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Suprema Corte di Cassazione

sezione II

sentenza  23 luglio 2013, n. 17876

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 7-2-1998 la B. P & C. s.n.c. conveniva dinanzi al Tribunale di Bergamo la Lavori Edili s.r.l., per sentirla condannare al pagamento della somma di L. 186.229.273, a saldo dei lavori edili eseguiti su incarico della convenuta nel 1994 in (omissis) , nonché dei lavori di ristrutturazione eseguiti in base ad un contratto del 1991 presso la Cascina (omissis) . L’attrice esponeva di aver ricevuto, in relazione ai lavori svolti nel 1994, acconti per L. 70.000.000, a fronte di un corrispettivo complessivo di L. 121.211.000, IVA esclusa. Quanto alla Cascina (omissis), assumeva di aver eseguito su richiesta della committenza, oltre ai lavori specificamente previsti nel contratto, per i quali era stato pattuito un corrispettivo complessivo di L. 200.000.000, anche altre opere, per complessive L. 98.325.187, cui dovevamo aggiungersi opere contrattuali a misura per L. 32.743.086.
Nel costituirsi, la convenuta deduceva di aver corrisposto, per i primi lavori menzionati nell’atto di citazione, la somma di L. 131.000.000, restando debitrice dell’importo di L. 239.000. Quanto alla ristrutturazione della cascina (omissis), ammetteva che erano state eseguite opere extracontratto, ma evidenziava che i lavori eseguiti presentavano una serie di difformità, per la cui verifica era stato già dato corso ad una procedura di accertamento tecnico preventivo, la quale aveva altresì riscontrato la mancata corrispondenza tra quanto esposto nella contabilità finale dei lavori predisposta dalla società appaltatrice e quanto effettivamente realizzato. In relazione a tali opere, pertanto, la Lavori Edili s.r.l. invocava la garanzia di cui all’art. 1667 c.c., con conseguente legittimazione alla richiesta di danni ed alla sospensione ex art. 1660 c.c. del pagamento di quanto eventualmente ancora dovuto.
Con sentenza in data 17-5-2004 il Tribunale, nel rilevare che dagli atti non emergeva la prova di una tempestiva denuncia dei vizi, condannava la convenuta al pagamento della somma di Euro 104.011,42 (pari a L. 201.394.143).
Avverso la predetta decisione proponevano appello principale la Lavori Edili s.r.l. e appello incidentale la B. P & C. s.n.c.
Con sentenza in data 4-7-2008 la Corte di Appello di Brescia, in parziale riforma della sentenza impugnata, riduceva la condanna della convenuta ad Euro 47.923,96, oltre agli interessi dalla domanda.

La Corte territoriale, in particolare, sulla base della deposizione resa dal teste M.M. , progettista della ristrutturazione della Cascina (OMISSIS) , riteneva acquisita la prova dell’avvenuta denuncia dei difetti in corso d’opera. Essa, pertanto, nel rilevare che la convenuta, nel costituirsi in giudizio, aveva contestato il quantum delle opere extracontrattuali risultante dalla contabilità prodotta dall’attrice, rideterminava l’ammontare di tali lavori sulla base delle emergenze della consulenza tecnica d’ufficio, detraendo dal relativo importo quello corrispondente ai vizi e ai difetti riscontrati. Il giudice del gravame rilevava, inoltre, che i pagamenti effettuati dalla convenuta senza il riscontro di documenti fiscali emessi dall’appaltatrice non potevano essere imputati a titolo di IVA, ma andavano posti per intero a detrazione del complessivo credito vantato dalla società B. per capitale Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la B. P & C. s.n.c., sulla base di tre motivi.
La Lavori Edili s.r.l. ha resistito con controricorso.

Motivi della decisione

1) Con il primo motivo la ricorrente denuncia la contraddittoria e insufficiente motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza della prova dell’intervenuta denuncia dei vizi in corso d’opera ed al conseguente rigetto dell’eccezione di decadenza della convenuta dalla garanzia ex art. 1667 c.c.. Deduce che la Corte di Appello ha basato il proprio convincimento sulla deposizione resa dal teste M. , senza operare una preliminare valutazione dell’attendibilità del testimone, estrapolando alcune dichiarazioni rese dal medesimo e non tenendo conto del contrasto ravvisabile tra tali dichiarazioni e quelle rese da altro teste circa l’oggetto degli incontri tenuti tra i due nel maggio 2006, nonché dell’indicazione meramente ipotetica dei vizi contenuta in uno scritto redatto dallo stesso M. il 28-5-1996.
Il motivo è infondato.
Le censure mosse si risolvono sostanzialmente nella richiesta di una diversa valutazione delle risultanze processuali e, in particolare, dell’attendibilità del teste M.M. , progettista della ristrutturazione della Cascina (omissis) , il quale ha riferito di aver seguito i lavori di ristrutturazione della Cascina (omissis) mediante sopralluoghi sul cantiere che avvenivano “al massimo ogni quindici giorni”, ed ha affermato che nel corso di tali sopralluoghi venivano contestate, direttamente al B. talune “inesattezze” dei lavori eseguiti, e precisamente quei difetti che hanno poi costituito oggetto di accertamento tecnico preventivo.
La Corte di Appello ha adeguatamente vagliato la deposizione del predetto teste, tenendo conto del contrasto emerso – anche all’esito del confronto disposto nel corso del giudizio – tra la stessa e quella del teste A.G. (incaricato dal B. di eseguire la contabilità dei lavori dei Cascina (OMISSIS), il quale ha affermato di non ricordare che durante i colloqui con il M. si sia parlato di contestazioni sui lavori), nonché delle indicazioni generiche contenute, riguardo all’esistenza di vizi, nella contabilità dei lavori redatta dallo stesso M. in data 28-5-1996; ed ha maturato il convincimento della piena attendibilità del teste, oltre che della plausibilità delle dichiarazioni dal medesimo rese.
Il giudizio espresso al riguardo dalla Corte territoriale risulta sorretto da una motivazione esaustiva e congrua, con la quale è stato dato adeguato conto delle ragioni del preminente valore attribuito alla testimonianza in esame a scapito delle altre emergenze processuali..
Non sussistono, pertanto, i vizi denunciati dalla ricorrente, dovendosi rammentare che vizi di motivazione denunciabili in cassazione ai sensi dell’art. 360 n. 5 cpc. non possono consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, perché spetta solo a quel giudice individuare le fonti del proprio convincimento e a tale fine valutare le prove, controllarne la attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova (tra le tante v. Cass. Sez. 2, 14-10-2010 n. 21224; Cass. 5-3-2007 n. 5066; Cass. 21-4-2006, n. 9368; Cass, 20-4-2006, n. 9234; Cass, 16-2-2006, n. 3436; Cass., 20-10- 2005 n. 20322).
2) Con il secondo motivo la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 167 cpc, nonché l’insufficiente e contraddittoria motivazione, in ordine all’affermazione della Corte di Appello, secondo cui nella comparsa di costituzione di primo grado la convenuta aveva contestato che il quantum dovuto all’appaltatore per i lavori di ristrutturazione della Cascina (omissis) potesse essere determinato in base alla contabilità prodotta ex adverso. Sostiene che le deduzioni svolte dalla società Lavori Edili, per la loro genericità, non valevano a concretare una idonea contestazione della contabilità analiticamente esposta dall’attrice.
Anche tale motivo è infondato.
Deve premettersi che per i giudizi instaurati successivamente all’entrata in vigore della legge. 26 novembre 1990, n. 353 (qual è quello in oggetto, introdotto dopo il 30 aprile 1995) l’art. 167 comma 1 c.p.c., imponendo al convenuto di prendere posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda, comporta che i suddetti fatti, qualora non siano contestati dal convenuto, debbono essere considerati incontroversi e non richiedenti, quindi, una specifica dimostrazione.
Nella specie, dalla lettura della sentenza impugnata si evince che, con riferimento ai lavori relativi alla ristrutturazione di cascina (omissis), nella citazione introduttiva del giudizio l’attrice aveva esposto i seguenti importi: L. 200.000.000 quale corrispettivo forfetariamente pattuito per le prime 12 voci della “descrizione delle opere” allegata al contratto; L. 98.325.187 quale corrispettivo per le opere fuori preventivo realizzate su richiesta della committente e risultante da una lista prodotta a corredo dell’atto di citazione; L. 32.743.086 quale corrispettivo per i lavori che, pur previsti in contratto, per specifica previsione contrattuale dovevano conteggiarsi a misura. A fronte di tale elencazione, la convenuta, nel costituirsi in giudizio, assumeva che, come risultava dalla relazione di accertamento tecnico preventivo, vi era una “mancata corrispondenza fra quanto effettivamente realizzato e quanto esposto nella contabilità dei lavori, prodotta dall’impresa, tanto da privare tale conteggio di ogni attendibilità”, e ciò, aggiungeva, a “prescindere dalla assoluta incomprensibilità della contabilità esibita dalla impresa B.”, che rendeva “francamente ardua l’impostazione di ogni difesa”.
Ciò posto, appare immune da vizi logici e giuridici il giudizio espresso dal giudice del gravame, secondo cui, nel costituirsi dinanzi al Tribunale, la convenuta aveva espressamente contestato che il quantum dovuto all’appaltatrice per i lavori (extra contratto) relativi alla Cascina (omissis) potesse essere determinato sulla base della contabilità ex adverso prodotta, sia perché tale contabilità era stata redatta in modo scarsamente intelligibile, sia perché si aveva ragione di ritenere, sulla base dell’esperito accertamento tecnico preventivo, che vi fosse uno scarto tra i valori contabilizzati e quelli effettivamente eseguiti. Non par dubbio, infatti, che le contestazioni mosse dalla resistente, per il modo in cui erano formulate, riguardavano l’intero ammontare della pretesa creditoria fatta valere dalla controparte, impedendo di ritenere incontroversi e non richiedenti una specifica dimostrazione gli importi risultanti dai conteggi posti a base della domanda.
3) Con il terzo motivo la ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione degli artt. 1173, 1193 c.c., 1 e 6 d.p.r. 26-10-1972 n. 633. Deduce che il credito di rivalsa IVA sorge per effetto della prestazione professionale resa, indipendentemente dal momento in cui viene effettuata la fatturazione. Sostiene, pertanto, che la Corte di Appello ha errato nel ritenere che i pagamenti senza fattura non potessero essere imputati all’IVA.
Il motivo non è meritevole di accoglimento.
Si rammenta, al riguardo, che, in base alla disciplina dell’imposta sul valore aggiunto, dettata – per ciò che interessa il caso di specie – dagli artt. 1 (operazioni imponibili), 3 (prestazioni di servizi), 6 (effettuazione delle operazioni), 13 (base imponibile), 21 (fatturazione delle operazioni) del d. p.r. n. 633 del 1972 -, per ciascuna delle operazioni imponibili, tra le quali rientrano le prestazioni di servizi, deve essere emessa dal prestatore una fattura per l’ammontare del corrispettivo, che costituisce la base imponibile dell’imposta dovuta. Il primo comma dell’art. 18 prevede, inoltre, l’obbligo, per il soggetto che ha effettuato la prestazione di servizi, di addebitare l’imposta, a titolo di rivalsa, al committente, e cioè al soggetto tenuto al pagamento del corrispettivo.
In particolare, l’art. 6 dispone che le prestazioni di servizi si considerano effettuate all’atto del pagamento del corrispettivo.
Questa Corte ha più volte avuto modo di chiarire che la fatturazione all’atto della ricezione del pagamento, prevista dalla norma in esame per i prestatori di servizi, è una facoltà concessa agli stessi, i quali possono anche validamente fatturare, registrando la relativa imposta, al momento della prestazione del servizio stesso, che costituisce, dal punto di vista civilistico, l’evento generatore anche del credito di rivalsa IVA, autonomo rispetto al credito per la prestazione, ma ad esso soggettivamente e funzionalmente connesso (v. Cass. 11-4-2011 n. 8222, Cass. 12-6-2008 n. 15690; Cass. 1-6-1995 n. 6149).
Ciò non significa, tuttavia, che il prestatore di servizi possa rivalersi dell’imposta nei confronti del committente senza emettere fattura. Se è vero, infatti, che, in base al sistema delineato dalla normativa sull’IVA, colui che ha effettuato una prestazione di servizi deve corrispondere all’erario l’imposta sul corrispettivo spettantegli, ed è obbligato a rivalersene nei confronti del cliente, è del tutto evidente che, ai fini dell’esercizio della rivalsa, si rende comunque necessaria la fatturazione, potendo la stessa avvenire all’atto della ricezione del compenso ovvero, alternativamente, al momento stesso della prestazione del servizio.
Tanto, del resto, si desume inequivocabilmente dal testo dell’art. 18 d.p.r. 633 del 1972, il quale, dopo avere stabilito, al primo comma, che il soggetto che effettua la cessione di beni o la prestazione di servizi imponibili deve addebitare la relativa imposta, a titolo di rivalsa, al cessionario o al committente, al secondo comma dispone che la rivalsa non deve essere esercitata per le operazioni effettuate senza emissione di fattura.
4) Per le ragioni esposte il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese sostenute dalla resistente nel presente grado di giudizio, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 3.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge.

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