Sentenza   232/2013
Giudizio
Presidente GALLO – Redattore LATTANZI
Camera di Consiglio del 03/07/2013    Decisione  del 16/07/2013
Deposito del 23/07/2013   Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate: Art. 275, c. 3°, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2 del decreto legge 23/02/2009, n. 11, convertito con modificazioni in legge 23/04/2009, n. 38.
Massime:
Atti decisi: ord. 240/2012

SENTENZA N. 232

ANNO 2013

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Franco GALLO; Giudici : Luigi                  MAZZELLA, Gaetano                SILVESTRI, Sabino                 CASSESE, Giuseppe               TESAURO, Paolo Maria            NAPOLITANO, Giuseppe               FRIGO, Alessandro             CRISCUOLO, Paolo                  GROSSI, Giorgio                LATTANZI, Aldo                   CAROSI, Sergio                 MATTARELLA, Mario Rosario          MORELLI, Giancarlo              CORAGGIO,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 275, comma 3, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, promosso dal Tribunale di Salerno, sezione riesame, nel procedimento penale a carico di S.F. ed altri con ordinanza del 21 agosto 2012, iscritta al n. 240 del registro ordinanze 2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 43, prima serie speciale, dell’anno 2012.

Udito nella camera di consiglio del 3 luglio 2013 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi.

Ritenuto in fatto

Con ordinanza depositata il 21 agosto 2012 (r.o. n. 240 del 2012), il Tribunale di Salerno, sezione riesame, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 275, comma 3, del codice di procedura penale, come modificato dall’articolo 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui «impone l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere», in relazione al delitto di cui all’articolo 609-octies del codice penale.

Il giudice rimettente riferisce che con ordinanza del 10 giugno 2011 era stata applicata ad alcune persone, cui era addebitato anche il delitto previsto dall’art. 600-bis, secondo comma, cod. pen., la misura cautelare della custodia in carcere in relazione al delitto di violenza sessuale di gruppo. A tre degli indagati era contestata la partecipazione «in funzione essenzialmente di istigatori e di spettatori» a un «singolo episodio di violenza sessuale di gruppo», diverso per ciascuno di essi, in cui «proprio il fidanzato della persona offesa» aveva svolto «un ruolo fondamentale nella costrizione e nella esecuzione del rapporto sessuale», al quale, in tre diverse occasioni, gli altri indagati avevano assistito.

Il giudice del riesame aveva escluso per uno degli indagati la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e – oltre a confermare la misura detentiva applicata a un quarto indagato – aveva disposto, per gli altri, la sostituzione della custodia cautelare in carcere con gli arresti domiciliari, prospettando un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., incentrata sulle ragioni poste a fondamento della sentenza di illegittimità costituzionale n. 265 del 2010 della Corte costituzionale e sull’omogeneità del bene protetto sia dai reati a sfondo sessuale presi in considerazione da tale pronuncia sia dal delitto di cui all’art. 609-octies cod. pen.

La Corte di cassazione aveva annullato con rinvio l’ordinanza del Tribunale del riesame, ritenendo, in particolare, illogica la motivazione relativa all’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza nei confronti di uno degli indagati.

Investito nuovamente, a seguito del rinvio disposto dalla Corte di cassazione, il giudice rimettente, da un lato, sottolinea la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza nei confronti dell’indagato per il quale la precedente decisione li aveva esclusi e, dall’altro, conferma la valutazione circa l’adeguatezza della misura degli arresti domiciliari già applicata agli altri indagati in sostituzione della custodia cautelare in carcere originariamente disposta. Al riguardo il Tribunale del riesame osserva che la misura degli arresti domiciliari «restringendo l’indagato in un ambito familiare/coniugale, comportando già un pregnante controllo del soggetto e la preclusione di ogni situazione extraconiugale, appare già adeguata a neutralizzare del tutto il pericolo di reiterazione di reati della stessa specie di quelli per i quali si procede».

Con riferimento a quest’ultimo profilo, però, il giudice del riesame ritiene che non sia più possibile un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 275 cod. proc. pen., come quella adottata dalla Corte di cassazione (terza sezione penale, n. 4377 del 20 gennaio 2012), secondo cui la presunzione prevista dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. anche per il delitto di violenza sessuale di gruppo dovrebbe essere interpretata alla luce della sentenza n. 265 del 2010 della Corte costituzionale, sicché il giudice avrebbe l’obbligo di valutare anche rispetto a tale delitto se siano stati acquisiti elementi specifici dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. Infatti, sottolinea il giudice a quo, la successiva sentenza della Corte costituzionale n. 110 del 2012 ha affermato che la lettera dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. non consente di conseguire in via interpretativa l’effetto che solo una pronuncia di illegittimità costituzionale può produrre.

Rivalutati sia il quadro cautelare sia l’idoneità e l’adeguatezza della misura cautelare applicata agli indagati, il giudice rimettente mette in luce la rilevanza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., nella parte in cui per il delitto di cui all’art. 609-octies cod. pen. prevede una presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura cautelare della custodia in carcere. La questione stessa sarebbe, inoltre, non manifestamente infondata in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost.: estesa dall’art. 2, comma 1, del decreto-legge n. 11 del 2009, la presunzione in esame, osserva il rimettente, è stata oggetto di varie pronunce di illegittimità costituzionale. Pienamente estensibili alla fattispecie in esame sarebbero le motivazioni addotte dalla Corte costituzionale con tali pronunce e, in particolare, con la sentenza n. 265 del 2010 (in considerazione dell’omogeneità del bene protetto dalle norme relative ai reati sessuali oggetto di questa sentenza rispetto al delitto di violenza sessuale di gruppo, per il quale si procede nel giudizio a quo): la norma censurata sarebbe, quindi, in contrasto con i princìpi di uguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.), con il principio di inviolabilità della libertà personale (art. 13, primo comma, Cost.) e con la presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.), che «portano ad individuare nel “minor sacrificio necessario” il criterio che deve informare la materia delle misure cautelari personali e a considerare che le restrizioni della libertà personale dell’indagato o dell’imputato nel corso del procedimento debbono assumere connotazioni chiaramente differenziate da quelle della pena».

Considerato in diritto

1.– Il Tribunale di Salerno, sezione riesame, dubita, in riferimento agli articoli 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’articolo 275, comma 3, del codice di procedura penale, come modificato dall’articolo 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui «impone l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere»  per il delitto di violenza sessuale di gruppo (articolo 609-octies del codice penale).

Ad avviso del rimettente sarebbero riferibili anche alla fattispecie in questione le ragioni che hanno indotto questa Corte a dichiarare costituzionalmente illegittima la norma censurata in relazione ad alcuni delitti a sfondo sessuale (sentenza n. 265 del 2010), al delitto di omicidio volontario (sentenza n. 164 del 2011) e al delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope (sentenza n. 231 del 2011), nonché la presunzione assoluta prevista dall’art. 12, comma 4-bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) in relazione ad alcune figure di favoreggiamento delle immigrazioni illegali (sentenza n. 331 del 2011).

Esclusa la praticabilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata, il Tribunale di Salerno ritiene la norma censurata in contrasto con i princìpi di uguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.), con il principio di inviolabilità della libertà personale (art. 13, primo comma, Cost.) e con la presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.), princìpi che portano a individuare nel «“minor sacrificio necessario” il criterio che deve informare la materia delle misure cautelari personali» e a considerare che «le restrizioni della libertà personale dell’indagato o dell’imputato nel corso del procedimento debbono assumere connotazioni chiaramente differenziate da quelle della pena».

2.– La questione è fondata in riferimento ai parametri evocati dal rimettente e nei termini di seguito specificati.

3.– In via preliminare, deve rilevarsi la correttezza della tesi del rimettente che esclude la praticabilità, nel caso in esame, di un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma sospettata di illegittimità costituzionale. Infatti, questa Corte ha più volte affermato che «l’univoco tenore della norma segna il confine in presenza del quale il tentativo interpretativo deve cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale» (sentenza n. 78 del 2012) e, a proposito della presunzione assoluta dettata dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., ha già ritenuto che le parziali declaratorie di illegittimità costituzionale della norma impugnata, relative esclusivamente ai reati oggetto delle varie pronunce, non si possono estendere alle altre fattispecie criminose ivi disciplinate (sentenza n. 110 del 2012).

4.– La norma censurata è frutto della stratificazione di una serie di interventi legislativi: particolare rilievo è rivestito dalla novella del 2009 (art. 2, comma 1, lettere a e a-bis, del decreto-legge n. 11 del 2009), che ha esteso la disciplina introdotta nel 1995 per i delitti di cui all’art. 416-bis cod. pen. o commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto art. 416-bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo (art. 5, comma 1, della legge 8 agosto 1995, n. 332, recante «Modifiche al codice di procedura penale in tema di semplificazione dei procedimenti, di misure cautelari e di diritto di difesa») a numerose altre fattispecie penali, tra le quali quelle individuate attraverso il riferimento ai delitti di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen. Espressamente previsto nel terzo periodo dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. è il delitto di cui all’art. 609-octies cod. pen. (violenza sessuale di gruppo), assoggettato, come le altre figure delittuose indicate, al regime cautelare speciale salvo che ricorrano le circostanze attenuanti contemplate dalle relative disposizioni.

Con la sentenza n. 265 del 2010, questa Corte ha già dichiarato l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata, nella parte in cui configura una presunzione assoluta – anziché relativa – di adeguatezza della sola custodia in carcere a soddisfare le esigenze cautelari nei confronti della persona raggiunta da gravi indizi di colpevolezza per i reati di induzione alla prostituzione minorile o di favoreggiamento o sfruttamento della stessa, di violenza sessuale e di atti sessuali con minorenne (artt. 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater cod. pen.). Ad analoga declaratoria di illegittimità costituzionale questa Corte è poi pervenuta nei riguardi della medesima disposizione, nella parte in cui assoggetta a presunzione assoluta anche il delitto di omicidio volontario (sentenza n. 164 del 2011), il delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope (sentenza n. 231 del 2011), il delitto di associazione per delinquere realizzato allo scopo di commettere i delitti previsti dagli artt. 473 e 474 cod. pen. (sentenza n. 110 del 2012) e i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo (sentenza n. 57 del 2013). Inoltre, questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 12, comma 4-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998, recante una disciplina analoga a quella contenuta nell’art. 275, comma 3, secondo e terzo periodo, cod. proc. pen. (sentenza n. 331 del 2011).

Nelle decisioni richiamate, è stato rilevato come, alla luce dei principi costituzionali di riferimento – segnatamente, il principio di inviolabilità della libertà personale (art. 13, primo comma, Cost.) e la presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.) – la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del «minore sacrificio necessario»: la compressione della libertà personale deve essere, pertanto, contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della «pluralità graduata», predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale, e, dall’altra, a prefigurare criteri per scelte «individualizzanti» del trattamento cautelare, parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete. A questi canoni si conforma la disciplina generale del codice di procedura penale, basata sulla tipizzazione di un «ventaglio» di misure di gravità crescente (articoli da 281 a 285) e sulla correlata enunciazione del principio di «adeguatezza» (art. 275, comma 1), in applicazione del quale il giudice è tenuto a scegliere la misura meno afflittiva tra quelle astrattamente idonee a soddisfare le esigenze cautelari ravvisabili nel caso concreto e, conseguentemente, a far ricorso alla misura “massima” (la custodia cautelare in carcere) solo quando ogni altra misura risulti inadeguata (art. 275, comma 3, primo periodo).

Da tali coordinate si discosta vistosamente la disciplina dettata dal secondo e dal terzo periodo del comma 3 dell’art. 275 cod. proc. pen., che stabilisce, rispetto ai soggetti raggiunti da gravi indizi di colpevolezza per taluni delitti, una duplice presunzione, relativa, quanto alla sussistenza delle esigenze cautelari, e assoluta, quanto alla scelta della misura, reputando il legislatore adeguata, ove la presunzione relativa non risulti vinta, unicamente la custodia cautelare in carcere, senza alcuna possibile alternativa. A tale proposito, questa Corte ha ribadito che «le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit» e che «l’irragionevolezza della presunzione assoluta si può cogliere tutte le volte in cui sia “agevole” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa» (sentenza n. 139 del 2010, richiamata dalle decisioni sopra citate).

5.– Il delitto di violenza sessuale di gruppo è stato configurato quale fattispecie autonoma rispetto al delitto di violenza sessuale con la legge 15 febbraio 1996, n. 66 (Norme contro la violenza sessuale); come ha rilevato questa Corte, «l’esigenza di prevedere un’autonoma ipotesi di reato rispetto alla violenza sessuale monosoggettiva e di sanzionarla con una pena più severa trova ragione, sul terreno della politica criminale, nella constatazione che l’aggressione commessa da più persone riunite, oltre a comportare una più intensa lesione del bene della libertà sessuale a causa della prevedibile reiterazione degli atti di violenza, vanifica le possibilità di difesa e di resistenza della vittima e la espone a forme di degradazione e di reificazione che rendono più grave e profondo il trauma psichico che comunque consegue a qualsiasi episodio di violenza sessuale» (sentenza n. 325 del 2005). Vale dunque, a maggior ragione, per il delitto di violenza sessuale di gruppo la considerazione svolta a proposito dei reati di induzione alla prostituzione minorile, di favoreggiamento o sfruttamento della stessa, di violenza sessuale e di atti sessuali con minorenne (artt. 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater cod. pen.) dalla sentenza n. 265 del 2010 di questa Corte, ossia che si tratta di delitti «odiosi e riprovevoli». Del resto, il rilievo che quella determinata dalla violenza sessuale di gruppo è una «lesione particolarmente grave e traumatica della sfera di autodeterminazione della libertà sessuale della vittima» ha contribuito a condurre questa Corte ad escludere che l’omessa previsione dell’attenuante dei “casi di minore gravità”, prevista per il delitto di violenza sessuale dall’ultimo comma dell’art. 609-bis cod. pen., possa essere ritenuta «espressione di una scelta del legislatore palesemente irragionevole, arbitraria o ingiustificata» (sentenza n. 325 del 2005).

6.– La particolare intensità della lesione del bene della libertà sessuale determinata dalla violenza sessuale di gruppo ha, quindi, indotto il legislatore, per un verso, a configurare un’autonoma fattispecie incriminatrice, delineata dall’art. 609-octies cod. pen., e a comminare una pena di maggior rigore rispetto a quella di cui all’art. 609-bis cod. pen., e, per altro verso, a non prevedere la circostanza attenuante dei “casi di minore gravità”. Tuttavia, la «più intensa lesione del bene della libertà sessuale» (sentenza n. 325 del 2005) ricollegabile alla violenza sessuale di gruppo – se ha orientato le opzioni del legislatore nella prospettiva della definizione di un severo trattamento sanzionatorio – non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata. Infatti, sono riferibili anche alla fattispecie in esame le considerazioni svolte da questa Corte a proposito della presunzione de qua in rapporto al delitto di omicidio volontario: nonostante l’indiscutibile gravità del fatto, che «peserà opportunamente nella determinazione della pena inflitta all’autore, quando ne sia riconosciuta in via definitiva la colpevolezza», anche nel caso della violenza sessuale di gruppo, così come in quello dell’omicidio, la presunzione assoluta di cui si discute non è rispondente a un dato di esperienza generalizzato, ricollegabile alla «struttura stessa» e alle «connotazioni criminologiche» della figura criminosa, non trattandosi di un «reato che implichi o presupponga necessariamente un vincolo di appartenenza permanente a un sodalizio criminoso con accentuate caratteristiche di pericolosità – per radicamento nel territorio, intensità dei collegamenti personali e forza intimidatrice – vincolo che solo la misura più severa risulterebbe, nella generalità dei casi, in grado di interrompere» (sentenza n. 164 del 2011).

Né può argomentarsi, nel senso della legittimità della presunzione assoluta in questione, sulla base del carattere necessariamente plurisoggettivo del delitto di violenza sessuale di gruppo. Questa Corte, infatti, ha già affermato, come si è ricordato, l’illegittimità costituzionale del regime cautelare speciale di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., in relazione ad alcune fattispecie associative (sentenze n. 110 del 2012, n. 231 del 2011), mentre ha ritenuto «assistita da adeguato fondamento razionale la presunzione de qua in rapporto al delitto di associazione di tipo mafioso», sottolineando che esso è «normativamente connotato – di riflesso a un dato empirico-sociologico – come quello in cui il vincolo associativo esprime una forza di intimidazione e condizioni di assoggettamento e di omertà, che da quella derivano, per conseguire determinati fini illeciti. Caratteristica essenziale è proprio tale specificità del vincolo, che, sul piano concreto, implica ed è suscettibile di produrre, da un lato, una solida e permanente adesione tra gli associati, una rigida organizzazione gerarchica, una rete di collegamenti e un radicamento territoriale e, dall’altro, una diffusività dei risultati illeciti, a sua volta produttiva di accrescimento della forza intimidatrice del sodalizio criminoso» (sentenza n. 231 del 2011). È di tutta evidenza la profonda differenza tra il paradigma punitivo ritenuto idoneo a giustificare la presunzione assoluta in esame e la connotazione normativa del delitto di cui all’art. 609-octies cod. pen., in relazione al quale la giurisprudenza di legittimità ha chiarito la differenza tra la nozione di gruppo e quella di associazione, quest’ultima ricollegabile al requisito della apposita creazione di una organizzazione, sia pure minima e rudimentale (Corte di cassazione, terza sezione penale, sentenza 3 giugno 1999, n. 11541). Se alla differenza della nozione di gruppo rispetto a quella di organizzazione – quest’ultima, peraltro, ancora insufficiente, di per sé sola, ad assicurare la tenuta costituzionale della presunzione in esame – si aggiunge la considerazione che, per consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, il delitto di cui all’art. 609-octies cod. pen. può perfezionarsi anche con il concorso di due sole persone, ossia con un numero di partecipi inferiore a quello necessario alla configurazione di qualsiasi figura di associazione per delinquere, emerge l’inidoneità della fattispecie criminosa della violenza sessuale di gruppo a rispondere a «dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit» (sentenza n. 139 del 2010), in forza dei quali riconoscere la legittimità della presunzione assoluta di cui alla norma censurata.

È da aggiungere una considerazione sulla sfera applicativa della figura delittuosa delineata dall’art. 609-octies cod. pen. per il tramite del richiamo agli atti sessuali di cui all’art. 609-bis cod. pen. L’ampia portata di quest’ultima fattispecie, che è frutto della concentrazione in un’unica norma incriminatrice delle «fattispecie di violenza carnale e di atti di libidine violenti, rispettivamente previste negli artt. 519 e 521 del testo originario del codice penale» e che, pertanto, abbraccia «una gamma assai vasta di comportamenti, caratterizzati dall’idoneità a incidere comunque sulle facoltà della persona offesa di autodeterminarsi liberamente nella propria sfera sessuale» (sentenza n. 325 del 2005), si riflette sulla fattispecie di violenza sessuale di gruppo, ulteriormente dilatata dall’inapplicabilità a quest’ultima della circostanza attenuante dei “casi di minore gravità” (art. 609-bis, terzo comma, cod. pen.). Di conseguenza, anche tenendo conto dell’esclusione dal regime cautelare speciale delle ipotesi attenuante di cui all’art. 609-octies, quarto comma, cod. pen., vale a fortiori per il delitto di violenza sessuale di gruppo il rilievo svolto da questa Corte in relazione alla violenza sessuale ex art. 609-bis cod. pen., ossia che la fattispecie criminosa già in astratto comprende «condotte nettamente differenti quanto a modalità lesive del bene protetto», il che «rende anche più debole la “base statistica” della presunzione assoluta considerata» (sentenza n. 265 del 2010).

7.– Deve, pertanto, concludersi che la norma censurata è in contrasto sia con l’art. 3 Cost., per l’irrazionale assoggettamento ad un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi riconducibili alla fattispecie in esame e per l’ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi al delitto di violenza sessuale di gruppo a quelli concernenti delitti caratterizzati dalla “struttura” e dalle “connotazioni criminologiche” tipiche del delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen.; sia con l’art. 13, primo comma, Cost., quale referente fondamentale del regime ordinario delle misure cautelari privative della libertà personale; sia, infine, con l’art. 27, secondo comma, Cost., in quanto attribuisce alla coercizione processuale tratti funzionali tipici della pena.

Come questa Corte ha già precisato, ciò che vulnera i parametri costituzionali richiamati non è la presunzione in sé, ma il suo carattere assoluto, che implica una indiscriminata e totale negazione di rilevanza al principio del «minore sacrificio necessario». La previsione, invece, di una presunzione solo relativa di adeguatezza della custodia carceraria – atta a realizzare una semplificazione del procedimento probatorio, suggerita da aspetti ricorrenti del fenomeno criminoso considerato, ma comunque superabile da elementi di segno contrario – non eccede i limiti di compatibilità costituzionale, rimanendo per tale verso non censurabile l’apprezzamento legislativo circa la ordinaria configurabilità di esigenze cautelari nel grado più intenso (sentenze n. 57 del 2013; n. 110 del 2012; n. 331, n. 231 e n. 164 del 2011; n. 265 del 2010).

Va, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, terzo periodo, cod. proc. pen., come modificato dall’articolo 2 del decreto-legge n. 11 del 2009, nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 609-octies cod. pen., è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 275, comma 3, terzo periodo, del codice di procedura penale, come modificato dall’articolo 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’articolo 609-octies del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 luglio 2013.

F.to:

Franco GALLO, Presidente

Giorgio LATTANZI, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 23 luglio 2013.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Gabriella MELATTI

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