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Suprema Corte di Cassazione

sezione II

sentenza 24 novembre 2014, n. 48663

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FIANDANESE Franco – Presidente
Dott. MACCHIA Alberto – Consigliere
Dott. LOMBARDO Luigi – rel. Consigliere

Dott. PELLEGRINO Andrea – Consigliere

Dott. RECCHIONE Sandra – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI CHIETI;

nei confronti di:

(OMISSIS), n. (OMISSIS);

avverso la sentenza del G.U.P. del Tribunale di Chieti del 7.5.2014;

Sentita la relazione del Consigliere Luigi Lombardo;

Udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale Stefano Maria Pinelli, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

RITENUTO IN FATTO E IN DIRITTO
1. Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Chieti chiese il rinvio a giudizio di (OMISSIS), imputata del delitto di cui all’articolo 640 c.p., comma 2, per avere, nella qualita’ di amministratore unico della ditta ” (OMISSIS) S.r.l.”, mediante artifici e raggiri consistiti nell’indicare (negli appositi modelli DM10 relativi ai mesi da febbraio a novembre 2010) le somme asseritamente anticipate alle lavoratrici (OMISSIS) e (OMISSIS) per indennita’ di maternita’ obbligatoria e facoltativa – ma in realta’ non corrisposte – a conguaglio con le somme dovute all’I.N.P.S. per contributi previdenziali e assistenziali, tratto in inganno i competenti funzionari dell’istituto previdenziale sull’ammontare delle somme dovute all’ente, cosi’ procurandosi un ingiusto profitto pari all’importo delle somme indebitamente poste a conguaglio.
2. Con sentenza del 7.5.2014, il G.U.P. del Tribunale di Chieti dichiaro’ non doversi procedere nei confronti della (OMISSIS) perche’ il fatto non e’ previsto dalla legge come reato. Il giudice ritenne che, nei fatti, mancasse l’induzione in errore necessaria per la configurazione della truffa, in quanto l’I.N.P.S. non era chiamato a svolgere alcun accertamento in ordine alla veridicita’ della dichiarazione del datore di lavoro, essendo invece tenuto a recepire il contenuto di tale dichiarazione. Ritenne ancora il giudice che i fatti erano da inquadrarsi nella fattispecie criminosa di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10 quater, con la quale il legislatore punisce il fatto di chi, mediante indebita compensazione, non versa le somme dovute a titolo di tributi, a questi dovendosi parificare i contributi previdenziali e assistenziali da versare all’I.N.P.S.; e poiche’ le somme corrisposte a compensazione non raggiungevano l’importo minimo costituente la soglia per la rilevanza penale del fatto, l’imputata doveva essere prosciolta.
3. Avverso tale sentenza ricorre per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Chieti, deducendo la violazione del Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10 quater. Deduce, in particolare, l’errore in cui sarebbe incorso il giudice nell’escludere la sussistenza del delitto di truffa, potendo tale reato essere consumato anche con la semplice menzogna o con la indicazione di fatti non corrispondenti al vero, ove tali condotte siano idonee ad ottenere, da parte del destinatario delle stesse, atti di disposizione patrimoniali tali da consentire il conseguimento di un ingiusto profitto con danno altrui. Secondo il procuratore ricorrente, nel caso di specie, l’I.N.P.S., sulla scorta delle attestazioni della imputata contenute nel modello DM10, avrebbe posto in essere atti di disposizione patrimoniale consistenti nel consentire al datore di lavoro il recupero – attraverso il meccanismo del conguaglio – di somme da lui in realta’ mai corrisposte alle lavoratrici dipendenti, con cio’ configurandosi il reato di truffa. Non sarebbe applicabile, invece, la disposizione del Decreto Legislativo n. 47 del 2000, articolo 10 quater, in quanto tale norma riguarderebbe solo le obbligazioni di natura tributaria, tra le quali non sarebbero inquadrabili le indennita’ a vario titolo corrisposte ai lavoratori per conto dell’I.N.P.S..
4. Il difensore dell’imputata ha presentato memoria, con la quale chiede il rigetto del ricorso.
5. La vicenda posta all’esame di questa Corte e’ quella di un datore di lavoro che, pur avendo omesso di corrispondere a due lavoratrici le indennita’ di maternita’ ad esse dovute, ha tuttavia portato le relative somme a conguaglio – negli appositi modelli DM10 – con quanto da lui dovuto all’istituto previdenziale per contributi previdenziali e assistenziali.
Sul punto, va ricordato che i modelli DM10 sono prospetti mensili con i quali il datore di lavoro e’ tenuto a denunciare all’I.N.P.S. le retribuzioni corrisposte mese per mese ai dipendenti, i contributi dovuti e l’eventuale conguaglio delle prestazioni anticipate per conto dell’ente, delle agevolazioni e degli sgravi; e cio’ ai fini del versamento dei contributi dovuti.
Va anche ricordato che le somme spettanti al lavoratore per assegni familiari o indennita’ di malattia o di maternita’ costituiscono un debito dell’I.N.P.S., e non del datore di lavoro, il quale, in forza del Decreto Legge n. 633 del 1979, articolo 1, e’ tenuto ad anticiparle, salvo conguaglio da effettuarsi tramite i suddetti modelli DM10.
E’ chiaro peraltro che, mediante la falsa rappresentazione all’I.N.P.S. di aver erogato ai lavoratori somme in realta’ non corrisposte, il datore di lavoro realizza sicuramente – o, quanto meno, pone in essere atti idonei a realizzare – l’ingiusto profitto del conguaglio delle prestazioni che egli assume, contrariamente al vero, di aver anticipato.
6. La questione dell’inquadramento giuridico della suddetta condotta trova, nella giurisprudenza di questa Corte, due soluzioni diverse.
6.1. Secondo la giurisprudenza tradizionale, integra il delitto di truffa, e non il meno grave reato di omissione o falsita’ in registrazione o denuncia obbligatoria (Legge 24 novembre 1981, n. 689, articolo 37), la condotta del datore di lavoro che, per mezzo dell’artificio costituito dalla fittizia esposizione di somme corrisposte al lavoratore, induce in errore
l’istituto previdenziale sul diritto al conguaglio di dette somme, invero mai corrisposte, realizzando cosi’ un ingiusto profitto e non gia’ una semplice evasione contributiva (Cass., Sez. 2, n. 42937 del 03/10/2012 Rv. 253646; Sez. 2, n. 11184 del 27/02/2007 Rv. 236131).
6.2. Secondo una piu’ recente pronuncia, invece, nel caso di mancata corresponsione ad un dipendente, da parte del datore di lavoro, di indennita’ di malattia e assegni familiari portati comunque a conguaglio nei confronti dell’I.N.P.S., non ricorre il delitto di truffa per difetto dell’elemento del danno, potendosi ravvisare in astratto la configurabilita’ del reato di appropriazione indebita (Sez. 2, n. 18762 del 15/01/2013 Rv. 255194).
In particolare, in questa decisione, si sottolinea come la discordanza tra la situazione rappresentata all’I.N.P.S. e quella reale e’ idonea a procurare al datore di lavoro l’ingiusto profitto del conguaglio delle prestazioni che egli assume di aver anticipato, ma non e’ idonea a determinare alcun danno dell’I.N.P.S., perche’ il lavoratore – per riscuotere le somme cui ha diritto – potrebbe rivolgersi solo al datore di lavoro per ottenere quanto gli spetta, e non all’I.N.P.S., avendo quest’ultimo – attraverso il conguaglio – adempiuto il suo obbligo. Non potrebbe, percio’, ravvisarsi il reato di truffa nella condotta del datore di lavoro, non potendo tale condotta cagionare alcun danno patrimoniale all’istituto previdenziale.
Secondo tale sentenza, nella condotta del datore di lavoro – che trattenga le somme indebitamente portate a conguaglio e fatte figurare come erogate al lavoratore in relazione a prestazioni di cui egli si e’ riconosciuto debitore per conto dell’ente previdenziale – potrebbe invece eventualmente configurarsi il reato di appropriazione indebita in danno del lavoratore.
7. Ritiene il Collegio che nessuna delle due soluzioni sopra richiamate puo’ essere condivisa quanto all’inquadramento giuridico della condotta del datore di lavoro nei confronti dell’I.N.P.S..
In particolare, il Collegio, pur condividendo la conclusione della sentenza da ultimo citata secondo cui nella condotta del datore di lavoro non e’ ravvisabile la truffa in danno dell’I.N.P.S. per difetto dell’elemento del danno patrimoniale, ritiene tuttavia che tale condotta vada inquadrata nella fattispecie criminosa di cui all’articolo 316 ter c.p..
Com’e’ noto, la fattispecie criminosa di cui all’articolo 316 ter (“Indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato”) punisce, con la reclusione da sei mesi a tre anni, “Salvo che il fatto costituisca il reato previsto dall’articolo 640 bis, chiunque mediante l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero mediante l’omissione di informazioni dovute, consegue indebitamente, per se’ o per altri, contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati dallo Stato, da altri enti pubblici o dalle Comunita’ Europee”.
Questa Corte ha gia’ affermato che l’articolo 316 ter c.p., configura un reato di pericolo, e non di danno (Sez. 6, n. 35220 del 09/05/2013 Rv. 256927), e che tale reato si distingue da quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, sia perche’ la condotta non ha natura fraudolenta, in quanto la presentazione delle dichiarazioni o documenti attestanti cose non vere costituisce “fatto” strutturalmente diverso dagli artifici e raggiri, sia per l’assenza della induzione in errore (Sez. 2, n. 46064 del 19/10/2012 Rv. 254354).
8. L’ambito applicativo del delitto di cui all’articolo 316 ter c.p., e’ stato approfondito sia dalle Sezioni Unite di questa Corte che dalla Corte costituzionale.
8.1. In particolare, la Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 95 del 2004, ha affermato il carattere sussidiario e residuale dell’articolo 316 ter, rispetto all’articolo 640 bis c.p., e ha precisato che, alla luce del dato normativo e della ratio legis, l’articolo 316 ter, assicura una tutela aggiuntiva e “complementare” rispetto a quella offerta agli stessi interessi dall’articolo 640 bis, coprendo in specie gli eventuali margini di scostamento – per difetto – del paradigma punitivo della truffa rispetto alla fattispecie della frode. Ha quindi rinviato all’ordinario compito interpretativo del giudice l’accertamento, in concreto, se una determinata condotta formalmente rispondente alla fattispecie dell’articolo 316 ter, integri anche la figura descritta dall’articolo 640 bis, dovendosi, in tal caso, fare applicazione solo di quest’ultima.
8.2. Le Sezioni Unite, dal canto loro, sono intervenute con due importanti sentenze.
8.2.1. Con una prima sentenza del 2007 (Sez. un., n. 16568 del 19/04/2007 Rv. 235962), le Sezioni Unite, tracciando i confini tra la fattispecie criminosa di cui all’articolo 316 ter, e quella di cui all’articolo 640 bis c.p., hanno sottolineato – in linea con la menzionata ordinanza della Corte costituzionale – che l’introduzione nel codice penale dell’articolo 316 ter, ha risposto all’intento di estendere la punibilita’ a condotte “decettive” (in danno di enti pubblici o comunitari) non incluse nell’ambito operativo della fattispecie di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche; dimodoche’, fermi i limiti tradizionali della fattispecie di truffa, vanno inquadrate nella fattispecie di cui all’articolo 316 ter, le condotte alle quali non consegua un’induzione in errore o un danno per l’ente erogatore, con la conseguente compressione dell’articolo 316 ter a situazioni del tutto marginali, “come quello del mero silenzio antidoveroso o di una condotta che non induca effettivamente in errore l’autore della disposizione patrimoniale”. Le Sezioni Unite, con la sentenza in esame, hanno percio’ affermato il principio secondo cui “vanno ricondotte alla fattispecie di cui all’articolo 316 ter – e non a quella di truffa – le condotte alle quali non consegua un’induzione in errore per l’ente erogatore, dovendosi tenere conto, al riguardo, sia delle modalita’ del procedimento di volta in volta in rilievo ai fini della specifica erogazione, sia delle modalita’ effettive del suo svolgimento nel singolo caso concreto”.
8.2.2. Con una piu’ recente sentenza del 2010 (Sez. un., n. 7537 del 16/12/2010 Ud. – dep. 25/02/2011 – Rv. 249104), le Sezioni Unite sono poi tornate sul tema e, proseguendo sulla strada tracciata dalla propria precedente sentenza, hanno affermato il principio secondo il quale “L’articolo 316 ter c.p., punisce condotte decettive non incluse nella fattispecie di truffa, caratterizzate (oltre che dal silenzio antidoveroso) da false dichiarazioni o dall’uso di atti o documenti falsi, ma nelle quali l’erogazione non discende da una falsa rappresentazione dei suoi presupposti da parte dell’ente pubblico erogatore, che non viene indotto in errore perche’ in realta’ si rappresenta correttamente solo l’esistenza della formale attestazione del richiedente”.
Valorizzando la collocazione topografica dell’articolo 316 ter c.p., tra i delitti contro la pubblica amministrazione e considerando che gli elementi descrittivi che compaiono tanto nella rubrica che nel testo della norma evidenziano chiaramente la volonta’ del legislatore di perseguire la percezione sine titulo delle erogazioni in via privilegiata rispetto alle modalita’ attraverso le quali l’indebita percezione si e’ realizzata, le Sezioni Unite hanno precisato il principio dianzi enunciato nel senso che, ai fini dell’integrazione del delitto di cui all’articolo 316 ter c.p., “nel concetto di conseguimento indebito di una erogazione da parte di enti pubblici rientrano tutte le attivita’ di contribuzione ascrivibili a tali enti, non soltanto attraverso l’elargizione precipua di una somma di danaro ma pure attraverso la concessione dell’esenzione dal pagamento di una somma agli stessi dovuta, perche’ anche in questo secondo caso il richiedente ottiene un vantaggio e beneficio economico che viene posto a carico della comunita’” (nella specie, le Sezioni Unite hanno ritenuto che integra il delitto di cui all’articolo 316 ter c.p., anche la indebita percezione di erogazioni pubbliche di natura assistenziale, tra le quali, in particolare, quelle concernenti la esenzione del ticket per prestazioni sanitarie ed ospedaliere).
Le Sezioni Unite, infine, muovendo dal rilievo che la peculiare fattispecie posta dall’articolo 316 bis c.p. (“Malversazione a danno dello Stato”) e’ rivolta specificamente a reprimere la distrazione dei contributi pubblici dalle finalita’ per le quali sono stati erogati, hanno sottolineato che “l’articolo 316 ter, sanziona la percezione di per se’ indebita delle erogazioni, senza che vengano in rilievo particolari destinazioni funzionali”, qualunque sia – dunque – la destinazione o la mancata destinazione delle erogazioni indebitamente conseguite.
9. Orbene, alla stregua di quanto detto, deve ritenersi che il delitto di cui all’articolo 316 ter c.p., prescinde sia dall’esistenza di artifici o raggiri, sia dalla induzione in errore, sia dall’esistenza di un danno patrimoniale patito dalla persona offesa, elementi tutti che caratterizzano il delitto di truffa.
Cio’ che e’ richiesto dalla fattispecie criminosa di cui all’articolo 316 ter c.p., e’ l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere (ovvero l’omissione di informazioni dovute) da cui derivi il conseguimento indebito di erogazioni da parte dello Stato o di altri enti pubblici o delle Comunita’ Europee, da cui derivi cioe’ il conseguimento di erogazioni cui non si ha diritto. Tali erogazioni, poi, possono consistere indifferentemente o nell’ottenimento di una somma di danaro oppure nell’esenzione dal pagamento di una somma altrimenti dovuta.
Cosi’ configurata la fattispecie criminosa di cui all’articolo 316 ter c.p., nella latitudine riconosciutale dalla giurisprudenza, deve ritenersi che nella stessa va inquadrata la condotta del datore di lavoro che, mediante la fittizia esposizione di somme corrisposte al lavoratore a titolo di indennita’ per malattia o maternita’ o assegni familiari, ottiene dall’I.N.P.S. il conguaglio di tali somme, in realta’ non corrisposte, con quelle da lui dovute all’istituto previdenziale a titolo di contributi previdenziali e assistenziali, cosi’ percependo indebitamente dallo stesso istituto le corrispondenti erogazioni.
Come si e’ detto, infatti, l’erogazione che costituisce elemento costitutivo del delitto di cui all’articolo 316 ter c.p., puo’ consistere semplicemente nell’esenzione dal pagamento di una somma altrimenti dovuta, e non deve necessariamente consistere nell’ottenimento di una somma di danaro.
Il reato si consuma nel momento in cui il datore di lavoro provvede a versare all’I.N.P.S. (sulla base dei dati indicati sui modelli DM10) i contributi ridotti per effetto del conguaglio cui non aveva diritto, venendo cosi’ – tramite il mancato pagamento di quanto altrimenti dovuto – a percepire indebitamente l’erogazione dell’ente pubblico.
Puo’ affermarsi, pertanto, il seguente principio di diritto: “Integra il delitto di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato di cui all’articolo 316 ter c.p., la condotta del datore di lavoro che, mediante la fittizia esposizione di somme corrisposte al lavoratore a titolo di indennita’ per malattia o maternita’ o assegni familiari, ottiene dall’I.N.P.S. il conguaglio di tali somme, in realta’ non corrisposte, con quelle da lui dovute all’istituto previdenziale a titolo di contributi previdenziali e assistenziali, cosi percependo indebitamente dallo stesso istituto le corrispondenti erogazioni”.
10. Da ultimo, per completezza, va escluso che la condotta del datore di lavoro, come sopra configurata, possa inquadrarsi nella fattispecie criminosa di cui al Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, articolo 10 quater.
Tale disposizione, inserita nel suddetto decreto legislativo che detta la “Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto”, nel prevedere il reato di “Indebita compensazione”, punisce con la reclusione da sei mesi a due anni “chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi del Decreto Legislativo 9 luglio 1997, n. 241, articolo 17, crediti non spettanti o inesistenti”.
Si tratta tuttavia di una fattispecie criminosa che punisce l’indebita compensazione di crediti non spettanti o inesistenti che abbiano natura tributaria; essa non e’ applicabile, pertanto, al caso sottoposto al giudizio di questa Corte, nel quale le somme portate a conguaglio dal datore di lavoro non hanno natura tributaria, ma corrispondono a prestazioni di natura previdenziale o assistenziale previste a vantaggio del lavoratore.
11. Alla stregua di quanto si e’ detto, il fatto contestato va qualificato secondo la fattispecie criminosa di cui all’articolo 316 ter c.p., con conseguente annullamento della sentenza impugnata e con rinvio al Tribunale di Chieti per l’ulteriore corso.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione qualificato il fatto come violazione dell’articolo 316 ter c.p., annulla la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di Chieti per l’ulteriore corso.

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