Cassazione 3

Suprema Corte di Cassazione

sezione II

sentenza 25 febbraio 2015, n. 3819

Ritenuto in fatto

1. – Con scrittura privata in data 4 agosto 1968, M.A. ved. P. – proprietaria, per la metà, di un fabbricato sito in (omissis) , in catasto al foglio 23 particella 111 sub 1, rinunciava alla sua suddetta quota in favore dei propri figli F. , S. , E. , Au. e Ma. , comproprietari dell’altra metà.

Con la stessa scrittura:
– P.F. , S. , E. ed Au. rinunciavano alle loro quote di comproprietà di un fondo rustico sito in località (omissis) in favore di Pe.Ma.;
– Pe.Ma. rinunciava alla sua quota di comproprietà, nella consistenza derivante dalla rinuncia della madre, sulla suddetta casa di via (omissis) ;
– P.F. , S. , E. ed Au. si obbligavano a “far abitare, a titolo gratuito, in vita natural durante, la loro madre M.A. in una stanza della casa” suddetta;
– tutte le parti si impegnavano “a tradurre la… scrittura in atto pubblico a richiesta di uno di essi”;
– veniva stabilita una penale di L. 2.000.000 per il caso di inadempimento;
– si stabiliva che “qualora al Sig. Pe.Ma. dovesse derivare un diritto in forza di successione sulla casa di via (omissis) …, questo o i suoi aventi diritto dovranno rinunziarvi, previo equo corrispettivo, in favore di tutti coloro che già dispongono di una quota della predetta casa”.
Con successiva scrittura privata del 9 novembre 1968, i germani P.F. , S. , E. ed Au. , rimasti i soli comproprietari della suddetta casa, procedevano alla divisione della stessa, attribuendosene ognuno una parte.
2. – Con ricorso depositato il 18 dicembre 1993, P.M. ed A. , aventi causa di P.F. , chiedevano ed ottenevano dalla Pretura circondariale di Rieti – ai sensi della legge 10 maggio 1976, n. 346, che consente l’usucapione quindicennale dei fondi rustici con annessi fabbricati siti in comuni montani – il riconoscimento del loro avvenuto acquisto della proprietà del suindicato fabbricato qualificato come “rurale”, ma non di fondi rustici.
Con atto di citazione notificato il 25 gennaio e il 1 febbraio 1997, P.S. ed E. convenivano in giudizio, davanti al Pretore di Rieti, P.A. e P.M. e – assumendo di essere venute a conoscenza, a seguito di visura catastale eseguita in data 19 giugno 1996, del decreto pretorile suddetto che non era loro opponibile e che faceva sorgere il loro interesse all’esperimento dell’azione intrapresa – chiedevano l’accertamento giudiziale dell’autenticità delle sottoscrizioni di P.F. ed Pe.Au. in calce all’atto di divisione del 9 novembre 1968 e della sottoscrizione di Pe.Ma. in calce all’atto di rinuncia del 4 agosto 1968 nonché la dichiarazione di loro esclusiva proprietà delle porzioni di fabbricato loro rispettivamente assegnate con l’atto di divisione.
I convenuti si costituivano, resistendo. Eccepivano la nullità: dell’atto di rinuncia di M.A. alla propria quota di comproprietà del fabbricato in favore dei figli, trattandosi di donazione non effettuata con atto pubblico; della rinuncia di Pe.Ma. alla sua quota, trattandosi di cessione della quota a lui pervenuta in donazione dalla madre ma non ancora accettata; infine, della clausola con la quale lo stesso Pe.Ma. aveva rinunciato, per sé e per i suoi aventi causa, in favore degli assegnatari delle rimanenti quote del fabbricato, ai diritti che potessero derivargli sul fabbricato stesso a seguito di eventuale successione, trattandosi di patto successorio vietato dall’art. 458 cod. civ. Deducevano, infine, l’opponibilità del decreto pretorile alle attrici, le quali non potevano considerarsi terzi.
Integrato il contraddittorio nei confronti di A.C. , di Pe.Gi. e di P.G. , eredi di Pe.Au. , e di Pe.Ma. , tutti rimasti contumaci, con sentenza non definitiva n. 328 del 2001 il Tribunale di Rieti, divenuto competente a seguito della soppressione del Pretore, dichiarava la nullità della clausola n. 7 della scrittura privata del 4 agosto 1968, con la quale Pe.Ma. aveva rinunciato ad eventuali diritti successori sulla casa di via S. Maria degli Angeli, mentre rigettava le altre eccezioni sollevate dai convenuti e, con separata ordinanza, rimetteva la causa sul ruolo per l’espletamento di consulenza tecnica d’ufficio ai fini dell’accertamento dell’autenticità delle firme di P.F. , Au. e Ma. .
Nel prosieguo della causa, espletata consulenza tecnico-grafica, il Tribunale, con sentenza definitiva n. 46/2003, dichiarava autentiche le sottoscrizioni apposte sulla scrittura privata del 9 novembre 1968, intercorsa tra M.A. , P.F. , P.S. , P.E. e Pe.Au. .
3. – Avverso tali sentenze hanno proposto appello P.A. e P.M. .
Si sono costituite P.E. e P.S. , chiedendo il rigetto dell’impugnazione.
Il processo, interrotto per il decesso di P.S. , è stato riassunto nei confronti dei di lei eredi M.C. e M.M.G. , i quali sono rimasti contumaci.
La Corte d’appello di Roma, con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria l’11 febbraio 2009, ha rigettato il gravame.
3.1. – La Corte territoriale ha rilevato che la rinuncia di uno dei comproprietari effettuata, come nel caso di specie, a favore di tutti gli altri comproprietari non richiede l’atto pubblico (trattandosi di donazione indiretta, ossia di liberalità realizzata ponendo in essere un negozio tipico diverso da quello previsto dall’art. 782 cod. civ.), ma soltanto la forma scritta (venendo in considerazione la rinuncia alla quota di un bene immobile).
La Corte d’appello ha poi confermato il giudizio di marginalità del patto successorio vietato nel contesto dell’operazione economico-sociale posta in essere con le scritture.
Infine, la Corte ha sottolineato che l’inopponibilità del decreto pretorile a P.E. e S. si evince, a contrario, dal disposto dell’ultimo comma dell’art. 3 della legge n. 346 del 1976.
4. – Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello P.A. e P.M. hanno proposto ricorso, con atto notificato il 7 ottobre 2009, sulla base di quattro motivi.
Hanno resistito, con controricorso, P.E. , M.C. e M.M.G. .
Gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva in questa sede.

Considerato in diritto

1. – Con il primo motivo (violazione e falsa applicazione degli artt. 809, 1362, 1363 e 1367 cod. civ.) i ricorrenti deducono che la rinuncia operata da M.A. nella scrittura privata del 4 agosto 1968 costituirebbe una donazione diretta di cui agli artt. 782 e ss. cod. civ. Essi chiedono conclusivamente che sia affermato il principio di diritto secondo cui “la rinuncia ad un diritto reale immobiliare in favore di soggetti nominativamente individuati, se effettuata a titolo di liberalità, ovvero senza corrispettivo e senza che essa concretizzi adempimento di una obbligazione, sia pure di natura morale, configura la fattispecie della donazione reale traslativa, in quanto la sua causa tipica è data dall’animus donandi e, in conseguenza, deve avere a pena di nullità la forma dell’atto pubblico. Per l’effetto, anche la rinuncia donationis causa al diritto di comproprietà su un bene immobile in favore degli altri comproprietari, a tal uopo specificamente designati, poiché persegue una funzione direttamente attributiva e non già meramente abdicativa del diritto reale, è soggetta alla disciplina della donazione diretta ex art. 769 e segg. cod. civ. e deve perciò risultare a pena di nullità da atto pubblico”.
1.1. – La censura – scrutinabile nei limiti del quesito che la accompagna – è infondata.
Costituisce donazione indiretta la rinunzia alla quota di comproprietà, fatta in modo da avvantaggiare in via riflessa tutti gli altri comproprietari. In tal caso si è infatti di fronte ad una rinunzia abdicativa alla quota di comproprietà, perché l’acquisto del vantaggio accrescitivo da parte degli altri comunisti si verifica solo in modo indiretto attraverso l’eliminazione dello stato di compressione in cui l’interesse degli altri contitolari si trovava a causa dell’appartenenza del diritto in comunione anche ad un altro soggetto; e poiché per la realizzazione del fine di liberalità viene utilizzato un negozio, la rinunzia alla quota da parte del comunista, diverso dal contratto di donazione, non è necessaria la forma dell’atto pubblico richiesta per quest’ultimo.
Di tale principio ha fatto corretta applicazione la Corte del merito, dopo avere sottolineato che la rinuncia alla quota di un mezzo sulla proprietà della casa è stata compiuta da M.A. puramente e semplicemente in favore di tutti gli altri comproprietari, con una estensione automatica in proporzione delle loro quote di comproprietà, mediante l’utilizzazione di un negozio tipico, appunto la rinunzia di uno dei comproprietari ai sensi dell’art. 1104 cod. civ..
2. – Con il secondo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 1419, primo comma, cod. civ., sul rilievo che l’intera stipulazione sarebbe inficiata dalla nullità del patto successorio presente nella clausola n. 7, con cui Pe.Ma. ed i suoi aventi causa hanno rinunciato, in favore di F. , S. , E. ed Au. , ai diritti di proprietà sulla casa patriarcale di (OMISSIS) che gli sarebbero potuti derivare in via successoria. La clausola n. 7 sarebbe stata predisposta allo scopo unitario di conseguire la divisione inter vivos dell’asse ereditario e costituirebbe il presupposto indefettibile della scrittura privata in data 4 agosto 1968 nonché del consequenziale atto di divisione del 9 novembre 1968. I ricorrenti chiedono che sia affermato il principio secondo cui il patto successorio inserito nel testo di una scrittura privata contenente una pluralità di rinunce e ulteriori convenzioni tra le parti contraenti aventi ad oggetto diritti reali immobiliari, a sua volta collegata ad un successivo negozio giuridico tra i medesimi sottoscrittori avente ad oggetto la divisione dei cennati diritti reali immobiliari, è in rapporto di interdipendenza ed inscindibilità tanto con le clausole inserite nella prima stipulazione, quanto con il successivo negozio giuridico. Sicché, in quanto predisposto in vista di uno scopo unitario, tale patto successorio ha natura essenziale nell’economia dell’accordo negoziale e la sua intrinseca nullità (sancita dall’art. 458 cod. civ.) inficia ex art. 1419, primo comma, cod. civ. la validità dell’intera stipulazione che lo contiene nonché del successivo negozio giuridico ad esso collegato.
2.1. – Il motivo è infondato.
L’insegnamento consolidato di questa Corte regolatrice è nel senso che l’indagine diretta a stabilire, ai fini della conservazione del negozio, se la pattuizione nulla debba ritenersi essenziale, va condotta con criterio oggettivo, in funzione del permanere o meno dell’utilità del contratto in relazione agli interessi che si intendono attraverso di esso perseguire, quali risultano individuati attraverso l’interpretazione del negozio (Sez. III, 21 maggio 2007, n. 11673; Sez. III, 30 settembre 2009, n. 20948; Sez. II, 11 luglio 2012, n. 11749). Pertanto l’applicabilità del principio di conservazione (utile per inutile non vitiatur) deve escludersi solo quando la clausola o il patto nullo si riferiscano ad un elemento essenziale del negozio, oppure si trovino con le altre pattuizioni in tale rapporto di interdipendenza che queste non possono sussistere in modo autonomo (Sez. III, 17 aprile 1980, n. 2546; Sez. I, 22 marzo 1983, n. 2012), nel senso che il contratto non si sarebbe concluso senza quella clausola nulla o quel patto nullo (Sez. II, 4 dicembre 2003, n. 18535; Sez. I, 20 maggio 2005, n. 10690). Simile indagine, integrando un giudizio di fatto esclusivamente rimesso al giudice del merito, è incensurabile in sede di legittimità se sorretta da motivazione immune da vizi logici e di diritto (Sez. I, 1 aprile 1977, n. 1230; Sez. I, 4 settembre 1980, n. 5100; Sez. II, 1 marzo 1995, n. 2340).
Ciò premesso, la denunziata violazione dell’art. 1419 cod. civ. non sussiste, avendo i giudici d’appello escluso, condividendo la valutazione espressa dal Tribunale, la ravvisabilità di un rapporto di interdipendenza tra il patto successorio nullo (ex art. 458 cod. civ.) e la parte residua dei negozi racchiusi nelle scritture private in questione, sul rilievo, fondato su un’attenta e compiuta considerazione dei termini della scrittura: (a) della formulazione estremamente vaga ed ipotetica della convenzione, collegata a diritti successori discendenti dalle disposizioni mortis causa di un eventuale testatore; (b) della marginalità del patto successorio vietato nel contesto di tutta l’operazione economico-sociale posta in essere con le suddette scritture (posto che la convenzione consacrata nella clausola non si pone come passaggio obbligato ed indefettibile, essendo intesa ad assicurare ai condividenti un vantaggio soltanto eventuale, futuro ed aggiuntivo, rappresentato dalla ipotetica possibilità di conseguire, semmai se ne fossero verificate le condizioni, un accrescimento della loro quota in virtù della rinuncia manifestata da Pe.Ma. ); (c) della non pertinenza della prospettazione fornita dagli appellanti, secondo i quali “la loro nonna aveva voluto beneficiare della proprietà della casa solo gli altri figli, escludendo anche da benefici futuri il figlio Mario in considerazione del cespite a questo pervenuto in conseguenza della rinuncia dei propri fratelli alle loro quote del fondo in località (omissis) ” (e ciò in quanto “la rinuncia ad eventuali diritti eredi tari da parte di Pe.Ma. , o di suoi eventuali aventi causa, non sarebbe, comunque, dovuta avvenire a titolo gratuito, ma previo equo corrispettivo”).
3. – Il terzo motivo è relativo alla opponibilità del decreto di riconoscimento della proprietà a P.S. e a E. . Deducono i ricorrenti che costoro hanno avuto contezza dell’esistenza del procedimento a seguito degli adempimenti e delle comunicazioni prescritte dalla legge ed avrebbero potuto proporre opposizione ex art. 3, terzo comma, della legge n. 346 del 1976 ovvero, successivamente alla emissione del decreto pretorile, nelle forme e nei termini di cui al sesto comma dello stesso art. 3. P.E. e S. non potrebbero qualificarsi come soggetti terzi rispetto al riconoscimento della proprietà che P.A. e M. avrebbero promosso in buona fede.
3.1. – Il motivo è inammissibile, perché le deduzioni riguardo alla conoscenza del decreto pretorile in capo a P.E. e S. si fondano su mere affermazioni non suffragate da alcun puntuale richiamo a documenti verificabili.
4. – Con il quarto mezzo si censura insufficiente motivazione. La motivazione della Corte d’appello presenterebbe gravi lacune in ordine al processo logico-giuridico in forza del quale è stato rigettato il gravame. La Corte territoriale avrebbe “ellitticamente richiamato le asserite corrette e condivisibili argomentazioni del giudice di prime cure senza fornire una spiegazione ragionevole delle scelte influenti nel contesto della decisione e senza entrare nel merito degli istituti di diritto sostanziale sottesi alla presente vicenda giudiziaria”.
4.1. – La censura è inammissibile perché, difettando del quesito di sintesi, non rispetta la prescrizione di cui all’art. 366 bis cod. proc. civ..
Alla stregua della letterale formulazione del citato art. 366-bis cod. proc. civ. – introdotto, con decorrenza dal 2 marzo 2006, dall’art. 6 del d.gs. 2 febbraio 2006, n. 40, e abrogato con decorrenza dal 4 luglio 2009 dall’art. 47 della legge 18 giugno 2009, n. 69, ma applicabile ai ricorsi proposti avverso le sentenze pubblicate tra il 3 marzo 2006 e il 4 luglio 2009 (cfr. art. 58, comma 5, della legge n. 69 del 2009) – questa Corte è ferma nel ritenere che, a seguito della novella del 2006, nel caso previsto dall’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., allorché, cioè, il ricorrente denunci la sentenza impugnata lamentando un vizio della motivazione, l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione (Cass., Sez. Un., 18 ottobre 2012, n. 17838).
Ciò importa, in particolare, che la relativa censura deve contenere un momento di sintesi (omologo al quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (cfr., ad esempio, Cass., sez. un., 1 ottobre 2007, n. 20603).
Al riguardo, ancora è incontroverso che non è sufficiente che l’indicazione del fatto controverso e delle ragioni della non adeguatezza della motivazione sia esposta nel corpo del motivo o che possa comprendersi dalla lettura di questo, occorrendo a tal fine una parte, del motivo stesso, che si presenti a ciò specificamente e riassuntivamente destinata.
Nella specie il quarto motivo del ricorso, formulato ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ., è totalmente privo di tale momento di sintesi, iniziale o finale, costituente un quid pluris rispetto all’illustrazione del motivo.
5. – Il. ricorso è rigettato.
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna, i ricorrenti, in solido tra loro, al rimborso delle spese processuali sostenute dai controricorrenti, che liquida in complessivi Euro 3.200, di cui Euro 3.000 per compensi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *