sbarra elettronica

Suprema Corte di Cassazione

sezione II

sentenza 6 febbraio 2014, n. 2723

Svolgimento del processo

1. La “A.I. s.r.l.”, proprietaria di un immobile sito in Napoli alla F. Crispi n. 2, tramite il suo liquidatore, conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Napoli, la “G.E.D.I. s.p.a.” proprietaria di un immobile attiguo. La società attrice esponeva che l’immobile de quo aveva un ingresso secondario attraverso una piccola area scoperta, anch’essa di sua proprietà, munita di cancello che apriva su Piazza Amedeo. Su detta area scoperta gravava servitù di passaggio a favore di un’immobile di proprietà della convenuta che era da essa separato tramite un cancello scorrevole. Nel periodo in cui l’immobile della società attrice era locato alla “A.G.”, la “G.E.D.”, all’epoca solo conduttrice dei locali poi divenuti di sua proprietà, aveva chiesto ed ottenuto dalla “A.I.” di installare una sbarra elettrica con telecomando a ridosso del cancello d’ingresso posto sulla Piazza Amedeo n. 9, al fine di evitare i disagi procurati dalla “A.”, che era solita ingombrare con i suoi autoveicoli l’area gravata da servitù. Tuttavia, allorché la “A.I.” aveva richiesto alla “G.E.D.”, nel frattempo divenuta proprietaria del fondo dominante, di eliminare la sbarra, questa si era rifiutata. La società attrice contestava l’illegittimità del rifiuto, in quanto l’autorizzazione ad apporre la sbarra doveva considerarsi a carattere temporaneo e finalizzata alla contingente esigenza di contenere i fastidi causati dal comportamento della “A.G.”; in più l’autorizzazione era stata concessa alla G.E.D. nell’ambito di un contratto di locazione non più esistente. Dunque, l’autorizzazione non poteva intendersi quale patto modificativo dell’esercizio della servitù, in quanto un tal tipo di patto sarebbe dovuto avvenire fra i proprietari dei fondi e non con il conduttore del fondo dominante. Infine, il mantenimento della sbarra avrebbe vanificato l’esercizio delle facoltà dominicali del fondo servente, con eccedenza delle facoltà del fondo dominante. Pertanto, la “A.I.” chiedeva di accertarsi l’intervenuta inefficacia dell’autorizzazione a suo tempo concessa alla “G.E.D.” o in subordine la sua nullità, per non essere stata pattuita tra i legittimi proprietari dei fondi, ed infine di accertare che l’esercizio della servitù a favore della “G.E.D.” non potesse privare l’attrice dell’ esercizio delle sue facoltà dominicali, con condanna della convenuta al risarcimento dei danni subiti a causa delle ripercussioni della condotta della “G.E.D.” sul contratto di locazione in essere con la “H.” (alla quale nel frattempo era stato locato l’immobile).
2. La convenuta società, costituitasi, rilevava come la sbarra fosse stata apposta con il consenso dell’attrice ed in osservanza delle precipue modalità da quest’ultima indicate, al fine di consentire l’esercizio della servitù in favore del fondo dominante quotidianamente impedita dal comportamento dell’allora conduttrice A. Inoltre, eccepiva la nullità dell’atto di citazione per assoluta indeterminatezza della domanda attrice e della causa petendi. Infine, eccepiva che la situazione attuale giustificava il mantenimento della sbarra, in considerazione della condotta dei dipendenti della nuova conduttrice, la “H. s.p.a.”, che erano soliti parcheggiare i propri veicoli proprio nella zona tra il cancello di Piazza Amedeo e la sbarra.
3. Il Tribunale adito non accoglieva l’eccezione di nullità dell’atto di citazione, ma rigettava la domanda nel merito e condannava la società attrice in liquidazione al pagamento delle spese di giudizio.
4. La sentenza veniva appellata dalla “A.E.T. – Apparati Elettromeccanici e Telecomunicazioni s.r.l.” in qualità di acquirente dell’immobile, quale successore a titolo particolare nel diritto controverso della “A.I. s.r.l.”. La “A.E.T.”, ribadendo le domande avanzate in primo grado dalla sua dante causa, chiedeva di accertare l’intervenuta inefficacia dell’autorizzazione all’apposizione della sbarra (per essere venute meno le ragioni giustificatrici e, in ogni caso, per la sopravvenuta manifestazione della volontà contraria della concedente) o, comunque, la sua nullità (per non essere intervenuta tra i proprietari), con condanna della convenuta a rimuovere la sbarra e al risarcimento dei danni da liquidarsi anche in via equitativa. Si costituiva la “G.E.D.” chiedendo il rigetto dell’impugnazione.
5. La Corte d’Appello di Napoli dichiarava fondato il gravame condannando la “G.E.D.” alla rimozione della sbarra e al pagamento delle spese di entrambi i gradi di giudizio, ma rigettando la domanda risarcitoria. Il giudice d’appello rilevava che l’autorizzazione ad apporre la sbarra de qua, anche intesa come patto modificativo delle modalità di esercizio della servitù di passaggio, doveva ritenersi nulla, in quanto necessitante della forma scritta. Peraltro, l’autorizzazione era intervenuta tra il proprietario del fondo servente ed il conduttore (non già il proprietario) del fondo dominante, nell’ambito di un contratto poi estinto. Inoltre, sottolineava che dalle testimonianze acquisite si evinceva la volontà delle parti di limitare la durata dell’autorizzazione a quella della locazione della “A.G.”. In più, la Corte osservava che, essendo nel caso di specie la regolamentazione del diritto di servitù ricavabile con certezza dal titolo, qualsiasi innovazione era preclusa, risolvendosi in un’abusiva imposizione sul fondo servente di un peso diverso da quello originariamente costituito. Infine, evidenziava la Corte di merito che l’apposizione della sbarra e l’esclusiva possibilità di utilizzo di questa in capo alla “GED” (che si era rifiutata di consegnare le chiavi del meccanismo di apertura) avevano, come accertato dal CTU, di fatto precluso all’appellante l’accesso ad una zona di sua proprietà, con conseguente compromissione del diritto dominicale.
La domanda di risarcimento veniva, invece, rigettata per difetto della prova del danno-conseguenza.
6. Avverso la suddetta sentenza propone ricorso per cassazione la “GED I. s.p.a.” in persona del sig. C.M., quale amministratore unico, con quattro motivi. Resiste con controricorso la “A.E.T. Accessori Elettrici e Telefonici s.r.l.” quale successore a titolo particolare nel diritto controverso per aver acquisito la proprietà dell’immobile oggetto del presente giudizio.

Motivi del ricorso

Il ricorso è infondato e va rigettato per quanto di seguito si chiarisce con riguardo ai singoli motivi avanzati.
1. Col primo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., il vizio di «omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio consistente nell’aver ritenuto che il titolo costitutivo del diritto di servitù è chiaro e ben definito ex art. 1063 c.c., con conseguente ritenuta inapplicabilità delle disposizioni di cui agli arti. 1064 e 1065 c.c.». L’affermazione della Corte di merito è carente di adeguata motivazione, poiché si ritiene erroneamente che l’atto di costituzione della servitù “prevede espressamente il passaggio pedonale e carrabile attraverso una zonetta di cortile che resta di proprietà della società venditrice”. Tale motivazione è insufficiente, dal momento che, al di là della pacifica esistenza del diritto di passaggio pedonale e carrabile, non dà conto alcuno dell’oggettiva carenza, in detto titolo, di alcun altra indicazione in ordine alle modalità specifiche del relativo esercizio.
Sulla base di questa generica, interpretazione del titolo costitutivo del diritto di servitù, la Corte d’Appello ha ritenuto inapplicabili le disposizioni di cui agli art. 1064 e 1065 c.c.. Se, invece, avesse preso atto che l’indicazione “passaggio pedonale e carrabile” era assolutamente inidonea a definire in maniera chiara ed inequivocabile le modalità di esercizio del diritto, avrebbe dovuto concludere per l’applicazione sussidiaria delle suddette norme codicistiche, in accordo col giudice di prime cure. La Corte non ha spiegato sulla base di quali risultanze processuali il contenuto del titolo sia stato ritenuto chiaro ed inequivocabile, in relazione sia all’estensione, sia alle modalità di esercizio della servitù, in modo da giustificare una decisione di segno contrario a quella cui era pervenuto il Tribunale. Inoltre, la Corte Territoriale, senza fornire adeguata motivazione, ha altresì sconfessato la sentenza di primo grado con riferimento alla pretesa compressione del diritto dominicale del proprietario del fondo servente, aderendo acriticamente alle prospettazioni dell’appellante.
1.1 Il motivo è infondato.

La sentenza impugnata ha affermato che «non appare sussistere alcuna incertezza sulle modalità di esercizio della servitù di passaggio, state la chiara ed in equivoca formulazione contenuta» nell’atto di costituzione ed il motivo attinge ad una interpretazione del titolo, che è rimessa in via esclusiva al giudice di merito e che appare adeguatamente e logicamente motivata. Quanto alla compressione del diritto del proprietario del fondo servente, la sentenza ha rimarcato, richiamando l’apprezzamento del c.t.u., che l’apposizione della sbarra senza consegna delle chiavi di apertura ha determinato di fatto l’impossibilità del proprietario di accedere ad una zona di sua proprietà e di esercitarne le relative facoltà, sia pure nel rispetto della servitù.
2. Col secondo motivo di ricorso, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., si deduce il vizio di «violazione o falsa applicazione di norme di diritto, consistente nell’aver ritenuto sussumibile la fattispecie concreta nell’ambito della disciplina di cui all’art. 1063 c. c. invece che in quella sussidiaria prevista dagli artt. 1064 e 1065 c.c.». La Corte d’Appello ha erroneamente ritenuto applicabile al caso di specie la disciplina di cui all’art. 1063 c.c., ritenendo che il titolo costitutivo della servitù di passaggio disciplinasse in modo chiaro le modalità di esercizio della servitù stessa. Tuttavia, dalla lettura del titolo costitutivo si evince che lo stesso si limita a prevedere unicamente la sussistenza della servitù senza stabilire le modalità del suo esercizio. In assenza di un’espressa regolamentazione del diritto di servitù, andava applicata la disciplina sussidiaria predisposta dal codice civile. Tale disciplina consente di regolamentare il passaggio con l’apposizione della sbarra. Infatti, il divieto previsto dal primo comma dell’art. 1067 c.c. non impedisce al titolare della servitù di apportare al proprio fondo modifiche volte ad assicurarne una migliore utilizzazione. Dunque, la Corte Territoriale ritenendo inapplicabile al caso di specie la disciplina codicistica, è incorsa nel vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto.
Viene formulato il seguente quesito di diritto: «Chiarire definitivamente se, …sia ravvisabile la denunciata violazione o falsa applicazione di norme di diritto e se la fattispecie concreta, oggetto del presente ricorso, debba essere regolamentata dalla disciplina prevista dall’art. 1063 c.c., ovvero, come ritenuto dallo scrivente, da quella prevista dagli art. 1064 e 1065 c.c., con tutte le conseguenze di legge.»
2.1 – Seppure ammissibile in relazione al quesito generico che si traduce in un non consentito interpello alla Corte, il motivo è infondato, risultando assorbita dall’infondatezza del primo motivo la questione della non applicabilità degli artt. 1064 e 1065 ed essendo esclusa la violazione dell’art. 1067 perché l’innovazione aveva comportato in fatto l’impossibilità per il proprietario del fondo servente di accedere ad una zona di sua proprietà e di esercitarne le relative facoltà, sia pure nel rispetto della servitù esistente.
3. Col terzo motivo, ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., si deduce il vizio di «omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa altro fatto controverso e decisivo per il giudizio, consistente nel non aver neppure affrontato il tema centrale e assorbente del giudizio stesso, se cioè sia vero, come si ritiene indiscutibilmente accertato in atti, o non sia vero che l’eliminazione della sbarra determinerebbe la compressione dei diritti spettanti al fondo dominante».
Difetta nella sentenza impugnata la motivazione circa la decisione della Corte di aderire al parere espresso dal CTU, sconfessando la statuizione del giudice di prime cure che aveva escluso qualsiasi compressione dei diritti dominicali della “A.I. s.r.l.”. La rilevanza e delicatezza del punto controverso avrebbe imposto una specifica e puntuale motivazione.
3.1 Il motivo risulta inammissibile per carenza d’interesse della ricorrente a censurare la sentenza in relazione ad un pregiudizio che ne deriverebbe alla resistente.
4. Col quarto motivo di ricorso, ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., si deduce il vizio di «omessa insufficiente e contraddittoria motivazione circa un ulteriore fatto controverso e decisivo per il giudizio, consistente nel non aver neppure affrontato altro tema centrale della controversia, che cioè la ritenuta compressione dei diritti dominicali non determina l’impedimento all’esercizio del diritto di servitù di passaggio».
La sentenza del Tribunale aveva accertato che l’esercizio del diritto dominicale della società proprietaria del fondo servente è del tutto compatibile con il mantenimento della sbarra, dato che la A.E.T. (avente causa della “A.I.”) ha, comunque, libero accesso illimitato all’area cortilizia attraverso il passaggio pedonale sempre invariabilmente esistito. Viceversa, la Corte d’Appello, non offrendo alcuna argomentazione di fatto e giuridica, ha fatto propria la tesi circa la sussistenza della compressione del diritto dominicale.
4.1 – Il motivo risulta di difficile comprensione. Se il motivo è inteso a rilevare che la compressione dei diritti dominicali non aveva determinato un impedimento al diritto di passaggio del proprietario, risulta infondato. Infatti, anche se la sbarra impediva il solo passaggio carrabile, il rifiuto della AET di consegnare le chiavi di tale sbarra aveva comportato la limitazione del diritto del proprietario al solo accesso pedonale all’arca di sua proprietà. L’apposizione della sbarra, tenuto conto della situazione ambientale, poteva rientrare tra adminicula servitutis (il diritto di servitù comprende tutto ciò che è necessario per usarne – art. 1064 cod. civ.), ma il diniego di consegna delle chiavi ricadeva nel divieto del proprietario del fondo dominante di aggravare l’esercizio della servitù – art. 1067 cod. civ.).
5. Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la parte ricorrente alle spese di giudizio, liquidate in 2.500,00 (duemilacinquecento) curo per compensi e 200,00 (duecento) curo per spese, oltre accessori di legge.

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