SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE II
SENTENZA 30 settembre 2014, n. 40382
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
- F.S., D.F. e Da.An. ricorrono per cassazione – a mezzo dei loro rispettivi difensori – avverso la sentenza della Corte di Appello di Catanzaro del 7.11.2013, che ha confermato la pronuncia del Tribunale di Vibo Valentia, con la quale sono stati condannati per i delitti di cui ai capi: A) art. 110 c.p., art. 628 c.p., commi 1 e 3 e 3-bis; B) art. 110 c.p., art. 61 c.p., n. 2, art. 624 bis c.p., commi 1 e 3 in relazione all’art. 625 c.p., n. 1; C) art. 110 c.p., art. 61 c.p., n. 2 e art. 614 c.p., commi 1 e 4; D) artt. 110 e 81 cpv. c.p., art. 61 c.p., n. 2 e art. 635 cod. pen..
- F.S. e Da.An., con ricorso congiunto, propongono tre motivi:
2.1. Col primo e col secondo motivo di ricorso, deducono la violazione e la erronea applicazione dell’art. 125 cod. proc. pen., artt. 628, 624 bis, 614 e 635 cod. pen., nonchè la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata con riferimento alla ritenuta responsabilità degli imputati in ordine ai reati loro ascritti. Lamentano che la motivazione della sentenza di appello in ordine al giudizio di responsabilità degli imputati sarebbe assolutamente mancante, meramente apparente, priva di alcuna consistenza; deducono che la sentenza impugnata avrebbe omesso di esaminare le doglianze mosse con l’atto di appello in ordine alle immagini estrapolare dall’hard disk e, inoltre, avrebbe richiamato per relationem la motivazione della sentenza di primo grado, senza affrontare i nodi principali del gravame.
Le doglianze sono inammissibili.
Invero, le censure mosse dai ricorrenti non superano la soglia della assoluta genericità. Nel ricorso si enunciano ben noti principi della giurisprudenza di questa Corte, non collegati – però – a precise censure motivazionali. Non si specifica quali, tra i motivi di appello, la Corte territoriale avrebbe omesso di esaminare (anche con riferimento alle immagini estrapolare dall’hard disk, la doglianza rimane su un piano di assoluta genericità). Si critica il fatto che la Corte distrettuale abbia richiamato per relationem la motivazione della sentenza di primo grado, senza considerare la legittimità di tale rinvio.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, infatti, ‘in tema di sentenza penale di appello, non sussiste mancanza o vizio della motivazione allorquando i giudici di secondo grado, in conseguenza della completezza e della correttezza dell’indagine svolta in primo grado, nonchè della corrispondente motivazione, seguano le grandi linee del discorso del primo giudice. Ed invero, le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione’ (Cass., Sez. 3, n. 4700 del 14.2.1994 Rv 197497, Sez. 2, n. 11220 del 13.11.1997 Rv 209145). In altri termini, nel caso di ‘doppia conforme’, la sentenza di secondo grado va letta unitariamente alla sentenza di primo grado che ne risulta confermata, ove il giudice di appello abbia condiviso le argomentazione del primo giudice, alle quali può rinviare, senza necessità di reiterarle.
In realtà, le censure mosse dal ricorrente finiscono per attaccare il merito della valutazione delle prove, come esplicitato nella motivazione delle due sentenze di merito. Si tratta, però, di un profilo del giudizio che è insindacabile in sede di legittimità, quando – come nel caso di specie – risulta che i giudici di merito hanno esposto in modo ordinato e coerente le ragioni che giustificano la loro decisione (richiamando, tra l’altro, il contenuto delle video- riprese, il riconoscimento del Carabiniere S. e delle dichiarazioni delle persone offese), sicchè deve escludersi tanto la mancanza quanto la manifesta illogicità della motivazione, che costituiscono i vizi (‘di macroscopica evidenza’, ‘percepibili ‘ictu oculi”: cfr. Cass., sez. un., n. 24 del 24.11.1999 Rv 214794; Sez. un., n. 47289 del 24/09/2003 Rv. 226074) che circoscrivono l’ambito in cui è consentito il sindacato di legittimità sulla motivazione in facto.
2.2. Col terzo motivo, i ricorrenti deducono la violazione ed erronea applicazione degli artt. 132 e 133 cod. pen., nonchè il vizio di motivazione della sentenza impugnata relativamente alla quantificazione della pena e al diniego delle circostanze attenuanti generiche.
La censura è manifestamente infondata, alla luce della puntuale motivazione dei giudici di appello.
I giudici di appello hanno ritenuto adeguata la pena determinata dal giudice di primo grado, considerandola bene perequata rispetto al reale disvalore del fatto, spiegando di non potere concedere le attenuanti generiche alla luce della gravità del danno e del pericolo cagionato alle persone offese, del tempo e del luogo del fatto, della intensità del dolo, dei motivi a delinquere e del comportamento processuale degli imputati.
E sul punto, va ricordato il principio espresso più volte da questa Corte secondo cui la concessione o meno delle circostanze attenuanti generiche è oggetto di un giudizio di fatto, insindacabile in cassazione, ove motivato in modo congruo e non contraddittorio (Sez. 6, n. 42688 del 24/9/2008, Caridi, Rv. 242419; Sez. 2, n. 3609 del 18/1/2011, Sermone, Rv. 249163); questa stessa Corte ha peraltro statuito che, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione (Sez. 6, n. 34364 del 16/6/2010, Giovane, Rv. 248244).
- D.F. propone sei motivi di ricorso:
3.1. Col primo motivo, deduce la violazione degli artt. 55, 191, 327, 348, 358 e 359 cod. proc. pen., il travisamento degli atti processuali, nonchè la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata con riferimento alla ritenuta utilizzabilità del materiale probatorio contenuto nel fascicolo processuale.
Deduce, in particolare, che la estrapolazione dei fotogrammi della videoregistrazione in sequestro sarebbe avvenuto (ad opera di un ausiliario nominato dalla stessa polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 348 c.p.p., comma 4) in violazione delle direttive di indagine impartite dal pubblico ministero, ciò che avrebbe determinato la inutilizzabilità – come prova – delle immagini estrapolate.
La censura è manifestamente infondata.
E invero, anche dopo l’assunzione della direzione delle indagini da parte del pubblico ministero, la polizia giudiziaria gode di autonomi poteri di indagine ex art. 348 c.p.p., comma 4, che non consentono di configurare la inutilizzabilità della prova adombrata dal ricorrente.
In ogni caso, poi, anche a voler ipotizzare la dedotta inutilizzabilità, si tratterebbe di inutilizzabilità che non potrebbe farsi valere nel giudizio abbreviato.
Come hanno statuito le Sezioni Unite di questa Corte Suprema, ‘il giudizio abbreviato costituisce un procedimento ‘a prova contratta’, alla cui base è identificabile un patteggiamento negoziale sul rito, a mezzo del quale le parti accettano che la regiudicanda sia definita all’udienza preliminare alla stregua degli atti di indagine già acquisiti e rinunciano a chiedere ulteriori mezzi di prova, così consentendo di attribuire agli elementi raccolti nel corso delle indagini preliminari quel valore probatorio di cui essi sono normalmente sprovvisti nel giudizio che si svolge invece nelle forme ordinarie del ‘dibattimento’. Tuttavia tale negozio processuale di tipo abdicativo può avere ad oggetto esclusivamente i poteri che rientrano nella sfera di disponibilità degli interessati, ma resta privo di negativa incidenza sul potere-dovere del giudice di essere, anche in quel giudizio speciale, garante della legalità del procedimento probatorio. Ne consegue che in esso, mentre non rilevano nè l’inutilizzabilità cosiddetta fisiologica della prova (cioè quella coessenziale ai peculiari connotati del processo accusatorio, in virtù dei quali il giudice non può utilizzare prove, pure assunte ‘secundum legem’, ma diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento secondo l’art. 526 cod. proc. pen., con i correlati divieti di lettura di cui all’art. 514 c.p.p.), in quanto in tal caso il vizio-sanzione dell’atto probatorio è neutralizzato dalla scelta negoziale delle parti, di tipo abdicativo, nè le ipotesi di inutilizzabilità ‘relativa’ stabilite dalla legge in via esclusiva con riferimento alla fase dibattimentale, va attribuita piena rilevanza alla categoria sanzionatoria dell’inutilizzabilità cosiddetta ‘patologica’, inerente, cioè, agli atti probatori assunti ‘contra legem’, la cui utilizzazione è vietata in modo assoluto non solo nel dibattimento, ma in tutte le altre fasi del procedimento, comprese quelle delle indagini preliminari e dell’udienza preliminare, nonchè le procedure incidentali cautelari e quelle negoziali di merito’ (Cass., Sez. Un., n. 16 del 21/06/2000 Rv.216246).
Su questa scia, la successiva giurisprudenza di questa Corte ha statuito, con un orientamento pienamente condiviso dal Collegio, che ‘Nel giudizio abbreviato sono rilevabili e deducibili solo le nullità di carattere assoluto e le inutilizzabilità cd.patologiche’ (Cass., Sez. 5, n. 46406 del 06/06/2012 Rv. 254081; Sez. 2, n. 19483 del 16/04/2013 Rv. 256038), in quanto la scelta negoziale dell’imputato è di tipo abdicativo e implica l’accettazione di tutte le risultanze degli atti, ad eccezione di quelle sopra nominate.
Nella specie, non potendosi ravvisare alcuna inutilizzabilità patologica (nel senso sopra detto) nell’accertamento eseguito autonomamente dalla polizia giudiziaria, la scelta del rito abbreviato da parte dell’imputato, con l’accettazione di tutte le risultanze degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, risulta preclusiva della dedotta doglianza.
3.2. Col secondo e col terzo motivo di ricorso, si deduce la inosservanza e l’erronea applicazione degli artt. 125, 191 e 546 cod. proc. pen., il travisamento degli atti processuali, nonchè la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata con riferimento alla ritenuta responsabilità dell’imputato. Si deduce, in particolare, che i giudici di merito avrebbero travisato le risultanze processuali, dando erroneamente credito alle persone offese e alle contraddittorie dichiarazioni da esse rese, così pervenendo a ritenere provata l’asportazione di beni (denaro contante e due telefoni cellulari) dal domicilio delle stesse; non avrebbero precisato il ruolo che il D. avrebbe svolto durante la commissione della rapina; avrebbero errato nel non derubricare la rapina in un reato meno grave, tenuto conto che – a dire del ricorrente – le minacce rivolte alle persone offese non sarebbero state finalizzate all’impossessamento, ma avevano una finalità ben più circoscritta, relativa a precedenti contrasti tra le parti.
Le censure sono inammissibili.
Il ricorrente, infatti, critica – sotto mentite spoglie – la valutazione delle prove da parte dei giudici di merito e le conclusioni cui essi sono pervenuti in ordine alla sua responsabilità penale. La valutazione delle prove, tuttavia, è riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito e non è sindacabile in cassazione; a meno che ricorra una mancanza o una manifesta illogicità della motivazione, ciò che – nel caso di specie – deve però escludersi.
Le Sezioni Unite di questa Corte, sul punto, hanno avuto occasione più volte di precisare che ‘L’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato – per espressa volontà del legislatore – a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. L’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ‘ictu oculi’, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purchè siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento’ (Cass., sez. un., n. 24 del 24.11.1999 Rv 214794; Sez. un., n. 47289 del 24/09/2003 Rv. 226074).
Nel caso di specie, i giudici di merito hanno chiarito, con dovizia di argomenti, le ragioni della loro decisione (richiamando, tra l’altro, le plurime dichiarazioni delle persone offese, la chiamata in correità del R., che indica specificamente – oltre gli altri imputati – la persona del D.; il riconoscimento effettuato sui fotogrammi della video-ripresa dal carabiniere S. e le stesse ammissioni del F. in ordine alla identità dei soggetti impressi nei fotogrammi); non si ritiene, peraltro – per ovvi motivi – di riportare qui integralmente tutte le suddette argomentazioni, sembrando sufficiente al Collegio far rilevare che le stesse non sono manifestamente illogiche; e che, anzi, l’estensore della sentenza ha esposto in modo ordinato e coerente le ragioni che giustificano la decisione adottata, la quale perciò resiste alle censure del ricorrente sul punto.
Piuttosto, sono le censure mosse col ricorso che non prendono compiutamente in esame le argomentazioni svolte dai giudici di merito nel provvedimento impugnato, risultando così generiche e, anche sotto tale profilo, inammissibili, limitandosi a proporre a questa Corte una ricostruzione dei fatti alternativa rispetto a quella dei giudici di merito.
E tuttavia, come questa Corte ha più volte sottolineato, compito della Corte di cassazione non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dai giudici del merito (cfr. Cass, sez. 1, n. 7113 del 06/06/1997 Rv. 208241; Sez. 2, n. 3438 del 11/6/1998 Rv 210938), dovendo invece la Corte di legittimità limitarsi a controllare se costoro abbiano dato conto delle ragioni della loro decisione e se il ragionamento probatorio, da essi reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile; ciò che, come dianzi detto, nel caso di specie è dato riscontrare.
3.3. Col quarto motivo, il ricorrente deduce la inosservanza e l’erronea applicazione dell’art. 628 c.p., comma 3, n. 3-bis e art. 614 cod. pen.. Lamenta come la Corte territoriale avrebbe erroneamente escluso l’assorbimento del reato di cui all’art. 614 cod. pen. in quello di rapina aggravata ai sensi del comma 3, n. 3- bis cod. pen., dal momento che la introduzione nell’abitazione delle persone offese risulta contestata come aggravante della rapina; secondo il ricorrente, l’esclusione del dedotto assorbimento avrebbe determinato una duplicazione della pena inflitta.
Questa censura è fondata.
In materia di furto aggravato, prima della introduzione (ad opera della legge n. 128 del 2001) dell’apposita figura criminosa di cui all’art. 624 bis cod. pen., questa Corte ha avuto modo di statuire che il delitto di violazione di domicilio è assorbito nell’aggravante del furto ex art. 625 c.p., n. 1 (Sez. 2, n. 7089 del 18/03/1988 Rv. 178620); che il furto aggravato dall’introduzione in edificio abitativo è reato complesso, unificandosi in esso, quale circostanza aggravante, la violazione di domicilio consumata, poichè questa costituisce reato-mezzo, legato da nesso di strumentalità a quello di furto (Sez. 2, n. 8790 del 15/05/1987 Rv. 176473); che, tuttavia, il reato di violazione di domicilio resta assorbito nell’altro di cui all’art. 624 c.p. e art. 625 c.p., n. 1, sotto la forma del reato complesso, solo quando l’agente si introduce o si trattiene nell’altrui abitazione al fine esclusivo di commettere un furto, mentre si ha il concorso di entrambi i reati (artt. 614 e 624 c.p. e art. 625 c.p., n. 1) nel caso in cui l’agente, introdottosi nell’altrui abitazione, contro la espressa volontà di chi aveva il diritto di escluderlo, per fini diversi, vi si sia poi trattenuto allo scopo di sottrarre cose dall’abitazione stessa (Sez. 2, n. 653 del 17/03/1969 Rv. 111682).
Su questa scia, ricorrendo la eadem ratio, deve ritenersi che, dopo l’introduzione – ad opera della L. n. 94 del 2009 – dell’apposita aggravante di cui all’art. 628 cod. pen., comma 3, n. 3-bis la commissione di una rapina nei luoghi di cui all’art. 624 bis cod. pen. (edificio o altro luogo destinato a privata dimora), quando la introduzione in tali luoghi abbia avuto il fine esclusivo di impossessarsi con violenza o minaccia della cosa mobile altri, dia luogo ad un ‘reato complesso’ (art. 84 cod. pen.), quale deve ritenersi il delitto di cui all’art. 628 c.p., comma 1 e comma 3, n. 3-bis, ossia ad una figura criminosa nella quale convergono gli elementi costituitivi di altri reati. In altri termini, si verifica un concorso apparente di norme, per cui più sono le fattispecie criminose che sembrano applicabili, ma una soltanto di esse è in realtà applicabile, perchè gli elementi costitutivi di una o più fattispecie criminose vanno a convergere nella fattispecie del reato complesso.
In questi casi, come stabilisce l’art. 84 cod. pen., non si applicano le norme sul concorso dei reati, col conseguente cumulo delle pene, ma si applica la sola pena prevista per il reato complesso.
Pertanto, ha errato il giudice di merito, dopo aver quantificato la pena per la rapina aggravata dall’art. 628 cod. pen., comma 3, n. 3- bis (capo A), ad aumentarla – ai sensi dell’art. 81 cpv. cod. pen. – per il delitto di violazione di domicilio (capo C), dovendosi considerare tale ultimo delitto assorbito nel primo.
In questo senso, va annullata la sentenza impugnata limitatamente alla ritenuta autonoma sussistenza del delitto di violazione di domicilio (capo C) e al relativo aumento di pena per la continuazione, che va eliminato.
Tale statuizione, seppure scaturente dal ricorso del solo D., va estesa anche agli altri imputati, stante l’effetto estensivo dell’impugnazione di cui all’art. 587 cod. proc. pen..
Ne deriva che, avendo il giudice di merito determinato l’aumento di pena per F.S. in ordine al delitto di cui al capo C) in mesi 6 ed Euro 400 di multa, ridotto di un terzo per il rito a mesi quattro di reclusione ed Euro 266 di multa, eliminando tale aumento di pena, la pena finale complessivamente irrogata allo stesso (pari ad anni 4 mesi otto di reclusione ed Euro 2200 di multa) si riduce ad anni 4 mesi 4 di reclusione ed Euro 1.933 di multa.
Per Da.An. e D.F., avendo il giudice di merito determinato l’aumento di pena in ordine al delitto di cui al capo C) in mesi 4 di reclusione ed Euro 300 di multa, ridotto di un terzo per il rito a mesi 2 giorni 20 di reclusione ed Euro 200 di multa, eliminando tale aumento di pena, la pena finale complessivamente irrogata ai predetti (pari ad anni 4 di reclusione ed Euro 1600 di multa) si riduce ad anni 3 mesi 9 giorni 10 di reclusione ed Euro 1.400 di multa ciascuno.
3.4. Col quinto e col sesto motivo di ricorso, si deduce la violazione degli artt. 125 e 546 cod. proc. pen. e artt. 62 bis e 133 cod. pen., nonchè la carenza della motivazione della sentenza impugnata con riferimento alla mancata risposta alle censure di appello con le quali si chiedeva di rivalutare gli aumenti della pena irrogati, per effetto della continuazione relativamente ai delitti di furto aggravato e danneggiamento di cui ai capi B) e D) della rubrica e alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, pur in presenza della incensuratezza dell’imputato.
Questi motivi di ricorso sono inammissibili per le ragioni già evidenziate supra par. 2.2, al quale si rinvia.
Trattasi, peraltro, di profili del giudizio che sono insindacabili in sede di legittimità, quando – come nel caso di specie – risulta che i giudici di merito hanno esposto in modo ordinato e coerente le ragioni che giustificano la loro decisione, sicchè deve escludersi tanto la mancanza quanto la manifesta illogicità della motivazione, vizi che circoscrivono l’ambito del sindacato di legittimità.
Da ultimo, va ricordato che l’art. 62 bis c.p., u.c. vieta al giudice di concedere le circostanze attenuanti generiche sulla base della sola assenza di precedenti penali dell’imputato.
- In definitiva, la sentenza impugnata va annullata senza rinvio limitatamente al reato di cui all’art. 614 cod. pen., con relativa eliminazione della pena calcolata In aumento per tale reato. Il ricorso va invece, rigettato nel resto.
P.Q.M.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui all’art. 614 cod. pen. ed elimina la relativa pena calcolata in aumento sterminando così la pena finale per F.S. in anni 4 mesi 4 di reclusione ed Euro 1.933 di multa; per Da.
- e D.F. in anni 3 mesi 9 giorni 10 di reclusione ed Euro 1.400 di multa ciascuno; rigetta nel resto.
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