cassazione 5

Suprema Corte di Cassazione

sezione II

sentenza 29 luglio 2015, n. 33441

Ritenuto in fatto

Con sentenza in data 27/2/2015 la Corte di Appello di Milano, in riforma della sentenza emessa in data 10/1/2012 dal Tribunale di Lodi appellata dal Procuratore Generale e dalla parte civile, ha dichiarato D.G.E. colpevole del reato di truffa aggravata allo stesso ascritto e, concesse le attenuanti generiche equivalenti all’aggravante contestata, lo ha condannato alla pena di mesi 6 di reclusione ed Euro 160,00 di multa. La Corte di Appello ha, inoltre, condannato l’imputato al risarcimento dei danni da liquidarsi in separato giudizio in favore della parte civile T.V. .
Al D.G. , che era stato mandato assolto dal Tribunale di Lodi con la formula “perché il fatto non costituisce reato” si contesta, in estrema sintesi, di essersi fatto consegnare dal T. – previa rappresentazione di essere un contraente degno di credito e sottacendo le reali condizioni economiche cui versava la propria ditta – materiale (tubi in acciaio e lamiere) fornendo in pagamento assegni postdatati e privi di provvista per un ammontare complessivo di 39.848,26 Euro.
I fatti risultano consumati in (omissis) ed all’imputato è contestata la recidiva ex art. 99 cod. pen..
Ricorre per Cassazione avverso la predetta sentenza l’imputato personalmente, deducendo con un unico articolato motivo la violazione dell’art. 606, lett. e), cod. proc. pen. per mancanza di motivazione della sentenza impugnata, travisamento della prova ed utilizzazione di una informazione inesistente. Si duole, innanzitutto, il ricorrente del fatto che sebbene la sentenza impugnata faccia riferimento in più passaggi a “garanzie” e “rassicurazioni” che l’imputato avrebbe fornito alla parte offesa circa la copertura degli assegni dati in pagamento della mercé fornita, nel fascicolo di indagine non è contenuto alcun riferimento a ciò e neppure la persona offesa nella propria denuncia-querela ha menzionato tale fatto.
Il racconto della parte querelante non soddisfa quindi sul punto i requisiti di sufficienza e completezza necessari per ritenere provato il reato de qua atteso che la costante giurisprudenza ritiene necessario che sussista un quid pluris rispetto alla mera consegna di assegni post datati al fine di configurare gli artifizi e raggiri di cui all’art. 640 cod. pen..
A ciò si aggiunga che il fallimento della società dell’imputato (la Emmegi S.a.s. di D.G.E. & C.) è intervenuto dopo un anno e mezzo dalla consegna degli assegni al fornitore dei materiali (la società Thema Inox S.r.l.) e non vi sono elementi per ritenere che l’imputato fosse certo ab origine di non poter onorare i propri debiti.
Da ultimo, evidenzia il ricorrente che avendo la sentenza della Corte di Appello rovesciato il giudizio di primo grado la motivazione della stessa, secondo costante e recente giurisprudenza avrebbe dovuto essere fondata su di elementi dotati di effettiva e scardinante efficacia persuasiva per superare quel ragionevole dubbio che aveva portato il Giudice di prime cure a pronunciare sentenza assolutoria nei confronti dell’imputato. In sostanza nulla avrebbe detto la Corte di Appello circa i vizi motivazionali della sentenza di primo grado, limitandosi ad interpretare diversamente il materia probatorio acquisito.
In data 20/7/2015 la difesa della persona offesa ha fatto pervenire nella Cancelleria di questa Corte Suprema una memoria difensiva nella quale si contestano le affermazioni in fatto ed in diritto contenute nel ricorso dell’imputato.

Considerato in diritto

Il ricorso è manifestamente infondato.
Come è noto “in tema di truffa contrattuale, il pagamento di merci effettuato mediante assegni di conto corrente privi di copertura – non costituente, di norma, raggiro idoneo a trarre in inganno il soggetto passivo – concorre ad integrare l’elemento materiale del reato, qualora sia accompagnato da un malizioso comportamento dell’agente nonché da fatti e circostanze idonei a determinare nella vittima un ragionevole affidamento sul regolare pagamento dei titoli” (Cass. Sez. 2, sent. n. 10850 del 20/02/2014, dep. 06/03/2014, Rv. 259427) ne consegue che per integrare raggiro idoneo a trarre in inganno il soggetto passivo e a indurre alla conclusione del contratto occorre un “quid pluris” tale da determinare nella vittima un ragionevole affidamento sull’apparente onestà delle intenzioni del soggetto attivo e sul pagamento degli assegni (cfr. in tal senso anche Cass. Sez. 2, sent. n. 46890 del 06/12/2011, dep. 20/12/2011, Rv. 251452).
Con riguardo, poi, allo specifico caso dell’assegno postdatato si registra un arresto giurisprudenziale secondo il quale “integra il delitto di truffa, perché costituisce elemento di artificio o raggiro, la condotta di consegnare in pagamento, all’esito di una transazione commerciale, un assegno di conto corrente bancario postdatato, contestualmente fornendo al prenditore rassicurazioni circa la disponibilità futura della necessaria provvista finanziaria” (Cass. Sez. 2, sent. n. 28752 del 18/06/2010, dep. 22/07/2010, Rv. 247866). Trasferendo ora detti principi nel caso in esame va detto la Corte di Appello ha ritenuto nel rilevare quel quid pluris rispetto al mero inadempimento civilistico necessario per la configurabilità del reato di truffa (nella specie contrattuale) nel fatto che l’odierno ricorrente agì “rassicurando Andrea GOBBI, addetto all’Ufficio Vendite (della Thema Inox S.r.l. – ndr) che la società sarebbe stata certamente in condizioni di adempiere all’obbligazione pecuniaria che si apprestava ad assumere”.
La Corte distrettuale ha inoltre ritenuto rafforzato il proprio convincimento circa la sussistenza del fatto-reato in esame anche sotto il profilo dell’elemento psicologico dell’imputato in base alla circostanza che la società acquirente il materiale fallì dopo non molto tempo e che lo stato di decozione della stessa non poteva certo essersi creato solo negli ultimi mesi con la conseguenza che il D.G. ne era a conoscenza al momento della stipulazione del contratto e lo ha taciuto ai venditori del materiale.
Quella posta in essere dalla Corte di Appello è una motivazione congrua, rispondente alle emergenze processuali, certamente non manifestamente illogica né contraddittoria.
Il ragionamento posto in essere dalla Corte di Appello di fatto adeguatamente chiarisce le ragioni per la quali la stessa ha ritenuto di riformare la decisione del Giudice di prime cure e, quindi, anche sotto tale profilo non presenta vizi rilevabili in questa sede.
Per le considerazioni or ora esposte, dunque, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
Segue, a norma dell’articolo 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed al pagamento a favore della Cassa delle Ammende, non emergendo ragioni di esonero, della somma ritenuta equa di Euro 1.000,00 (mille) a titolo di sanzione pecuniaria.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *