La massima

La regola secondo cui il termine concesso al debitore con la diffida ad adempiere, cui è strumentalmente collegata la risoluzione di diritto del contratto, non può essere inferiore a quindici giorni, non è assoluta, potendosi assegnare, a norma dell’art. 1454 comma secondo c.c., un termine inferiore ritenuto congruo per la natura del contratto e per gli usi. L’accertamento della congruità dei termine costituisce un giudizio di fatto di competenza del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità se esente da errori logici e giuridici (Cass. 1-9-1990 n. 9085).

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II CIVILE

Sentenza  6 novembre 2012, n. 19105

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 30-7-2000 S.P. conveniva dinanzi al Tribunale di Lucca, Sezione Distaccata di Viareggio, V.F., assumendo di avere stipulato con quest’ultimo, in data 23-10-1999, un contratto preliminare di compravendita di un immobile in Viareggio, per il prezzo di lire 120.000.000, di cui lire 20.000.000 corrisposte a titolo di caparra. Il preliminare prevedeva che il contratto definitivo dovesse essere stipulato entro il 31-12-1999, ma tale termine era stato successivamente consensualmente prorogato dalle parti. L’attore affermava che il 5-2-2000 aveva ricevuto una diffida ad adempiere il preliminare entro cinque giorni, sottoscritta da un legale; ma che tale diffida era inidonea a raggiungere lo scopo, in quanto proveniente da soggetto non titolare del diritto sostanziale ed indicante un termine inferiore a quello di legge. Ciò posto e atteso che il promittente venditore, invitato a comparire avanti ad un notaio il giorno 13-4-2000, non si era presentato, il S. , offrendo di pagare il residuo prezzo, chiedeva la pronuncia di sentenza che tenesse luogo del contratto non concluso.

Il F. , nel costituirsi, negava che vi fosse stata una proroga del termine previsto nel contratto e sosteneva che la diffida inviata al S. era pienamente valida ed efficace. Egli, pertanto, chiedeva la risoluzione del contratto per inadempimento del promittente acquirente.

Con sentenza depositata in data 5-2-2003 il Tribunale, ritenuto che non era stata dimostrata l’asserita modifica del termine per la stipula del contratto definitivo, e che la diffida ad adempiere era rituale, accoglieva la domanda riconvenzionale, dichiarando risolto il contratto per inadempimento del promittente acquirente.

Avverso la predetta decisione proponeva appello il S.

Con sentenza depositata il 19-10-2005 la Corte di Appello di Firenze, in accoglimento del gravame, trasferiva al S. l’immobile in questione, previo pagamento del prezzo residuo entro il termine di sessanta giorni dal passaggio in giudicato della decisione. In particolare, la Corte territoriale rilevava che la lettera del 3-2-2000 non aveva i requisiti di una diffida ad adempiere ex art. 1454 c.c., data l’incongruità del termine assegnato alla controparte; e che, al contrario, non avendo il F. contestato l’affermazione contenuta nell’atto di citazione, secondo cui il S. lo aveva inutilmente invitato alla stipula del contratto definitivo dinanzi ad un notaio per il 13-4-2000, doveva ritenersi l’inadempienza del convenuto, il quale non si era presentato davanti al pubblico ufficiale.

Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso il F., sulla base di tre motivi.

Il S. ha resistito con controricorso.

In prossimità dell’udienza il ricorrente ha depositato una memoria.

Motivi della decisione

1) Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 e 1454 c.c., nonché l’erronea e contraddittoria motivazione, in relazione all’affermazione secondo cui la lettera del 3-2-2000 non aveva i requisiti della diffida ad adempiere. Deduce, in particolare, che la Corte di Appello ha ritenuto l’incongruità del termine muovendo dalla natura dell’adempimento richiesto al promittente acquirente anziché far riferimento alla natura del contratto o ad eventuali usi, come stabilito dall’art. 1454 c.c.; e che è stata omessa qualsiasi indagine sul comportamento tenuto in epoca anteriore alla diffida dal promissario acquirente, il quale, nonostante il considerevole lasso di tempo già inutilmente trascorso dalla stipula del preliminare, non aveva assunto alcuna iniziativa volta alla conclusione del definitivo. La decisione impugnata, inoltre, è contraddittoria nella parte in cui, dopo aver dato atto che spettava al promittente acquirente la scelta del notaio, ha affermato che “nulla impediva comunque al F. di rendersi parte diligente fissando egli stesso l’incontro con il notaio”.

Il motivo è infondato.

È noto che la regola secondo cui il termine concesso al debitore con la diffida ad adempiere, cui è strumentalmente collegata la risoluzione di diritto del contratto, non può essere inferiore a quindici giorni, non è assoluta, potendosi assegnare, a norma dell’art. 1454 comma secondo c.c., un termine inferiore ritenuto congruo per la natura del contratto e per gli usi. L’accertamento della congruità dei termine costituisce un giudizio di fatto di competenza del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità se esente da errori logici e giuridici (Cass. 1-9-1990 n. 9085).

Nella specie, la Corte territoriale ha ritenuto eccessivamente breve il termine di sette giorni assegnato dal F. al S. con la lettera del 3-2-2000, sul rilievo che, gravando sul promittente acquirente la scelta del notaio, la condotta adempiente pretesa con la diffida doveva comprendere anche l’ottenimento di un appuntamento con il professionista per la predisposizione e la firma del rogito.

Si tratta di un’argomentazione immune da vizi logici e giuridici, ancorando correttamente la valutazione della congruità del termine alla natura delle attività da compiersi dal promittente acquirente in base al contratto preliminare. L’apprezzamento espresso in proposito dal giudice di merito, pertanto, non è sindacabile in questa sede.

L’ulteriore affermazione contenuta in sentenza, secondo cui “nulla impediva comunque al F. di rendersi parte diligente fissando egli stesso l’incontro presso il notaio”, costituisce a tutta evidenza un’argomentazione svolta ad abundantiam, che non incide sull’effettiva ratio decidendi, rappresentata dalla rilevata inadeguatezza del termine assegnato con Patto di diffida in rapporto alla natura della prestazione richiesta alla controparte. La censura mossa al riguardo dal ricorrente, pertanto, deve considerarsi inammissibile.

Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, infatti, è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione che censuri una argomentazione della sentenza impugnata svolta ad abundantiam e che, pertanto, non costituisce una ratio decidendi della medesima (tra le tante v. Cass. 22-11-2010 n. 23635; Cass. 5-6-2007 n. 13068; Cass. 14-11- 2006 n. 24209; Cass. 23-11-2005 n. 24591).

2) Con il secondo motivo il ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., nonché dell’erronea ed omessa motivazione. Rileva che la Corte di Appello ha erroneamente ritenuto la mancanza di contestazione, da parte del convenuto, della convocazione dinanzi ad un notaio operata dal S. per il 13-4-2000, deducendo da ciò solo il comportamento inadempiente del F. . Sostiene che, al contrario, la circostanza dedotta dalla controparte era stata contestata dal convenuto sin dalla comparsa di costituzione di primo grado, nella quale si legge testualmente: “ricevuta la lettera di diffida, scaduto il termine per la stipulazione del definitivo, il S. non si è mai attivato in senso contrario convocando il sig. F. per la stipula del rogito, presso un notaio…”. Rileva che, non potendo il fatto dedotto in citazione ritenersi pacifico, gravava sull’attore, ai sensi dell’art. 2697 c.c., l’onere di provare il suo assunto; il che nella specie non è avvenuto.

Il motivo è inammissibile, in quanto, così come prospettato, si risolve nella denuncia di un mero errore di percezione, consistente nell’affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, di una realtà fattuale processuale in manifesto contrasto con quella effettiva. L’errore denunciato, pertanto, essendo avulso da qualsiasi attività valutativa del giudice di merito diretta a fornire dimostrazione del proprio assunto, si sostanzia in un vizio revocatorio, che avrebbe dovuto essere fatto valere con il rimedio previsto dall’art. 395 n. 4 c.p.c.

3) Con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2932 c.c. e l’erronea motivazione. Sostiene che la Corte di Appello ha disposto il trasferimento dell’immobile oggetto del preliminare di vendita in mancanza dell’indispensabile presupposto dell’adempimento del promittente acquirente, non sussistendo alcuna prova che il S. avesse convocato il F. davanti al notaio per il 13-4-2000.
Il motivo rimane assorbito dal rigetto del secondo, partendo dal presupposto – non verificabile in questa sede per le ragioni innanzi esposte – dell’avvenuta contestazione, da parte del S., dell’asserita convocazione davanti al notaio per il 13-4-2000, e della conseguente necessità, per il F., di dare prova del suo assunto.

4) Per le ragioni esposte il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese sostenute dal resistente nel presente grado di giudizio, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 3.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge.

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