sopraelevazione

Suprema Corte di Cassazione

sezione II

sentenza  27 marzo 2014, n. 7291

Svolgimento del processo

A seguito di ricorso per denuncia di nuova opera presentato in data 12 ottobre 1996 dinanzi al Pretore di Rovigo – sez. dist. di Adria – da M.V., con cui la stessa lamentava la costruzione di un fabbricato da parte del confinante P.S. ad una distanza inferiore a quella legale rispetto alla sua abitazione, sia in Taglio di Po, in v. Carducci n. 21, a cui aveva fatto seguito l’instaurazione della fase di merito dinanzi allo stesso Pretore e poi – per effetto della sopravvenuta soppressione delle Preture – proseguita avanti al Tribunale di Rovigo – sez. dist. di Adria (in composizione monocratica), quest’ultimo, con sentenza n. 26 del 2002, accoglieva la domanda attorea e, per l’effetto, condannava il convenuto a demolire la parte sopraelevata del suo fabbricato posta a distanza inferiore a mt. 10 dal suo confinante edificio.
Interposto appello da parte del P. e nella costituzione dell’appellata, la Corte di appello di Venezia, con sentenza n. 866 del 2007 (depositata il 12 luglio 2007), rigettava il gravame e condannava all’appellante alla rifusione delle spese dei grado.
A sostegno dell’adottata decisione, la Corte territoriale riconfermava la correttezza del percorso argomentativo del giudice di prime cure, con la cui statuizione era stata affermata l’illegittimità della sopraelevazione realizzata a distanza illegale dal P., sul presupposto (accertato sulla scorta delle risultanze della c.t.u.) che, essendo i fabbricati delle parti posti l’uno di fronte all’altro, nell’esecuzione della suddetta struttura in sopraelevazione (da qualificarsi come costruzione nuova) il P. avrebbe dovuto rispettare le distanze legali dal fabbricato di proprietà della M. anche per la parte che elevava al di sopra dell’altro edifico e pur non risultando prospettante direttamente su di esso, escludendosi, altresì, l’applicabilità del principio della prevenzione, non avendo l’appellante ricostruito la nuova opera sopraelevandola in allineamento con l’originario piano inferiore.
Il sig. P.S. ha impugnato in cassazione la citata sentenza con un ricorso articolato in due motivi, al quale la M.V. ha resistito con controricorso. Il difensore della ricorrente ha depositato memoria illustrativa ex art. 378 c.p.c.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo il ricorrente ha censurato la sentenza impugnata assumendo l’insufficiente valutazione della stessa sul punto decisivo della controversia relativo alla ravvisata inapplicabilità, nella specie, del principio della prevenzione, sul presupposto del ritenuto accertamento che la ricostruzione della nuova opera in sopraelevazione non era stata realizzata sulla stessa area di sedime in cui insisteva la costruzione precedente. Quale (così qualificato) ipotetico quesito (non richiesto per i motivi proposti a mente dell’art. 360 n. 5 c.p.c.), il ricorrente ha chiesto a questa Corte di precisare se: a) a fronte delle deduzioni su riportate svolte negli atti del giudizio di appello (in citazione ed in conclusionale), facenti riferimento a diverse circostanze probatorie favorevoli alle tesi del ricorrente, b) presenti agli atti del giudizio ed ivi precisate (addirittura, anche con accertamento in sede penale di quella circostanza), c) su quello che lo stesso giudicante ha ritenuto essere il punto decisivo per l’accoglibilità o meno delle argomentazioni difensive, possa ritenersi compiutamente svolta e motivata l’attività processuale valutativa degli elementi decisori della causa, così come presenti agli atti e richiamati dalla difesa, da parte della sentenza n, 866/2007, qui impugnata, o se, viceversa, questa non risulti viziata per omesso esame di quegli elementi decisivi, presenti ed evidenziati.
2. Con il secondo motivo il ricorrente ha dedotto un ulteriore, ancorché in via subordinata, vizio di insufficiente valutazione circa il medesimo punto decisivo della controversia, reiterando lo stesso “ipotetico” quesito di diritto formulato con riguardo alla prima doglianza.
3. I due motivi – esaminabili congiuntamente siccome riferiti alla stessa doglianza – sono destituiti di fondamento e vanno respinti.
In primo luogo, occorre evidenziare che, a supporto delle due richiamate censure, pur facendosi con esse valere dei vizi di motivazione (e di ciò dimostra consapevolezza lo stesso ricorrente ponendo in equivoco riferimento al vizio contemplato dall’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., il cui oggetto riguarda il solo “iter” argomentativo della decisione impugnata), risultano formulati – ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. (“ratione temporis” applicabile nella fattispecie) – due quesiti di diritto, oltretutto qualificati come “ipotetici”, nel mentre, diversamente da quanto ritenuto dalla difesa del P., sarebbe stato necessario – per concorde giurisprudenza di questa Corte – provvedere all’illustrazione, ancorché libera da rigidità formali, della esposizione chiara e sintetica del fatto controverso – in relazione al quale la motivazione si assumeva omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rendeva inidonea la motivazione stessa a giustificare la decisione.
In ogni caso le dedotte doglianze motivazionali risultano assolutamente generiche ed apodittiche, attenendo, peraltro, ad un accertamento di fatto (quello della mancata ricostruzione dell’opera in sopraelevazione sulla stessa area di sedime occupata dal manufatto precedente) congruamente motivato dalla Corte territoriale al fine di farne conseguire l’inapplicabilità dei principio della prevenzione.
Ed infatti la Corte veneta – sulla base di motivazione sufficientemente logica ed adeguata, in quanto supportata anche dai riscontri documentali acquisiti (come, ad es., il progetto di ampliamento e sopraelevazione presentato da ricorrente prima dell’inizio dei lavori in funzione dell’ottenimento della relativa concessione) e dalle univoche risultanze della c.t.u. esperita (dalle quali era emerso che, poiché i fabbricati delle parti erano frontistanti, nell’esecuzione della sopraelevazione del suo immobile il P. avrebbe dovuto rispettare le distanze legali da quello della M. anche per la parte che si elevava al di sopra dell’altro edificio, ancorché non prospettante direttamente su di esso) – ha rilevato che, in effetti, il P. aveva edificato una “nuova costruzione”, ragion per cui – nella fattispecie – andava rispettata la prescritta distanza minima tra fabbricati, la quale, perciò, avrebbe dovuto essere osservata per l’intera sua altezza e, quindi, non soltanto per la parte dell’edificio che fronteggiava la parete di quello confinante, ma anche per la parte sopraelevata.
Del resto, è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte (v., ad es., Cass. n. 6809 del 2000 e Cass. n. 21059) che la sopraelevazione, anche se di ridotte dimensioni, comporta sempre un aumento della volumetria e della superficie di ingombro e va, pertanto, considerata a tutti gli effetti, e, quindi, anche per la disciplina delle distanze, come nuova costruzione (per la distinzione, in generale, tra le definizioni di “ristrutturazione” e di “nuova costruzione”, v., anche, Cass. n. 9637 del 2006 e Cass., S.U., n. 21578 del 2011, ord.).
Deve, in conclusione, trovare conferma in questa sede il principio (già affermato, da ultimo, anche da Cass., S.U., n. 74 del 2011) secondo cui, in tema di rispetto delle distanze legali tra costruzioni, la sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando un incremento della volumetria del fabbricato, è qualificabile come nuova costruzione, con la conseguenza che ad essa è applicabile la normativa vigente al momento della modifica e non opera il criterio della prevenzione se riferito alle costruzioni originarie, in quanto sostituito dal principio della priorità temporale correlata al momento della sopraelevazione.
4. In definitiva, alla stregua delle ragioni complessivamente esposte, il ricorso deve essere integralmente rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate nei sensi di cui in dispositivo, sulla scorta dei nuovi parametri previsti per il giudizio di legittimità dal D.M. Giustizia 20 luglio 2012, n. 140 (applicabile nel caso di specie in virtù dell’art. 41 dello stesso D.M.: cfr. Cass., S.U., n. 17405 del 2012).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi euro 3.200,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre accessori nella misura e sulle voci come per legge.

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