Suprema Corte di Cassazione
sezione II
sentenza 24 aprile 2014, n. 9278
Svolgimento del processo
Con citazione in data 8/3/1990 M.P. conveniva in giudizio F.G. assumendo:
– che con contratto preliminare del 23/6/1989 egli aveva promesso di acquistare dal convenuto un immobile in costruzione libero da oneri e privilegi con contestuale versamento di lire 60.000.000 a titolo di caparra confirmatoria;
– che il promittente venditore aveva dichiarato di avere sanato l’illiceità dell’immobile costruito senza licenza edilizia in quanto aveva richiesto il condono ex lege n. 47/198 5;
– che invece l’immobile non era stato condonato e non era condonabile in quanto sottoposto a vincolo paesaggistico ai sensi della legge n. 1497/1939 e pertanto era carente delle qualità essenziali per l’uso al quale era stato destinato.
Tanto premesso chiedeva la risoluzione del contratto per inadempimento del promittente venditore oltre al risarcimento dei danni e, in subordine, la declaratoria di legittimità del suo recesso con la condanna del convenuto ai sensi dell’art. 1385 c.c. alla restituzione del doppio della caparra.
Il F. si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto della domanda e, in riconvenzionale, la risoluzione del contratto per inadempimento del promissario acquirente oltre al risarcimento del danno, assumendo che il vincolo paesaggistico non avrebbe impedito la concessione del condono.
Il Tribunale di Roma con sentenza del 8/3/2002 dichiarava risolto il preliminare per inadempimento del promissario acquirente (che doveva conoscere l’esistenza del vincolo), ma rigettava la domanda risarcitoria proposta in riconvenzionale per mancata prova del danno; condannava il promittente venditore alla restituzione della caparra.
La sentenza era appellata da entrambe le parti: il promittente venditore chiedeva che fosse riconosciuto il suo diritto e ritenere la caparra e il promissario acquirente chiedeva che fosse dichiarata la legittimità del suo recesso con la condanna della controparte alla restituzione del doppio della caparra.
La Corte di Appello di Roma con sentenza del 5/7/2007 dichiarava il diritto del promittente venditore a ritenere la caparra e rigettava l’appello del promissario acquirente. La Corte di appello rilevava:
– che il primo giudice aveva ritenuto che la conoscenza del vincolo paesaggistico da parte del promissario acquirente, non espressamente escluso nel preliminare, dovesse presumersi per il valore normativo del piano regolatore generale che lo aveva imposto o riconosciuto e che le censure formulate con l’appello incidentale dal promissario acquirente non investivano questa ratio decidendi, così come non era contestata l’insussistenza di una inedificabilità assoluta e la possibilità di sanatoria, documentalmente comprovata (il giudice di primo grado aveva infatti rilevato che era stato rilasciato nel Maggio del 1990 il parere favorevole alla sanatoria della Regione Lazio); aggiungeva che con la dovuta diligenza il promissario acquirente avrebbe potuto accertare la pendenza dell’istanza di parere sulla sanatoria;
– che non era stata censurata con l’appello l’interpretazione del giudice di primo grado secondo la quale il termine per la stipulazione del definitivo, fissato nel Dicembre 1989, non poteva considerarsi essenziale non sussistendo circostanze che oggettivamente escludessero l’interesse alla conclusione a seguito del decorso del tempo;
– che la domanda di recesso e di riconoscimento del diritto a incamerare la caparra, formulata dal promittente venditore con l’appello non poteva essere considerata domanda nuova e pertanto, atteso l’inadempimento del promissario acquirente, doveva essere accolta.
M.P. propone ricorso affidato a tre motivi.
Resiste con controricorso F.G. .
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente M. , già promissario acquirente, deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 345, 350 e 352 c.p.c. nel testo anteriore alla riforma del 1990 e/o degli artt. 350 e 352 c.p.c. nel testo vigente.
Il ricorrente, formulando i corrispondenti quesiti di diritto ex art. 366 bis c.p.c. ora abrogato, ma applicabile ratione temporis, sostiene che:
a) ai sensi dell’art. 345 c.p.c. nel testo anteriore alla riforma del 1990, avrebbe avuto diritto di produrre nuovi documenti e di chiedere l’ammissione di nuovi mezzi di prova, ma tale diritto gli sarebbe stato precluso per il fatto che il Consigliere istruttore, alla prima udienza, aveva rimesso le parti direttamente davanti al Collegio per l’udienza collegiale; le norme processuali sarebbero state inoltre violate perché non era stata fissata l’udienza di precisazione delle conclusioni e perché la causa non era stata rimessa al collegio, negandosi anche la possibilità di scambio di conclusionali e di repliche; la violazione, secondo il ricorrente comporta la nullità della sentenza;
b) nella vigenza dell’attuale codice di procedura civile la mancata concessione del termine per il deposito di conclusionali e repliche viola il diritto di difesa,lede il contraddittorio e comporta la nullità della sentenza.
1.1 Il motivo è manifestamente infondato. Le censure di cui al punto b) sono inammissibili in quanto il processo era regolato dalle norme anteriori alla riforma del 1990 per effetto delle quali il termine per le conclusionali e le repliche era stabilito per legge dall’art. 190 c.p.c. richiamato dall’art. 352 c.p.c.; il termine era calcolato a ritroso rispetto alla data dell’udienza fissata davanti al collegio per la discussione (dieci giorni prima per le conclusionali e cinque giorni prima per le repliche).
Le censure di cui al punto a) sono manifestamente infondate perché:
– il consigliere istruttore secondo le previgenti norme processuali non aveva alcuna possibilità di decidere sulle istanze istruttorie, trattandosi di decisione riservata la collegio, né risulta che istanze istruttorie siano state formulate con l’atto di appello;
– l’immediata rimessione della causa al collegio era dovuta laddove(come nel caso concreto) non fosse necessario adottare i provvedimenti specificamente indicati dall’art. 350 c.p.c. che richiedessero differimenti;
– il rinvio per la decisione del merito era inequivocabilmente un rinvio all’udienza collegiale, posto che solo il Collegio poteva decidere la causa nel merito e il mancato invito a precisare le conclusioni costituiva una mera irregolarità che non comportava alcuna nullità non essendo specificamente prevista e ben potendo le parti precisare le conclusioni prima della spedizione della causa al Collegio (Cass. 25/3/1988 n. 2589; Cass. 29/1/1992 n. 890; Cass. 10/11/2006 n. 2401; Cass. 11/12/2012 n. 22618). 2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione di legge (artt. 1385 e 1497 c.c. per la mancanza di qualità del bene compravenduto e 112 c.p.c.) e il vizio di motivazione. Il ricorrente sostiene, formulando i corrispondenti quesiti, sostiene:
a) che in quanto promissario acquirente ignaro del vincolo paesaggistico, legittimamente poteva recedere perché gli era stato promesso in vendita un immobile in parte costruito senza licenza edilizia, sottoposto al vincolo paesaggistico e asseritamente condonato, ma che al momento della data fissata per la vendita non era ancora condonato;
b) che la motivazione della Corte di Appello era meramente apparente in quanto non v’era risposta al gravame devoluto avente ad oggetto la non rispondenza al vero del documento esibito al momento della conclusione del preliminare circa la mancanza di vincolo paesaggistico, la mancanza di sanatoria per le opere ancora da eseguire alla data (20/12/1989) di scadenza del termine per la stipula del definitivo, l’inidoneità del parere favorevole (in data 23/5/1990) alla concessione della sanatoria per le opere da eseguire a costituire sanatoria per le opere già eseguite; con riferimento al vizio di motivazione sosteneva che non erano spiegate le ragioni del rigetto del gravame.
3.1 Il motivo è infondato e va rigettato. L’obbligazione assunta con il preliminare di vendita è obbligazione di tacere (stipulare il contratto) e non di dare; il trasferimento si realizza solo al momento della conclusione del definitivo.
Ne discende che, in via generale, le qualità promesse (nella specie la sanatoria dell’abuso edilizio) devono sussistere al momento della conclusione del contratto. In ogni caso è infondata la dedotta violazione dell’art. 1497 c.c. con riferimento all’esistenza del vincolo paesaggistico; infatti, come rilevato dalla Corte di Appello, il vincolo doveva essere conosciuto dal promissario acquirente perché i vincoli paesaggistici, inseriti nelle previsioni del piano regolatore generale, una volta approvati e pubblicati nelle forme previste hanno valore di prescrizione di ordine generale a contenuto normativo con efficacia “erga omnes”, come tale assistita da una presunzione legale di conoscenza assoluta da parte dei destinatari, sicché i vincoli in tal modo imposti, a differenza di quelli inseriti con specifici provvedimenti amministrativi a carattere particolare, non possono qualificarsi come oneri non apparenti gravanti sull’immobile, secondo l’art. 1489 cod. civ., e non sono, conseguentemente, invocabili dal compratore come fonte di responsabilità del venditore, che non li abbia eventualmente dichiarati nel contratto (Cass. 23/2/2012 n. 2737).
La clausola (di stile) inserita nel contratto preliminare, con la quale il promittente venditore garantisce la libertà del suolo in questione da “iscrizioni, trascrizioni pregiudizievoli, vincoli ed oneri in genere”, si riferisce agli oneri e vincoli non apparenti, rilevabili dal compratore solo attraverso particolari indagini; ma non poteva riferirsi ai vincoli imposti da atti aventi forza di legge, assistiti da una presunzione legale di conoscenza da parte di tutti i cittadini.
Ciò non esclude che il promissario acquirente di un immobile abusivo possa richiedere la risoluzione del contratto quando, scaduto il termine per la conclusione del contratto definitivo, permanga l’abuso edilizio e, di conseguenza, l’incommerciabilità del bene, ma l’art. 40 della legge n. 47 del 1985 sul condono edilizio consentiva la stipula dell’atto tra vivi con cui si trasferisce la proprietà di un immobile costruito senza la necessaria licenza o concessione o in difformità della stessa, purché fosse allegata la copia della domanda di condono munita degli estremi dell’avvenuto versamento delle prime due rate. Risultando non controverso in causa che il promittente venditore aveva anteriormente presentato la domanda di condono e che sul promissario acquirente incombeva l’onere di pagare le residue rate dell’oblazione (v. pag. 1 del ricorso), non v’era, sotto questo profilo, impedimento alla stipula del definitivo.
Con riferimento al vincolo paesaggistico che avrebbe comunque impedito la sanatoria si osserva che risulta del tutto assorbente la considerazione della Corte di Appello che ha fatto proprie le considerazioni del giudice di primo grado, secondo le quali il termine per la conclusione del contratto definitivo non poteva considerarsi perentorio.
Tale conclusione è conforme alla giurisprudenza di questa Corte secondo la quale nel contratto preliminare di compravendita, l’essenzialità del termine per la stipula del definitivo va desunta non già da una mera formula di stile ma dalla volontà delle parti come emergente da specifiche espressioni adoperate dai contraenti dalle quali desumere l’intenzione di considerare ormai venuta meno l’utilità perseguita nel caso di conclusione del contratto definitivo oltre la data stabilita (Cass. 15/10/2007 n. 21587). Pertanto, una volta escluso che la scadenza del termine potesse giustificare, di per sé, la risoluzione del contratto o il recesso, occorreva accertare se la stipula del il contratto definitivo fosse, in ogni caso, preclusa perché permaneva la natura abusiva dell’immobile, ma la Corte di Appello, con adeguata motivazione, lo ha escluso perché non sussisteva una assoluta inedificabilità e, al contrario, l’immobile era suscettibile di sanatoria, come accertato in causa, per il documentato parere favorevole della Regione Lazio, amministrazione preposta alla tutela del vincolo paesaggistico, intervenuto nel Maggio del 1990.
Inoltre, solo con i decreti-legge sul condono edilizio (D.L. 24 gennaio 1996, n.30; D.L. 25 marzo 1996, n. 154) si è stabilito che, ai fini della commerciabilità del bene abusivamente costruito, occorre che nell’atto risulti, a pena di nullità, “il parere favorevole dell ‘autorità preposta alla tutela dei vincoli per le opere di cui al terzo comma dell’art. 32 della legge 28 febbraio 1985, n. 47”. Il contratto preliminare è stato invece stipulato nel Giugno 1989 e la causa con la quale i contraenti chiedevano la risoluzione del contratto addebitandosi vicendevoli inadempimenti, era iniziata nel 1990: all’epoca il vincolo non costituiva elemento di evidenza per la commerciabilità dei manufatti abusivi e la mancanza di parere sul vincolo determinava una situazione di attesa ma non una situazione d’impedimento ai fini della validità dell’atto.
Infine è irrilevante l’allegazione difensiva circa falsità della copia autentica rilasciata dal Comune, dalla quale risultava che il vincolo paesaggistico era stato segnalato nella domanda di condono stante l’accertamento della intervenuta sanatoria; va aggiunto che l’attestazione del pubblico ufficiale della conformità dell’atto all’originale, pur successivamente non rinvenuto, non risulta smentita da un accertamento della sua falsità, non essendo a tale scopo sufficiente né il mancato rinvenimento dell’originale cartaceo presso il comune, né l’assenza di tale indicazione nel documento informatico formato da funzionari del Comune non potendosi escludere un errore dell’operatore nella formazione del documento informatico.
3. Con il terzo motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione di legge (artt. 1385, 1453 e 1458 c.c. e 112 c.p.c.) e il vizio di motivazione.
Il ricorrente sostiene, formulando i relativi quesiti: che la sentenza di appello sarebbe viziata da ultrapetizione perché avrebbe modificato la dichiarazione di risoluzione del contratto preliminare per inadempimento del promissario acquirente in quella di recesso del promittente venditore senza che la prima dichiarazione, contenuta nella sentenza di primo grado fosse stata impugnata;
– che il promittente venditore, che aveva chiesto in primo grado la risoluzione del contratto e il risarcimento del danno, non poteva, in appello, mutare la sua domanda in quella di recesso con diritto a trattenere a tale titolo la caparra.
3.1 Il motivo è fondato con riferimento alla dedotta inammissibilità, in appello, della domanda di recesso con diritto ad incamerare la caparra versata. Infatti, qualora il contraente non inadempiente abbia agito per la risoluzione (in questo caso per la risoluzione per inadempimento) ed il risarcimento del danno, costituisce domanda nuova, inammissibile in appello (come previsto dall’art. 345 c.p.c. anche nel regime anteriore alla riforma del 1990), quella volta ad ottenere la declaratoria dell’intervenuto recesso con ritenzione della caparra, avuto riguardo – oltre che alla disomogeneità esistente tra la domanda di risoluzione giudiziale e quella di recesso ed all’irrinunciabilità dell’effetto conseguente alla risoluzione di diritto – all’incompatibilità strutturale e funzionale tra la ritenzione della caparra e la domanda di risarcimento; infatti la funzione della caparra, consistendo in una liquidazione anticipata e convenzionale del danno volta ad evitare l’instaurazione di un giudizio contenzioso, risulterebbe frustrata se alla parte che abbia preferito affrontare gli oneri connessi all’azione risarcitoria per ottenere un ristoro patrimoniale più cospicuo fosse consentito – in contrasto con il principio costituzionale del giusto processo, che vieta qualsiasi forma di abuso processuale – di modificare la propria strategia difensiva, quando i risultati non corrispondano alle sue aspettative (Cass. S.U. 14/1/2009 n. 553; Cass. 23/2/2012 n. 2737).
In passato alcune sentenze di questa Corte avevano escluso che la domanda di recesso in appello fosse domanda nuova, affermando che la parte adempiente che avesse agito per l’esecuzione o la risoluzione del contratto e per la condanna al risarcimento del danno ai sensi dell’art. 1453 cod. civ., poteva, in sostituzione di dette pretese, chiedere anche in appello il recesso dal contratto a norma dell’art. 1385, secondo comma, cod. civ., non costituendo tale richiesta una domanda nuova, bensì configurando, rispetto alla domanda di adempimento o di risoluzione, l’esercizio di una perdurante facoltà e solo un’istanza ridotta con riguardo alla proposta risoluzione, nello stesso ambito risarcitorio, in relazione all’inadempimento dell’altra parte (cfr. Cass. 849/2002).
Tuttavia tale orientamento, contraddetto da altra giurisprudenza (cfr. Cass. 2/12/2005 n. 26232) è stato poi definitivamente superato dalla richiamata sentenza delle SS.UU.,seguita da altre conformi.
4. Pertanto la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione al motivo accolto e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c. restando confermato il rigetto della domanda risarcitoria del F. e dichiarandosi inammissibile la domanda di recesso con incameramento della caparra formulata in appello; resta confermato il rigetto delle domande proposte dal M. , salvo quella diretta alla restituzione della caparra, ancorché non nell’importo doppio; infatti, per effetto della risoluzione del contratto, la somma versata a titolo di caparra, ai sensi dell’art. 1458 c.c. rimane sine titulo e quindi deve essere restituita; la domanda di restituzione deve intendersi ricompresa nell’iniziale domanda del M. di restituzione del doppio della caparra, egualmente fondata sull’evento risolutorio, ancorché addebitato erroneamente alla controparte.
Ne discende che F.G. deve essere condannato a restituire a M.P. la somma di Euro 30.987,41, ricevuta a titolo di caparra, oltre interessi dalla data della domanda al soddisfo, esclusa la rivalutazione, trattandosi di debito di somma di denaro e non essendo addotto un maggior danno. Tenuto conto della reciproca soccombenza (quella del F. da ravvisarsi nel mancato accoglimento della domanda di risarcimento e della domanda diretta ad incamerare la caparra), devono interamente compensarsi le spese di tutti i gradi del giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il terzo motivo di ricorso, rigetta gli altri motivi, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c. condanna F.G. a restituire a M.P. la somma di Euro 30.987,41, ricevuta a titolo di caparra, oltre interessi dalla data della domanda al soddisfo.
Compensa interamente tra le parti le spese di tutti i gradi del giudizio.
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