborsare le spese del secondo grado in favore dell’avv. (OMISSIS).
3.- (OMISSIS) propone ricorso affidato a tre motivi.
L’avv. (OMISSIS) resiste con controricorso e memoria.
L’altra intimata non si difende.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.- Col primo motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione dell’articolo 342 c.p.c., e/o nullita’ della sentenza per violazione dell’articolo 112 c.p.c. e/o omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio “per avere la Corte d’Appello frainteso i motivi di gravame indicati a pagina 4 e a pagina 14 della citazione in appello e/o per non aver statuito al riguardo”.
La censura e’ riferita alla dichiarazione di inammissibilita’, da parte del giudice d’appello, del primo e del secondo motivo di gravame per violazione dell’articolo 342 c.p.c., in quanto le doglianze dell’appellante, secondo la Corte, non avrebbero tenuto conto delle motivazioni in base alle quali la domanda era stata rigettata in primo grado e si sarebbero limitate a riproporre in grado d’appello gli stessi argomenti gia’ disattesi dal primo giudice.
Nel ricorso si sostiene che la Corte d’Appello avrebbe frainteso i motivi di gravame (che, sul punto, non erano due, ma uno soltanto, avendo la Corte equivocato sulle deduzioni preliminari al primo motivo). Inoltre, reputando mancante la critica all’argomentare del primo giudice, il giudice d’appello non avrebbe affatto considerato la parte del motivo col quale si censurava la sentenza di primo grado per non avere preso in esame il contenuto dell’atto di appello nel giudizio di divorzio, al fine di valutarne la possibile e/o probabile fondatezza, e si deduceva che il Tribunale aveva fondato il proprio giudizio esclusivamente sulla sentenza di primo grado (avente il n. 1274/99, resa dal Tribunale di Roma in esito al giudizio di divorzio), senza compararla appunto con i motivi di gravame.
Secondo il ricorrente si sarebbe avuta, oltre alla violazione dell’articolo 342 c.p.c., anche la violazione dell’articolo 112 c.p.c., con nullita’ della sentenza impugnata per non avere questa statuito su tutta la domanda proposta.
2.- Il motivo non merita di essere accolto.
Questa Corte, con giurisprudenza ormai consolidata, ha affermato che la responsabilita’ del prestatore di opera intellettuale nei confronti del proprio cliente per negligente svolgimento dell’attivita’ professionale presuppone la prova del danno e del nesso causale tra la condotta del professionista ed il pregiudizio del cliente e, in particolare, trattandosi dell’attivita’ dell’avvocato, l’affermazione della responsabilita’ per colpa professionale implica una valutazione prognostica positiva circa il probabile esito favorevole dell’azione giudiziale che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente seguita; tale giudizio, da compiere sulla base di una valutazione necessariamente probabilistica, e’ riservato al giudice di merito, con decisione non sindacabile da questa Corte se adeguatamente motivata ed immune da vizi logici (cosi’, fra le altre, Cass. n. 10966/04, n. 6967/06, n. 9917/10, e n. 2638/13).
Il principio di diritto e’ stato correttamente applicato dal Tribunale quando ha rigettato la domanda dell’ (OMISSIS), pur riconoscendo l’errore professionale degli avvocati (OMISSIS) e (OMISSIS), perche’ ha ritenuto che l’appello, da questi erroneamente proposto nell’interesse del cliente e percio’ dichiarato inammissibile, non avrebbe avuto alcuna seria probabilita’ di accoglimento.
La Corte d’Appello – chiamata a pronunciarsi sulla valutazione probabilistica espressa, in punto di fatto, dal primo giudice – ha reputato che la relativa motivazione non fosse stata specificamente censurata ai sensi dell’articolo 342 c.p.c..
Poiche’ la pronuncia qui impugnata investe esattamente il motivo d’appello avanzato dall’ (OMISSIS), non e’ configurabile la violazione dell’articolo 112 c.p.c., sostenuta dal ricorrente, essendo evidentemente irrilevante (anche in riferimento dell’articolo 360 c.p.c., n. 5, impropriamente evocato nella rubrica del ricorso) che la Corte di merito, equivocando sulle modalita’ espositive dell’atto di appello, abbia considerato come integrante due diverse censure quello che invece, a detta del ricorrente, costituiva un unico motivo di gravame. Cio’ che conta, ai fini del rispetto dell’articolo 112 c.p.c., e’ che il giudice d’appello di questo motivo si sia occupato e su questo abbia pronunciato, non configurandosi vizio di omessa pronuncia solo perche’ il giudice abbia trascurato una o piu’ delle argomentazioni poste dalla parte a sostegno della domanda.
Non sussiste percio’ il vizio di violazione dell’articolo 112 c.p.c..
2.1.- La censura di violazione dell’articolo 342 c.p.c..
per un verso, inammissibile, per altro verso, a sua volta, infondata.
Quanto al primo profilo, va rilevato che la Corte d’Appello ha evidenziato come il rigetto della domanda da parte del primo giudice fosse stato basato anche sull’argomentazione per la quale le obbligazioni di natura economica a carico delle parti nella sentenza di divorzio sono sempre soggette a revisione (e percio’ e’ stata esclusa dal Tribunale l’irreparabilita’ del danno). La Corte d’Appello ha ritenuto che questa fosse un’autonoma ratio decidendi idonea a passare in giudicato (interno). Questa statuizione del giudice d’appello – a sua volta, costituente autonoma ragione di inammissibilita’ del primo motivo – non e’ stata impugnata. Pertanto, ogni censura del ricorrente in merito al mancato accoglimento dello stesso motivo di appello risulta inammissibile in applicazione del principio per il quale, qualora la decisione impugnata si fondi su di una pluralita’ di ragioni, tra loro distinte ed autonome, ciascuna delle quali logicamente e giuridicamente sufficiente a sorreggerla, e’ inammissibile il ricorso che non formuli specifiche doglianze avverso una di tali rationes decidendi (cfr., tra le altre, Cass. S.U. n. 7931/13 e Cass. n. 7838/15).
2.1.1.- Peraltro il contenuto del ricorso finisce per corroborare la decisione della Corte d’Appello circa la mancanza del requisito di specificita’ del gravame. Invero, si desume dal tenore di questo -come riportato in ricorso – che effettivamente nemmeno una parola e’ stata spesa dall’appellante sull’articolata motivazione del Tribunale (trascritta per intero alle pagine da 3 a 6 della sentenza qui impugnata) con la quale si e’ ripercorso l’iter logico-giuridico della prima decisione assunta in sede di divorzio e con la quale si sono confutati proprio quegli stessi argomenti acriticamente riproposti dalla difesa dell’ (OMISSIS) per il tramite della riproduzione dinanzi alla Corte d’Appello dell’atto di appello gia’ dichiarato inammissibile. La sola affermazione della sua mancata considerazione da parte del Tribunale non vale certo a conferire al motivo di gravame la specificita’ all’evidenza mancante, in quanto la censura (del mancato esame dell’atto di appello) non e’ stata accompagnata dalla deduzione – sorretta da argomenti validi (e critici rispetto alla sentenza di primo grado) – che proprio per il tramite di quell’esame il Tribunale sarebbe giunto a ribaltare il giudizio di probabile rigetto dell’appello.
In conclusione, il primo motivo di ricorso va rigettato.
3.- Col secondo motivo si denuncia violazione e/o falsa applicazione degli articoli 1218, 1223 e 2697 c.c., in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 3, e/o per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 5, “e cioe’ quello afferente la mancata condanna alla restituzione delle spese di lite liquidate dalla Corte di Appello con sentenza 1037/00”.
La Corte d’Appello ha respinto la corrispondente domanda, avanzata dall’ (OMISSIS) nei confronti degli avv.ti (OMISSIS) e (OMISSIS), quale ulteriore voce di danno risarcibile per l’inadempimento professionale, poiche’ “una volta esclusa una qualsiasi chance di successo dell’impugnazione, come predisposta dai due professionisti appellati, e’ esclusa anche la possibilita’ di un rimborso, sotto forma di risarcimento, di queste spese (come di tutte le conseguenze sfavorevoli della sentenza di condanna)”.
3.1.- Trattasi di decisione di rigetto corretta in diritto ed adeguatamente motivata.
Col motivo di ricorso in esame vengono sostanzialmente riproposti gli assunti del ricorrente circa la propria possibilita’ di successo nel giudizio di gravame avverso la sentenza di divorzio. Esclusa la fondatezza di questi assunti, e confermato come sopra l’accertamento circa l’insussistenza di chance di riforma della sentenza n. 1274/99 (conclusiva del primo grado del giudizio di divorzio), non puo’ che seguire quanto affermato dalla Corte d’Appello.
Ed invero, il rimborso delle spese processuali di che trattasi si configura come un’autonoma conseguenza dannosa (astrattamente risarcibile ai sensi dell’articolo 1223 c.c.) rispetto all’evento di danno costituito dalla perdita di chance di essere vittorioso nello stesso processo. Escluso quest’ultimo, e’ infondata la pretesa del ricorrente di ottenere il risarcimento dei danni consequenziali.
Infatti, nell’illecito civile contrattuale, la ricostruzione del nesso di derivazione eziologica esistente tra l’inadempimento ascritto alla controparte contrattuale e le conseguenze dannose risarcibili implica la scomposizione del giudizio causale in due autonomi e consecutivi segmenti, il primo volto ad identificare il nesso di causalita’ materiale che lega l’inadempimento all’evento di danno, il secondo diretto, invece, ad accertare il nesso di causalita’ giuridica che lega tale evento alle conseguenze dannose risarcibili ai sensi dell’articolo 1223 c.c. (cfr. Cass. n. 21255/13), con il corollario che l’esito negativo del primo giudizio preclude l’accertamento delle conseguenze dannose ulteriori.
3.2.- Privo di pregio e’ l’argomento speso dal ricorrente secondo cui si sarebbe dovuta configurare una sorta di inversione dell’onere della prova per la quale sarebbe stato onere delle controparti dimostrare non solo che l’appello (in quel giudizio dichiarato inammissibile) sarebbe stato invece respinto, ma che lo stesso avrebbe comportato inevitabilmente una condanna dell’appellante al pagamento delle spese di lite.
All’opposto, spetta al contraente che assume di essere stato danneggiato dall’inadempimento della controparte contrattuale dimostrare i danni seguiti all’inadempimento dedotto ed accertato (come nella specie). In caso di inadempimento del mandato rilasciato all’avvocato per la difesa in giudizio civile, il fallimento della prova concernente la chance di successo in questo giudizio (nella specie, il giudizio di appello), con la previsione del suo piu’ che probabile insuccesso (nella specie, il rigetto nel merito), determina – tenuto conto del principio della soccombenza, di cui all’articolo 91 c.p.c. – la presunzione che l’appellante sarebbe stato condannato comunque al pagamento delle spese del grado. Sarebbe stato onere del danneggiato, qui ricorrente, dimostrare che, nel caso concreto, vi sarebbero stati quanto meno i presupposti per la compensazione delle spese.
Non risultando dal ricorso che nei pregressi gradi sia stata fornita prova di siffatti presupposti (ne’ peraltro che gli stessi siano stati allegati gia’ dinanzi al Tribunale ed alla Corte d’Appello – non rilevando che se ne faccia cenno nel presente ricorso), non puo’ che concludersi nel senso del rigetto del secondo motivo di ricorso.
4.- Col terzo motivo si denuncia nullita’ della sentenza per violazione dell’articolo 112 c.p.c. e/o per violazione e/o falsa applicazione degli articoli 1218, 1223 e 2697 c.c., dell’articolo 40 codice deontologico forense in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 3, e/o per omesso esame circa un fatto decisivo del giudizio in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 5, costituito dalla mancata condanna alla restituzione delle spese del precetto intimato”.
Il ricorrente sostiene che la Corte d’Appello non si sarebbe occupata della domanda volta ad ottenere la restituzione di tali ultime spese oppure, in alternativa, che l’avrebbe rigettata senza adeguata motivazione.
La prima censura, relativa all’asserita omessa pronuncia, infondata poiche’ – come rilevato dallo stesso ricorrente, sia pure in subordine – la Corte d’Appello, in effetti, ha finito per ricomprendere anche le spese di precetto in “… tutte le conseguenze sfavorevoli della sentenza conseguita all’errore professionale degli avvocati convenuti, poi appellati. Quindi, ha esaminato il corrispondente motivo di appello e l’ha rigettato, reputando tutte queste conseguenze non risarcibili, per le ragioni di cui si e’ detto trattando del secondo motivo di ricorso.
4.1.- Inammissibile, inoltre, e’ il motivo in esame per la parte in cui assume che il fatto di inadempimento che avrebbe dato causa alle spese di precetto non sarebbe quello della scelta errata della forma dell’atto di appello da parte degli avvocati, ma piuttosto quello della mancata informazione indirizzata al cliente della dichiarazione di inammissibilita’ del gravame e della sua condanna alle spese di lite; informazione che, a detta del ricorrente, gli avrebbe consentito di dare spontanea esecuzione a questa condanna senza dover sopportare anche le spese del precetto intimatogli dalla controparte.
L’inammissibilita’ consegue al fatto che non risulta che l’inadempimento dei professionisti all’obbligo di informazione sia stato mai accertato nei gradi di merito. Il ricorrente assume che si tratterebbe di fatto non contestato: di siffatta non contestazione non vi e’ traccia in sentenza; ne’ di essa e’ detto nel controricorso (negando il resistente la circostanza, anche con la memoria depositata ex articolo 378 c.p.c.).
Pertanto, in ossequio al disposto dell’articolo 366 c.p.c., n. 6, il ricorrente avrebbe dovuto dare conto in ricorso degli atti processuali delle controparti dai quali si sarebbe dovuta evincere la non contestazione. Inoltre, avrebbe dovuto censurare la sentenza d’appello per non avere la Corte territoriale affermato la responsabilita’ dei professionisti anche per l’inadempimento al (distinto) obbligo di informazione, traendone le debite conseguenze. In mancanza, il motivo e’, come detto, inammissibile.
In conclusione, il ricorso va rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Avuto riguardo all’epoca di proposizione del ricorso per cassazione (posteriore al 30 gennaio 2013), la Corte da’ atto dell’applicabilita’ del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1 quater (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, articolo 1, comma 17).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore del resistente, delle spese del giudizio di legittimita’, che liquida complessivamente nell’importo di Euro 7.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali, IVA e CPA.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1 quater, da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis.

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