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Suprema Corte di Cassazione

sezione II

sentenza 3 marzo 2014, n. 4934

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato in data 17 dicembre 2003, la sig.ra P.I. , nella qualità di proprietaria in (omissis) di un fabbricato con antistante marciapiede, conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Pinerolo, i sigg. V.P.A. e Pe.Ma. , quali proprietari dell’immobile confinante, esponendo che dalla planimetria allegata al suo atto di acquisto risultava che la scala a confine con l’immobile poi acquistato dai predetti convenuti era di sua proprietà, sebbene soggetta ad uso comune e, siccome i predetti convenuti accampavano di essere comproprietari della menzionata scala e vi depositavano tavolini e vasi (di cui alcuni sulla finestra), chiedeva all’adito Tribunale che si accertasse che le indicate scale erano di sua esclusiva proprietà, con condanna dei medesimi convenuti alla rimozione degli oggetti sulle stesse depositati. Nella costituzione dei suddetti convenuti ed integrato il contraddittorio nei confronti dei sigg. G.R. e C.I. (ai quali si riteneva che la causa fosse comune e che rimanevano, peraltro, contumaci), il Tribunale di Pinerolo, con sentenza n. 359 del 2005, rigettava la domanda attorea sul presupposto che la scala apparteneva in comproprietà alle parti principali (costituite) della causa, condannando l’attrice alla rifusione delle spese giudiziali.
Interposto appello da parte della P. e nella resistenza dei soli appellati V. e Pe. , la Corte di appello di Torino, con sentenza n. 1979 del 2006 (depositata il 18 dicembre 2006), respingeva il proposto gravame e condannava la P. al pagamento anche delle spese del secondo grado.
A sostegno dell’adottata decisione, la Corte piemontese confermava la statuizione di prime cure con la quale era stata ritenuta applicabile, nel caso di specie, la presunzione prevista dall’art. 1117 c.c. e rilevata l’insussistenza di un titolo contrario all’operatività della stessa, risultando dai titoli di provenienza delle parti il riferimento alla scala oggetto del contendere del termine “comune” utilizzato sia per definire i confini dei diversi lotti sia per chiarire e precisare le correlazioni tra i diversi lotti nelle condizioni particolari, senza che potessero ritenersi rilevanti, in funzione dell’emergenza di un diverso risultato, i dati descrittivi desumibili dalle mappe catastali, ai quali era riconoscibile un mero significato sussidiario (che avrebbe, quindi, potuto essere utilizzato solo nell’eventualità in cui i titoli avessero presentato ambiguità o lacune).
Avverso la suddetta sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione la sig.ra P.I. , articolato in tre motivi. Gli intimati V.A.P. e Pe.Ma. si sono costituiti con controricorso, mentre le altre parti pure intimate non hanno svolto attività difensiva in questa sede. Il difensore della ricorrente ha anche depositato memoria difensiva ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo la ricorrente ha dedotto – in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c. – la violazione falsa applicazione dell’art. 1362 c.c., nella parte in cui la Corte territoriale aveva trascurato di valorizzare l’intenzione dei contraenti nell’atto pubblico di provenienza stipulato tra la stessa P.I. e i danti causa dei sigg. V. e Pe. , laddove l’esatta linea di confine era stata individuata ponendo riferimento alla planimetria sottoscritta dalle parti contraenti del rogito ed allegata all’atto divisionale, il quale, oltretutto, faceva ad essa espresso richiamo.
A corredo del dedotto motivo la ricorrente ha indicato – ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. (“ratione temporis” applicabile, risultando la sentenza impugnata pubblicata il 18 dicembre 2006) – il seguente quesito di diritto: “dica la S.C. se in materia di divisione negoziale di beni immobili, qualora la volontà dei contraenti sia nel senso di procedervi in conformità del tipo di frazionamento, da loro sottoscritto ed espressamente richiamato nel rogito divisionale, in caso di apparente divergenza tra il testo letterale dell’atto e la rappresentazione grafica costituita dal tipo di frazionamento e dalla planimetria allegata al medesimo rogito, nell’interpretazione della reale volontà negoziale debba o meno prevalere detta rappresentazione”.
2. Con il secondo motivo la ricorrente ha denunciato – in relazione all’art. 360, n. 5, c.p.c. – il vizio di omessa e/o insufficiente motivazione circa il fatto controverso e decisivo per il giudizio riferito alla circostanza di cui alla prima censura, sostenendo l’inadeguatezza del percorso logico adottato nella sentenza impugnata nella parte in cui essa si era discostata dall’indagine sulla reale e comune intenzione delle parti, limitandosi alla lettura della parole usate nel testo dell’atto negoziale.
3. Con il terzo motivo la ricorrente ha prospettato – ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c. – la supposta violazione dell’art. 345 c.p.c., formulando, al riguardo, in virtù del citato art. 366 bis c.p.c, il seguente quesito di diritto: “dica la S.C. se rientri o meno nel divieto stabilito dall’art. 345 c.p.c. la produzione degli atti pubblici notarili; dica, altresì, la S.C. se rientri o meno in tale divieto la produzione di memorie tecniche di parte, da considerare di natura e contenuto equivalente agli atti provenienti dal difensore della parte costituita in giudizio”.
4. Rileva il collegio che i primi due motivi – esaminabili congiuntamente in quanto strettamente connessi, essendo riferiti, sotto il duplice profilo della violazione di legge e del vizio di motivazione, alla stessa doglianza – sono fondati per le ragioni che seguono.
Con le due censure (assistite dall’idoneo assolvimento del requisito prescritto dall’art. 366 bis c.p.c.), la ricorrente ha inteso confutare la sentenza impugnata rilevando che la Corte territoriale si era limitata alla mera espressione (“scala comune”) utilizzata nel rogito di divisione del 1970 (quale atto di provenienza presupposto del contratto di vendita oggetto del contendere), senza, tuttavia, procedere – al fine di giungere all’individuazione dell’intenzione effettiva dei contraenti – ad una valutazione complessiva della volontà espressa dalle parti contraenti al momento della conclusione del suddetto atto pubblico di provenienza e, soprattutto, senza valorizzare la planimetria ad esso allegata con il tipo di frazionamento, espressamente richiamato nel medesimo atto notarile. I due motivi sono meritevoli di pregio perché la Corte di appello piemontese, al di là del mancato esame del contenuto complessivo dell’atto negoziale in questione (nello stesso controricorso, peraltro, si afferma che in esso era stata usata l’espressione “la scala resterà comune” e non “scala comune”, in tal senso adottandosi una terminologia equivoca in relazione all’effettiva attribuzione petitoria in regime di comunione della stessa, non potendosi escludere il riferimento alla sola mera utilizzazione della scala), la Corte di appello non ha valorizzato il dato – in funzione dell’interpretazione dell’effettiva intenzione delle parti contraenti – del riferimento alle risultanze della planimetria alla quale era stato fatto univoco richiamo e che formava parte integrante nel negozio divisionale presupposto, le quali avrebbero dovuto svolgere una funzione essenziale in chiave ermeneutica per stabilire l’effetto regime giuridico che si era inteso assegnare alla scala.
Inoltre, ancorché sia esatto qualificare le mappe catastali come fonti di valutazione semplicemente sussidiaria (alle quali, peraltro, non può farsi ricorso a fronte di un riferimento letterale del titolo che risulti univocamente interpretabile), la Corte di merito ha, nella fattispecie, omesso di considerare che la planimetria allegata all’atto notarile divisionale (con l’allegazione del relativo tipo di frazionamento) – contenente l’esatta individuazione delle parti oggetto della convenzione ed opportunamente distinte ai fini delle attribuzioni ai condividenti – formava propriamente parte integrante del predetto atto notarile, ragion per cui non avrebbe potuto essere completamente obliterato in funzione della valutazione, sul piano ermeneutico, del contenuto dell’atto medesimo.
A tal proposito, la giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 10698 del 1994; Cass. n. 11744 del 1999; Cass. n. 15304 del 2006 c. da ultimo, Cass. n. 20131 del 2013) ha condivisibilmente statuito che nell’interpretazione dei contratti di compravendita immobiliare, ai fini della determinazione della comune intenzione delle parti circa l’estensione dell’immobile compravenduto, i dati catastali, emergenti dal tipo di frazionamento approvato dai contraenti ed allegato all’atto notarile trascritto, e l’indicazione dei confini risultante dal rogito assurgono al rango di risultanze di pari valore. Pertanto, si è specificato (v. Cass. n. 5123 del 1999 e Cass. n. 6764 del 2003) che le piante planimetriche allegate ai contratti aventi ad oggetto immobili fanno parte integrante della dichiarazione di volontà, quando ad esse i contraenti si siano riferiti nel descrivere il bene, e costituiscono mezzo fondamentale per l’interpretazione del negozio, salvo, poi, al giudice di merito, in caso di non coincidenza tra la descrizione dell’immobile fatta in contratto e la sua rappresentazione grafica contenuta nelle dette planimetrie, il compito di risolvere la “quaestio voluntatis” della maggiore o minore corrispondenza di tali documenti all’intento negoziale ricavato dall’esame complessivo del contratto.
Da ciò consegue che il giudice del merito chiamato ad interpretare la volontà negoziale in un contratto di trasferimento di bene immobile è tenuto ad utilizzare il tipo di frazionamento e la planimetria catastale ai quali le parti abbiano posto univoco riferimento, onde, in caso di configurazione di dati contrattuali configgenti con tali documenti, egli deve risolvere la “quaestio voluntatis” in base all’esame complessivo del contratto stesso (e, quindi, valorizzando adeguatamente anche le risultanze planimetriche formanti parte integrante del rogito di provenienza), offrendo una motivazione che risponda ai requisiti di logicità e sufficienza (per potersi sottrarre al controllo in sede di legittimità).
A questo compito non ha assolto, nel caso di specie, la Corte di secondo grado che, per un verso, non si è conformata ai richiamati principi di diritto e, per altro verso, non ha valorizzato il criterio ermeneutico principale (previsto dall’art. 1362, comma 1, c.c.) riconducibile alla necessità di indagare su quale fosse stata l’effettiva intenzione comune dei contraenti (in sede di conclusione dell’atto divisionale di provenienza) a fronte di un’espressione letterale incerta ed ambigua, soprattutto omettendo di spiegare, in presenza di questo presupposto, se, pur attribuendo al significato letterale dell’espressione adoperata quello secondo cui era stato inteso conservare un regime di comproprietà sulla scala tra i condividenti, tale vantazione fosse risultata divergente rispetto all’allegata planimetria ed al frazionamento espressamente menzionati e richiamati nel testo del rogito divisionale (con particolare riguardo alle attribuzioni operate in favore della P.I. , dante causa degli attuali controricorrenti), quali documenti che ricoprivano, alla stregua di quanto precedentemente evidenziato, un’efficacia probatoria di pari valore in funzione dell’accertamento dell’effettiva portata complessiva del contratto.
5. In definitiva(alla stregua delle ragioni complessivamente svolte, devono essere accolti i primi due motivi del ricorso, da cui deriva l’assorbimento del terzo (riguardante una questione processuale dipendente), con la conseguente cassazione della sentenza impugnata ed il correlato rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Torino che, oltre a conformarsi ai principi di diritto precedentemente enunciati, provvederà anche sulla regolazione delle spese della presente fase di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie i primi due motivi del ricorso e dichiara assorbito il terzo; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, ad altra Sezione della Corte di appello di Torino.

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