SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II PENALE

Sentenza  22 novembre 2011, n. 42967


Fatto

1. Con sentenza in data 22/10/2010, la Corte di Appello di Messina confermava la sentenza pronunciata in data 20/12/2006 con la quale il g.m. del Tribunale della medesima città aveva ritenuto V. V. responsabile dei reati di cui agli artt. 348 – 640 c.p.

2.. Avverso la suddetta sentenza, l’imputato, a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione deducendo i seguenti motivi:

1. VIOLAZIONE DELL’ART. 348 C.P. per avere la Corte territoriale ritenuto che la consulenza legale rientrasse fra gli atti giudiziari tipici; e riservati alla professione forense. Inoltre la Corte territoriale non aveva considerato che, stante: «il brevissimo lasso di tempo trascorso tra il provvedimento di radiazione dall’albo degli avvocati emesso dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del 23/04/2004 ed il fatto oggetto di imputazione risalente ali’agosto dello stesso anno, non può far ritenere che lo stesso svolgesse un’attività vietata in maniera professionale, continuativa ed organizzata»;

2. VIOLAZIONE DELL’ART. 640 C.P. in quanto, avendo il ricorrente «indicato alla parte offesa una collega abilitata come soggetto che avrebbe patrocinato la causa dimostra l’assenza di volontà di arrecarle un danno, e l’intenzione, al contrario, di voler portare a compimento l’incarico ricevuto, seppure per il tramite del terzo».

Diritto

1. VIOLAZIONE DELL’ART. 348 C.P.: Il ricorso è fondato per le ragioni di seguito indicate.

Il V. è imputato dei reati: 1) di cui all’art. 348 c.p. per avere abusivamente esercitato la professione di Avvocato nonostante fosse stato radiato dall’albo; 2) Di cui all’art. 640 c.p. perché, con artifici e raggiri consistiti nel qualificarsi come avvocato, induceva in errore A. T. la quale gli consegnava l’assegno di € 1.500,00 quale acconto per la sua opera professionale.

La Corte territoriale ha ritenuto la configurabilità di entrambi i reati contestati sostenendo che: a) la mera consulenza legale è «pacificamente inquadrabile tra quella specifica della professione abusivamente esercitata», sicché è sufficiente, per la sussistenza del reato di cui all’art. 348 c.p., anche il compimento di un solo atto tipico e proprio della professione. «Il ricorso a una ex collega che avrebbe dovuto svolgere il ruolo sostanziale: di “prestanome”, è palesemente sintomatico della piena consapevolezza dell’antigiuridicità della propria condotta»; b) «l’attività dell’imputato fu sufficientemente duratura entro un arco temporale non secondario e produsse un infingimento della realtà sulle proprie c:ondizioni professionali che ben integrò anche il secondo reato oggetto di contestazione, la truffa». In ordine all’attività di consulenza, nell’ambito di questa stessa Corte di legittimità, vi è differenza di opinioni.

Infatti, mentre per una tesi «non commette il reato di abusivo esercizio della professione di avvocato (art. 348 cod. pen.) il soggetto che rediga una relazione di consulenza, su carta intestata “Studio legale internazionale” in ordine ad un procedimento penale, in quanto la consulenza non rientra tra gli atti tipici per i quali occorre una speciale abilitazione, ma è un’attività “relativamente libera, solo strumentalmente connessa con la professione forense» (Cass., 17921/2003 Rv. 224959), al contrario, per un’altra tesi, «ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 348 c.p. (abusivo esercizio di una professione), sono atti rilevanti non solo quelli riservati, in via esclusiva, a soggetti dotati di speciale abilitazione, c.d. atti tipici della professione, ma anche quelli c.d. caratteristici, strumentalmente connessi ai primi, a condizione che vengano compiuti in modo continuativo e professionale, in quanto, anche in questa seconda ipotesi, si ha esercizio della professione: per il quale è richiesta l’iscrizione nel relativo albo (Cass. 49/2002 Rv. 223215, la quale, peraltro, annullò senza rinvio la sentenza impugnata rilevando che, essendo pur sempre necessario l’esercizio di una attività sistematica e sia pure relativamente organizzata, nel caso di specie all’imputato era stata attribuita la prestazione isolata che non poteva essere considerata come sintomatica di un’attività svolta in forma professionale sulla base della sola dizione della carta intestata su cui è stato redatto il suo parere; Cass. 26829/2006 Rv. 234420 con riferimento alla somministrazione di medicinali).

Peraltro, quest’ultima tesi (fatta propria dalla Corte territoriale), richiede, per la configurabilità del reato che l’attività strumentale (nella specie, la consulenza) venga compiuta in modo continuativo e professionale, in quanto, solo in questa seconda ipotesi, si ha esercizio della professione per la quale è richiesta l’iscrizione nel relativo albo.

Orbene, nel caso di specie, quand’anche si volesse accedere alla tesi più restrittiva, resta il fatto, completamente negletto dalla Corte territoriale, che all’imputato è stato contestato un solo ed isolato episodio ai danni della sola patte offesa, A. T.

Poiché, né dal capo d’imputazione né dalla stessa motivazione della sentenza è minimamente ipotizzabile che l’imputato abbia esercitato in modo continuativo, sistematico ed organizzato l’attività di consulenza (essendo del tutto irrilevante che, nei confronti della sola A., la consulenza fu duratura, secondo quanto accertato dalla Corte territoriale), il reato non è configurabile. Di conseguenza, la sentenza, sul punto, va annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste.

2. VIOLAZIONE DELL’ART. 640 C.P.: per tale reato, invece, va dichiarata l’estinzione del reato per remissione della querela (ed accettazione della medesima) avvenuta il 24/10/2011 come risulta dalla documentazione in atti. Essendovi stato accoglimento parziale del ricorso (relativamente all’imputazione per l’art. 348 c.p.), non vi è luogo alla condanna alle spese ex art. 340/4 c.p.p.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata in ordine al delitto di cui all’art. 640 c.p. per essere il reato estinto per remissione di querela e, in ordine al delitto di cui ali’art. 348 c.p. perché il fatto non sussiste.

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