La divisione

Suprema Corte di Cassazione

sezione II

sentenza 29 febbraio 2016, n. 3931

Considerato in fatto

I germani W.H. e M. convenivano nel 2003 innanzi al Tribunale di Bolzano Sezione Distaccata di Merano la sorella W.A. proponendo domanda di scioglimento della Comunione dei bei ereditati dal padre W.W. , deceduto nel 2001 ab intestato.
Costituitasi in giudizio la convenuta formulava domanda riconvenzionale di accertamento della proprietà esclusiva in capo ad essa dei mobili da essa acquistati per l’immobile già abitato dal defunto padre, nonché la condanna dei convenuti al pagamento della somma di Euro 6.500,00, oltre accessori per le migliorie da essa apportate al medesimo immobile e chiedendo inoltre la divisione dell’immobile in natura e, in via subordinata, l’assegnazione per intero dello stesso ad essa sola, con accertamento dei conguagli da corrispondersi agli altri coeredi.
Con sentenza n. 55/2009 l’adito Tribunale, ritenuto non comodamente divisibile l’immobile relato, lo attribuiva, per intero, ai due attori congiuntamente, stabilendo in favore della convenuta un conguaglio, pari ad un terzo del valore di mercato, di Euro 106.000,00, oltre interessi dalla sentenza, rigettando le domande riconvenzionali relative al mobilio ed alle migliorie e compensando per intero le spese del giudizio.
Avverso la succitata sentenza interponeva appello la W.A. chiedendo la riforma dell’impugnata decisione.
Resistevano all’avverso gravame, chiedendone il rigetto, gli originari attori appellati.
L’adita Corte di Appello di Trento Sezione Distaccata di Bolzano, con sentenza n. 92/2011, in parziale accoglimento dell’interposto gravame ed in riforma dell’impugnata decisione dichiarava la proprietà esclusiva dei mobili di cui in atti in capo alla W.A. , che veniva condannata alla refusione, in favore dei due germani appellati, della metà delle spese legali sostenute nei due gradi del giudizio, salve quelle di CTU poste a carico di tutti e tre i condividenti in ragione di un terzo ciascuno.
Per la cassazione della suddetta decisione della Corte Distrettuale ricorre la W.A. con atto affidato a sei ordini di motivi. Resistono con controricorso gli intimati.

Ritenuto in diritto

1. Con il primo motivo del ricorso si deduce il vizio di “motivazione illogica e contraddittoria su un punto rilevante ai fini della decisione”.
Il motivo non può essere accolto.
Esso è, infatti, del tutto carente in relazione al dovuto adempimento de110’onere di una la specifica indicazione del “punto” di fatto in ordine al quale sarebbe stata carente la motivazione, di cui si denuncia, col gravame, la carenza.
La Corte distrettuale, con sentenza fondata su argomentazioni logiche ed immuni da possibili censure, ha ritenuto che le pretese migliorie sono state addotte dall’odierna ricorrente in modo del tutto generico, anche con riferimento al periodo di esecuzione, e quindi in modo tale da non permettere neppure la quantificazione.
I quesiti (anche se non necessari e pure svolti nel ricorso) non colgono la suddetta ratio della gravata sentenza.
Il motivo è, quindi, inammissibile.
2. Con il secondo motivo del ricorso si deduce il vizio di “motivazione insufficiente, illogica e contraddittoria, nonché di erroneità della CTU e necessità di rinnovo delle operazione peritali”.
Il motivo è inammissibile.
È carente la dovuta indicazione di una fatto specifico in ordine al quale si sarebbe verificata la lamentata carenza motivazionale.
L’addotta erroneità della svolta CTU esula dal novero delle censure il cui esame è proprio di questa Corte (ovvero da censure alla sentenza gravata) e l’istanza, pure formulata in questa sede,di “rinnovo delle operazione peritali” si risolve in una inammissibile domanda di rivalutazione in fatto degli estremi della controversia, già oggetto dio corretta decisione innanzi al competente Giudice del merito.
3. Con il terzo motivo parte ricorrente lamenta la “violazione e falsa applicazione dell’art. 720 c.c. e motivazione insufficiente, illogica e contraddittoria”
Il motivo, corredato dalla formulazione (ancorché non necessaria nell’ipotesi) di quesiti plurimi prospetta in un unico indistinto contenitore censure attinenti sia a violazione di legge che a carenze motivazionale.
Le censure, sotto entrambi i profili, sono destituite di fondamento.
La Corte distrettuale, facendo buon governo delle norme e dei principi applicabili nella fattispecie, ha deciso – in punto – correttamente sulla base di adeguate argomentazioni qui condivise ed immuni da vizi logici censurabili in questa sede.
Più in particolare la pretesa, di parte ricorrente, di valutazione delle addotte migliorie al fine della determinazione dei conguagli è infondata.
La rilevanza, in proposito, delle dette migliorie è stata del tutto escluse da parte della Corte territoriale:questa è la vera ed effettiva ratio della sentenza gravata e neppure colta, in punto, dalla mossa censura in esame.
La stessa parte ricorrente non indica neppure perché andrebbe modificato l’orientamento giurisprudenziale (correttamente seguito da Corte App.), alla cui stregua le eventuali migliorie comportano solo un “mero diritto di conguaglio” a chi le ha apportate solo durante lo stato della comunione.
Quanto al predetto orientamento (Cass. n.ri 857/1999 e 12345/1991), qui ribadito, deve riaffermasi il principio per cui nel giudizio di divisione ereditaria le migliorie apportate da uno dei condividenti al bene vengono a far parte, per il principio dell’accessione, al bene stesso con la conseguenze che di esse deve tenersi conto ai fini della stima del bene, nonché della determinazione delle quote”.
Da tanto consegue l’ulteriore conseguenza, sotto il profilo giuridico (correttamente valutato con la decisione gravata) che “il coerede che abbia migliorato i beni comuni da lui posseduti, pur non potendo invocare l’applicazione dell’art. 1150 c.c., che riconosce il diritto ad una indennità … può pretendere il rimborso delle spese eseguite per la cosa comune, le quali si ripartiscono al momento della attribuzione delle quote, secondo il principio nominalistico, dato che lo stato di indivisione riconduce all’intera massa i miglioramenti stessi” (Cass. n. 1234571991).
In conclusione la parte ricorrente non poteva pretendere, in dipendenza delle prospettate migliorie, una diretta incisione sulla formazione ed attribuzione delle quote.
Peraltro la medesima parte ricorrente, come correttamente rilevato dalla Corte distrettuale, non aveva neppure “specificamente dedotto quali investimenti aveva effettuato solo dopo essere divenuta comproprietaria”, apportando così nella qualità di coerede le predette pretese migliorie.
Il motivo va, quindi, respinto per infondatezza.
4. Con il quarto motivo del ricorso si prospetta il vizio di “violazione e falsa applicazione dell’art. 720 c.c. per l’ulteriore profilo (della) motivazione insufficiente, illogica e contraddittoria”.
Parte ricorrente, in modo per la verità neppure facilmente intellegibile assume, in sostanza, l’erroneità della gravata decisione in punto di mancata valutazione delle pretese migliorie come “parte del bene”.
Al di la di ogni altra ragione e degli stessi elementi già innanzi evidenziati sub 3., la censura attinendo comunque ad una rivalutazione in fatto deve ritenersi inammissibile.
5. Con il quinto motivo del ricorso si deduce il vizio di “violazione e falsa applicazione degli artt. 720 e 1224 c.c. (nonché di) motivazione insufficiente, illogica e contraddittoria”.
Il motivo, peraltro corredato pure da quesito (la cui formulazione non era necessaria), verte sulla determinazione del debito del conguaglio che si assume non correttamente valutata dalla sentenza impugnata.
Senonchè la Corte territoriale ha correttamente non attribuita la richiesta ulteriore rivalutazione in quanto non era intercorso sun periodo sufficientemente lungo da CTU (2008 con sentenza 2009) tale da poter assumere rilievo al fine di un aumento delle quotazioni degli immobili e, quindi, della concessione rivalutazione su conguagli già determinati in modo aggiornato.
Peraltro è noto il principio, già affermato da questa Corte e qui ribadito, che, “in tema di divisione giudiziale immobiliare, il debito da conguaglio che grava sul condividente assegnatario di un immobile non facilmente divisibile ha natura di debito di valore, da rivalutarsi anche d’ufficio se e nei limiti in cui l’eventuale svalutazione si sia tradotta in una lievitazione del prezzo del mercato del bene tale da comportare una chiara sproporzione nel valore delle quote di cui sono titolari i condividenti; l’esistenza dei poteri officiosi del giudice, peraltro, non esclude che la parte sia comunque tenuta ad allegare l’avvenuta verificazione di tale evento, posto che la rivalutazione non può avvenire tramite criteri automatici” (Cass. civ., Sez. Seconda, sent. 3 maggio 2010, n. 19624).
Orbene nella fattispecie in esame innanzitutto (come evidenziato nella decisione gravata) non solo non si erano verificate apprezzabili lievitazioni dei prezzi e, quindi, una consistente alterazione delle posizioni divisorie,che necessitava un riequilibrio con un conguaglio rivalutato per la parte non assegnataria.
In secondo luogo ed in ogni caso la parte ricorrente non risulta neppure aver allegato correttamente estremi e dati attestanti l’intervenuta consistente alterazione delle posizioni divisorie tale da dover eventualmente giustificare la necessità del prospettato riequilibrio.
Il motivo deve, dunque, essere respinto.
6. Con il sesto ed ultimo motivo del ricorso si deduce il vizio di “violazione e falsa applicazione dell’art. 366 c.p.c. (nonché di) motivazione insufficiente, illogica e contraddittoria”.
Il motivo, corredato ancora da quesiti (anche in ipotesi non necessari), pone sostanzialmente la questione delle spese in dipendenza di una pretesa soccombenza reciproca.
Tuttavia l’effetto della soccombenza reciproca non comporta sempre e necessariamente la totale compensazione delle spese.
Come ben disposto e valutato dalla Corte distrettuale la soccombenza anche quando è, come nell’ipotesi, parzialmente reciproca ben può dare adito ad una graduazione del carico delle spese che tenga conto della parte maggiore o minore di soccombenza delle parti in causa.
Il motivo è, quindi, del tutto infondato e va rigettato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore dei contro ricorrenti delle spese del giudizio, determinate in Euro 6.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori come per legge..

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