dentista

Suprema Corte di Cassazione

sezione II

 sentenza  3 marzo 2014, n. 4828

Svolgimento del processo

1. – Il dottor G.P. ricorre avverso la decisione della Commissione Centrale per gli Esercenti le Professioni Sanitarie depositata il 2 agosto 2012, con la quale è stato respinto il ricorso proposto dallo stesso avverso la delibera dell’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri della Provincia di Milano del 29 giugno 2011 che gli aveva irrogato la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio della professione per tre mesi, . Secondo la Commissione centrale, devono considerarsi posti a carico del responsabile sanitario di una struttura i comportamenti abusivi perpetrati dal personale che nella struttura stessa opera. Tale responsabilità non sarebbe da configurare come responsabilità oggettiva – come sostenuto dal ricorrente – rientrando invece in un comportamento omissivo caratterizzato dal non aver posto in essere tutti gli accorgimenti necessari ad evitare che soggetti non abilitati compissero interventi non consentiti sui pazienti.

2. – Il ricorso del dott. P. è affidato a due motivi.

Motivi della decisione

1. – Con il primo motivo il ricorrente deduce la omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia in relazione al profilo di responsabilità invocato ed adottato nella decisione. La Commissione Centrale per gli Esercenti le Professioni Sanitarie avrebbe contraddittoriamente, da un lato, affermato che devono essere posti a carico del sanitario tutti i comportamenti abusivi tenuti dal personale che opera nella struttura, considerando a priori sussistente il profilo di responsabilità del sanitario per qualunque fatto del dipendente; e, dall’altro, ritenuto che nel caso di specie si sarebbe trattato di responsabilità per colpa, consistita in un comportamento omissivo causato dal non aver posto in essere tutti gli accorgimenti necessari volti ad evitare che soggetti non abilitati potessero compiere operazioni non consentite sui pazienti. Il vigente sistema giuridico – osserva il ricorrente – in materia di responsabilità per fatto altrui (art. 2049 cod.civ.), considera la fattispecie un caso di responsabilità oggettiva: il soggetto tenuto alla vigilanza risponde del fatto illecito del preposto, laddove si dia dimostrazione piena del nesso di occasionalità necessaria tra le mansioni affidate e l’evento dannoso. Nella specie, mancherebbero sia quest’ultimo – come confermato dalla inesistenza di alcun procedimento penale a carico del collaboratore, così come del ricorrente – sia il nesso di occasionalità necessaria, essendosi il collaboratore del tutto discostato, in modo così anomalo da poter essere ragionevolmente considerato eccezionale, dalle mansioni affidategli, sicchè l’evento in questione dovrebbe essere considerato del tutto eccezionale ed imprevedibile. In una ipotesi siffatta, attribuire al sanitario la responsabilità per i comportamenti del collaboratore implicherebbe la impossibilità di funzionamento della struttura, poiché qualunque attività da svolgere all’interno della stessa andrebbe effettuata in presenza del sanitario al fine di escluderne la responsabilità. Di più: per escludere la responsabilità per omessa vigilanza, servendosi di addetti ai servizi, non sarebbe sufficiente al sanitario agire con la massima diligenza professionale, ma sarebbe necessario compiere in proprio ogni attività della struttura. Né un provvedimento disciplinare potrebbe fondarsi sul principio della responsabilità oggettiva, mutuando il sistema sanzionatorio degli Ordini professionali dal sistema penale la necessità della sussistenza dell’elemento soggettivo in capo all’agente.

2. – La censura non merita accoglimento.

2.1. – La Commissione Centrale ha chiarito, nel provvedimento impugnato, che la responsabilità posta a carico del sanitario non si configura come una fattispecie di responsabilità oggettiva, ma è da ricomprendere tra le ipotesi di comportamento omissivo: l’attuale ricorrente è invero incolpato di non aver posto in essere, in qualità di responsabile sanitario dello Studio Matteotti s.a.s., destinato ad attività odontoiatrica, gli accorgimenti necessari perchè detta attività non fosse svolta da soggetti non abilitati. Era accaduto che, nel corso di una azione ispettiva presso detto Studio, la “assistente alla poltrona” fosse stata colta nell’atto di effettuare prestazioni odontoiatriche, che la stessa aveva affermato consistere nella ricementazione di un “ponte inferiore” staccatosi e nella rimozione di un punto di sutura ad un dente estratto alcuni giorni prima al paziente, il quale a causa dell’incidente occorsogli si era recato presso lo studio per ricevere un consiglio. Al riguardo, il ricorrente deduce che si sarebbe trattato di un singolo episodio, commesso da un soggetto che, forse pressato dal paziente, aveva esorbitato dalle proprie mansioni senza averne ricevuto autorizzazione da lui e quindi in modo imprevedibile. La condotta della collaboratrice non sarebbe stata, dunque, ricollegabile ad alcuna ipotesi di dolo o colpa grave del sanitario, attesa la sua eccezionalità.

2.2. – Ebbene, la prospettazione del dott. P. non scalfisce la coerenza del percorso argomentativo del provvedimento impugnato, che ha ravvisato nella condotta del sanitario un comportamento negligente, consistito nella omissione di ogni cautela idonea ad evitare che prestazioni a lui riservate fossero svolte da suoi collaboratori, a ciò non abilitati. Ed invero, sarebbe stato onere dell’odontoiatra di cui si tratta porre in essere quegli accorgimenti che la sua non continua presenza presso lo studio rendeva necessari per garantire che il personale operante presso la struttura non perpetrasse condotte abusive. In tale quadro, tra le prime misure da assumere vi era proprio quella di impedire interventi abusivi sui pazienti in assenza del sanitario. In definitiva, il provvedimento impugnato non ha configurato una ipotesi di responsabilità oggettiva, ravvisando, invece, con motivazione congrua e non illogica, un comportamento colposo in capo al professionista.

3. – Con il secondo motivo, proposto in via subordinata, si denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 38 del d.P.R. n. 221 del 1950.

4. – La doglianza è inammissibile per genericità, non trovando nel ricorso alcuna esplicazione e specificazione.

5. – Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato. Non vi è luogo a provvedimenti sulle spese del presente giudizio, non avendo gli intimati svolto alcuna attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

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