Corte di Cassazione bis

Suprema Corte di Cassazione

sezione II

sentenza 7 luglio 2015, n. 28847

Ritenuto in fatto

Con ordinanza in data 11/12/2014 il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Napoli, all’esito della procedura di cui all’art. 263, comma 5, cod. proc. pen., ha rigettato la richiesta di dissequestro di beni (nella specie di copri cerchi di pneumatici riportanti il logo di diverse case automobilistiche) formulata nell’interesse di V.A. , persona sottoposta ad indagini per gli ipotizzati reati di cui agli artt. 474 e 648 cod. pen..
Ricorre per Cassazione avverso la predetta ordinanza il difensore dell’indagato, deducendo la violazione di cui all’art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e), cod. proc. pen. per inosservanza e/o o erronea applicazione della legge penale e di altre norme cui deve tenersi conto nell’applicazione della legge penale.
Evidenzia al riguardo parte ricorrente il fatto che la produzione e la commercializzazione di copri cerchi non originali ma riportanti il marchio di case automobilistiche è da considerarsi attività pienamente lecita ai sensi del principio stabilito dall’art. 241 del D.lvo 10.5.2005 n. 30 (c.d. Codice della proprietà industriale) ai sensi del quale “… i diritti esclusivi sui componenti di un prodotto complesso non possono essere fatti valere per impedire la fabbricazione e la vendita dei componenti stessi per la riparazione del prodotto complesso al fine di ripristinare l’aspetto originario…”.
Detto principio era già stato indicato nell’art. 27 del D.lvo 2 febbraio 2001 n. 95, introdotto per effetto della direttiva n. 98/71/CE e di analogo tenore rispetto alla norma sopra citata.
Rileva, ancora, la difesa del ricorrente che la tesi indicata ha trovato conforto in recenti pronunce di questa Corte Suprema nonché della Sezione del Tribunale di Milano specializzata in materia di Proprietà Industriale ed Intellettuale.

Considerato in diritto

Il ricorso non è fondato.
È consapevole l’odierno Collegio dell’esistenza in materia di un orientamento contrastante nella giurisprudenza di questa Corte Suprema.
Secondo un primo orientamento, richiamato anche dall’odierno ricorrente, “non integra il delitto di commercio di prodotti con segni falsi colui che ponga in vendita ricambi per auto non originali sui quali sia stato riprodotto, quale elemento estetico presente sul componente originale, il marchio del costruttore del veicolo. (Fattispecie relativa alla pubblicizzazione e commercializzazione su siti internet di copri cerchioni provenienti da produttori indipendenti)” (Cass. Sez. 5, sent. n. 47081 del 18/11/2011, dep. 20/12/2011, Rv. 251208).
In detta sentenza si è chiarito che:
a) Gli artt. 473 e 474 c.p. tutelano il marchio non in se stesso, ma quale segno distintivo e cioè come elemento di identificazione della provenienza del prodotto;
b) La funzione naturale ed essenziale del marchio consiste nell’individuazione dell’origine del prodotto o del servizio contrassegnato, per distinguere senza confusione possibile questo prodotto o questo servizio da quelli di provenienza diversa. Il marchio, quindi, deve costituire la garanzia che tutti i prodotti o servizi che ne sono contrassegnati sono stati fabbricati o forniti sotto il controllo di un’unica impresa alla quale possa attribuirsi la responsabilità della loro qualità;
c) Il marchio, sebbene la sua funzione principale sia, come si è detto, quella di individuare la provenienza del bene, può assumere anche diversi ruoli laddove rappresenti non la “firma” del produttore, bensì una caratteristica estetica o descrittiva del prodotto;
d) La questione assume particolare rilevanza proprio nel mercato dei pezzi di ricambio per automobili, laddove le singole componenti dell’autoveicolo -soggette ad usura, deterioramento od a rottura a seguito di incidente – vengono sovente cambiate durante la vita dell’auto; tali ricambi possono recare in sé, quale elemento di natura estetica, proprio una raffigurazione, più o meno fedele, del marchio del costruttore dell’automobile;
e) I copri cerchi (o copri ruota) delle auto spesso riportano ben visibili degli elementi riconducibili al marchio del produttore, riprodotti con diverse modalità a seconda del costruttore o del modello di veicolo (può essere riportato puntualmente il marchio con le colorazioni originali, ma più spesso ne viene semplicemente riproposta in rilievo la sua forma, quasi sempre al centro del copri ruota). In questi casi, il marchio così riprodotto non serve ad individuare la provenienza del singolo componente, nei confronti del quale non ha pertanto funzione distintiva, ma svolge la sua funzione “ordinaria” di identificazione del produttore solo con riferimento al bene nel suo complesso;
f) Con riferimento al singolo componente, invece, il marchio, pur rafforzando la percezione complessiva sulla provenienza del bene complesso, svolge una funzione meramente estetico – descrittiva.
g) Il problema della libera produzione dei pezzi di ricambio è annoso ed è stato dibattuto a lungo, ma non vi è dubbio che è oggi consentito ai “ricambisti” di riprodurre fedelmente il singolo componente in tutti i suoi elementi descrittivi (diversamente, d’altronde, il bene non originale non potrebbe svolgere il suo ruolo commerciale di alternativa perfettamente fungibile al pezzo originale, difettando l’esatto ripristino dell’aspetto originario del bene complesso);
h) Questa facoltà è oggi riconosciuta dal Codice della proprietà industriale (D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30);
i) La giurisprudenza, che si è occupata della questione prevalentemente in ambito commerciale/civilistico, riconosce ormai la piena legittimità della riproduzione esatta del pezzo di ricambio, salvo che – in aderenza alla disciplina normativa sul marchio – per le modalità con cui è attuata possa essere lesiva delle regole che presiedono alla correttezza dei rapporti industriali e commerciali. Tali fattispecie si riscontrano ove, per esempio, nella pubblicizzazione del prodotto o nella confezione dello stesso non sia chiaramente indicato che si tratta di ricambio non originale (v. Cassazione civile, sez. 1^, 10/1/2000, n. 144);
l) Anche una scadente qualità del prodotto potrebbe essere lesiva dell’immagine del produttore del bene complesso e quindi configurare un danno per il produttore, ma si tratta di argomento che non rileva in sede penale, dato che ai fini dell’applicazione degli artt. 473 e 474 c.p. si deve unicamente verificare se la realizzazione di un ricambio che riproduce, quale elemento estetico presente sull’originale, il marchio del costruttore dell’automobile possa configurare contraffazione di un segno distintivo;
m) Il corollario di quanto testé affermato è che – non risultando detto interesse pregiudicato dalla utilizzazione da parte di un terzo del medesimo marchio non in funzione tipica, e cioè distintiva, bensì al solo fine di rendere noto al consumatore che il proprio prodotto ha una destinazione strumentale o comunque collegata al prodotto al cui marchio si fa riferimento – non può in linea di principio esser vietato, dal titolare del marchio, l’eventuale uso atipico e descrittivo che un terzo ne faccia (così Cassazione civile, sez. 1, 10/1/2000, 144);
n) Si deve ancora rilevare che la riproduzione del marchio, ove presente sul componente originale, è essenziale perché il ricambio possa svolgere la sua funzione di soluzione alternativa al più costoso prodotto proveniente dal costruttore del bene complesso. Ed è essenziale al meccanismo concorrenziale che vi sia la possibilità, per soggetti terzi rispetto al produttore originale, di produrre e commercializzare liberamente parti di ricambio, pur se caratterizzate esteticamente dalla presenza del marchio. Diversamente il costruttore assumerebbe una posizione monopolistica nel mercato del ricambio, potendo così imporre qualunque prezzo o decidere di commercializzare il ricambio non da solo, ma unitamente ad altre parti del veicolo (ad esempio il copri cerchione con il cerchione), senza timore di una qualche concorrenza esterna. Ciò impedirebbe il prodursi degli effetti equilibratori propri del mercato concorrenziale, con grave nocumento per i diritti degli utilizzatori. La possibilità di riproduzione fedele del componente automobilistico risponde, pertanto, anche a valutazioni di opportunità sotto il profilo economico-commerciale, ed è ritenuta a tal punto fondamentale da essere oggetto, come si è visto, di specifica tutela sia in ambito interno che comunitario; fabbricante del ricambio);
Si deve, dunque, concludere secondo l’orientamento giurisprudenziale de qua che il marchio riprodotto sulle componenti dell’automobile assume una duplice portata: ha una funzione identificativa per quanto riguarda il bene complesso, mentre svolge una funzione solamente estetico-descrittiva con riferimento al ricambio; ne consegue che, per poter essere penalmente sanzionabile, l’uso del marchio altrui deve essere idoneo ad ingenerare errore in relazione all’oggetto che il marchio identifica. Perciò, sarebbe penalmente sanzionabile l’imprenditore che apponesse sulle proprie automobili il marchio di un altro costruttore, perché così farebbe credere ai terzi che quel bene proviene da un altro produttore.
Analogamente, tornando al settore dei copri cerchioni, sarebbe sanzionabile la riproduzione di prodotti alternativi creati da terzi, ove diversi da quelli originali e provvisti del marchio del produttore indipendente (In argomento, v. Cassazione civile, sez. 1^, 30/7/2009, n. 17734). Qui non siamo più propriamente nell’ambito dei ricambi, quanto degli accessori after market, per cui non valgono più le relative deroghe alle privative di carattere industriale o commerciale; in questo caso, nei confronti del produttore indipendente, il copri cerchione non è ricambio ma un prodotto finito, per cui l’apposizione del marchio diverso da quello del costruttore dell’automobile serve anche ad identificare la provenienza di quel bene, che si distingue dalle altri componenti scelte e prodotte (o fatte produrre a terzi su commissione) dal costruttore stesso. Il terzo che riproduce il copri cerchione non originale – che costituisca una scelta creativa ed originale e che rechi il marchio del produttore indipendente del solo cerchione – integrerebbe certamente il reato di contraffazione del marchio identificativo, perché a quel punto vi sarebbe concreta confusione sulla provenienza del componente specifico. Ma quando il copri cerchione è quello originariamente montato dal costruttore, l’eventuale presenza del marchio svolge la sua funzione distintiva con riferimento al bene nel suo complesso, posto che tutte le componenti dell’auto hanno geneticamente la medesima provenienza. Quindi la riproduzione del marchio può essere penalmente sanzionata solo con riferimento al bene identificato dal marchio stesso (cioè l’automobile) e non con riferimento al singolo ricambio (nei confronti del quale, lo si ripete, la raffigurazione del marchio è necessitata dalla esigenza di riprodurre fedelmente l’originale e svolge quindi una funzione meramente estetica).
In senso contrario a quello sopra indicato si contrappone un più recente orientamento giurisprudenziale secondo il quale “integra il delitto di commercio di prodotti con marchio contraffatto colui che ponga in vendita accessori e ricambi (nel caso in esame si trattava di aspirapolvere) sui quali sia stato riprodotto il marchio dell’impresa produttrice dei componenti originali; né ha rilievo al riguardo l’art. 241 del D.Lgs. n. 30 del 2005 in virtù del quale non può vietarsi la fabbricazione e la messa in commercio di parti di ricambio di un prodotto complesso coperto da privativa, in quanto resta, comunque, vietata ex art. 473 e 474 cod. pen. la contraffazione del marchio apposto dal titolare di esso sui componenti originali” (Cass. Sez. 5, sent. n. 37451 del 13/05/2014, dep. 10/09/2014, Rv. 262202).
Si legge nella parte motiva di quest’ultima decisione che non può sussistere nel caso esaminato la violazione del D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, art. 241, (Codice della proprietà industriale). Detta norma, invero, ha transitoriamente liberalizzato la produzione e la vendita dei componenti di un prodotto complesso, ancorché coperto da diritto di privativa, in vista dell’utilizzo di essi quali ricambi per ripristinare l’aspetto originario del prodotto. Ciò, tuttavia, non significa che sia consentito riprodurre su tali componenti il marchio dell’impresa produttrice dei componenti originali: il marchio, invero, è il segno distintivo che indica univocamente l’origine del prodotto, garantendone l’autenticità, la provenienza e la qualità; il titolare acquista con la registrazione il diritto di farne uso esclusivo nell’attività economica e di vietare ai terzi analogo uso (D.Lgs. n. 30 del 2005, art. 20). Le caratteristiche formali del prodotto, invece, sono tutelate attraverso la registrazione del disegno o del modello, dalla quale deriva il relativo diritto di utilizzo in via esclusiva (art. 41 del D.Lgs. citato). Solo di quest’ultimo diritto, e non anche di quello inerente all’uso esclusivo del marchio, l’art. 241 del più volte citato decreto legislativo ha sospeso l’esercizio fino alla modifica della direttiva 98/71/CE, relativamente ai componenti di un prodotto complesso destinati alla sua riparazione: tanto emerge in tutta chiarezza non soltanto dalla collocazione sistematica della norma, inserita nella sezione 2^ del capo 8^ (disposizioni transitorie e finali), riguardante i disegni e modelli, mentre dei marchi si occupa la sezione 1A dello stesso capo 8^; ma anche – e soprattutto – dalla precisazione che la direttiva 98/71/CE si riferisce alla protezione giuridica dei disegni e dei modelli.
In considerazione di ciò non può essere condivisa la tesi volta a sostenere che il legislatore, rendendo lecita la produzione e il commercio dei ricambi, abbia autorizzato anche l’imitazione del marchio utilizzato dal produttore dei componenti originali. L’argomento addotto a sostegno, con l’affermare che il marchio può assumere anche diversi ruoli, laddove rappresenti non la “firma” del produttore, bensì una caratteristica estetica o descrittiva del prodotto, è viziato da una petizione di principio che non soltanto non trova alcun addentellato nella normativa vigente, ma s’infrange anzi irrimediabilmente nella nozione stessa del marchio, nella sua origine storica, nella sua funzione economico – giuridica.
La conclusione cui si deve necessariamente pervenire è che non può vietarsi la fabbricazione e la messa in commercio di parti di ricambio di un prodotto complesso coperto da privativa, ma può invece vietarsi – con la forza cogente delle norme incriminatrici di cui agli artt. 473 e 474 cod. pen. – la contraffazione del marchio apposto dal titolare di esso sui componenti originali.
Neppure è utilmente invocabile il disposto di cui all’art. 6, n. 1, lett. c) della direttiva Europea 89/104/CEE, atteso che in esso è affermata la liceità dell’uso del marchio altrui soltanto “se esso è necessario per contraddistinguere la destinazione di un prodotto o servizio, in particolare come accessori o pezzi di ricambio”: ciò chiaramente sta a significare – avuto particolare riguardo all’uso del termine “destinazione” – che il marchio può essere apposto alla confezione, mentre non può lecitamente contrassegnare il componente, poiché la sua presenza su di esso dopo il montaggio più non varrebbe a individuare la – già raggiunta – destinazione, ma piuttosto l’origine del componente stesso; il che sarebbe, oltretutto, in contrasto con l’obbligo di osservanza degli “usi consueti di lealtà in campo industriale e commerciale”, immediatamente richiamati dalla disposizione comunitaria in questione.
Ritiene l’odierno Collegio di aderire a questo secondo orientamento facendo proprie le argomentazioni da ultimo indicate.
Deve peraltro evidenziarsi un altro aspetto di rilievo nel caso in esame e cioè quello della riconoscibilità della provenienza del ricambio all’acquirente, posto che vi sono indicazioni del produttore sul componente che trattasi di “prodotto non originale… ma adattabile”. Ovviamente tale indicazione è idonea a non trarre in inganno l’acquirente del prodotto circa la provenienza dello stesso senza che ciò incida su una piena utilizzazione finale. Quanto al momento dell’uso, l’identificazione non può che avvenire, come normalmente avviene, tramite una stampigliatura interna (se fosse visibile all’esterno, infatti, ne pregiudicherebbe irreparabilmente l’estetica).
La identificabilità del produttore reale del bene viene assicurata con queste modalità, non potendosi anche pretendere che la stessa sia immediatamente percepibile su un semplice ricambio.
A questo punto, considerato che nel caso in esame non viene in discussione la mancata indicazione di provenienza in sede di commercializzazione – dato che è pacifico che sui beni oggetto di sequestro era ben evidenziato agli acquirenti che si trattava di prodotti non originali – bisogna però valutare la rilevanza di tale profilo ai fini penalistici.
Al riguardo questa Corte Suprema si è occupata di una problematica assimilabile a quella qui in esame con una recente pronuncia (Cass. Sez. 2, sent. n. 24516/15, ud. del 22/05/2015, dep. 9/6/2015, non ancora massimata) relativa ad una vicenda riguardante la commercializzazione di profumi recanti i marchi contraffatti di note case produttrici di cosmetici e riportanti la dicitura “falso d’autore”.
Orbene, in tale sentenza si è ribadito – con un assunto condiviso anche dall’odierno Collegio – che l’interesse giuridico tutelato dagli artt. 473 e 474 cod. pen. è la pubblica fede in senso oggettivo, intesa come affidamento dei cittadini nei marchi o segni distintivi che individuano le opere dell’ingegno o i prodotti industriali e ne garantiscono la circolazione, e non l’affidamento del singolo, sicché, ai fini dell’integrazione dei reati non è necessaria la realizzazione di una situazione tale da indurre il cliente in errore sulla genuinità del prodotto; al contrario, in presenza di una contraffazione, i reati sono configurabili anche se il compratore sia stato messo a conoscenza dallo stesso venditore della non autenticità del marchio.
Occorre infatti qui ribadire che la legge accorda una speciale tutela al marchio registrato: e la tutela non può essere aggirata attraverso diciture artatamente “attestative” circa l’indebito uso del marchio, quali “prodotto non originale” o simili, giacché la contraffazione è, in sé, sufficiente e decisiva per la violazione del bene tutelato. Infatti – ha avuto modo di puntualizzare questa Corte – la confusione che la norma vuole scongiurare è tra i marchi e non tra prodotti, cioè tra quello registrato e quello illecitamente commercializzato in forma dichiaratamente decettiva, dal momento che ciò che la legge punisce è la riproduzione – senza averne titolo – del marchio registrato su di un prodotto industriale; il prodotto è quindi il veicolo attraverso il quale si manifestano i marchi e la legge impone che non vengano riprodotti (in modo pedissequo o con modifiche che non ne alterino i caratteri principali che lo connotano) illecitamente, su prodotti industriali. Dunque, si è ancora osservato, risulta ininfluente il raffronto tra i prodotti e i connotati di emulazione degli stessi, avendo riguardo la tutela penale solo ai marchi e alla confondibilità di quello registrato con quello illecitamente riprodotto sul bene sequestrato.
In tale quadro di riferimento, la dicitura “prodotto non originale” non svuota pertanto di valenza penale la contraffazione, restando la fattispecie integrata dalla (ontologicamente ingannevole) riproduzione illecita del marchio registrato, senza che l’impiego improprio della dicitura “prodotto non originale” (ovviamente riportata sul prodotto in una posizione non immediatamente percepibile agli osservatori terzi diversi dall’acquirente), eccentrica rispetto alla tutela giuridica del marchio, assuma una qualche portata legittimante, posto che – come si è detto – la mera riproduzione è da sola sufficiente ad integrare l’ipotesi delittuosa.
Del resto, il comma 2 dell’art. 21 del d. lgs. n. 30 del 2005 espressamente prevede che “Non è consentito usare il marchio in modo contrario alla legge, né, in specie, in modo da ingenerare un rischio di confusione sul mercato con altri segni conosciuti come distintivi di imprese, prodotti o servizi altrui, o da indurre comunque in inganno il pubblico, in particolare circa la natura, qualità o provenienza dei prodotti o servizi, a causa del modo e del contesto in cui viene utilizzato, o da ledere un altrui diritto di autore, di proprietà industriale, o altro diritto esclusivo di terzi”.
Da quanto sopra consegue che il ricorso è infondato e deve essere rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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