Cassazione 12

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II

SENTENZA 22 gennaio 2016, n.3000

Ritenuto in fatto

Con sentenza emessa in data 8/1/2014 la Corte d’Appello di Milano confermava integralmente la sentenza del Tribunale di Corno del 21/4/2010, che dichiarava L.R. ed E.A. colpevoli del reato di ricettazione ex art. 648 c. 2 c.p., consistente nella detenzione, per venderli, di diversi capi di abbigliamento con marchi contraffatti o comunque mendaci. Avverso tale sentenza proponevano ricorso per cassazione gli imputati per mezzo del difensore di fiducia il quale deduceva: 1) la violazione di legge ed il vizio di motivazione ex art. 606 lett. b) ed e) c.p.p., in relazione agli artt. 584 c.p.p. e 1 c. 7 D.L. 35/2005, in quanto la Corte d’Appello avrebbe erroneamente qualificato il caso in esame, in termini di ricettazione, escludendo la prospettata depenalizzazione, in ragione della non classificabilità, dei soggetti attivi quali ‘acquirenti finali’, qualità invece che, a detta della difesa, era emersa nel corso del processo e che la Corte ha escluso, non facendo, tra l’altro, buon governo dei principi di diritto affermati dalla Suprema Corte nella sentenza a Sezioni unite n. 22225/2012; 2) vizio di motivazione ex art. 606 lett. e) c.p.p., per mancanza e contraddittorietà della motivazione relativamente alla mancata pronuncia sulla richiesta di conversione della pena detentiva in pena pecuniaria avuto riguardo alla richiesta derubricazione del reato ex art. 712 c.p..

In fase di discussione la difesa eccepiva inoltre l’intervenuta prescrizione del reato.

Considerato in diritto

Il ricorso è inammissibile sotto diversi profili.

Il primo motivo di ricorso è inammissibile in quanto riguarda una violazione di legge non dedotta con i motivi di appello. L’art. 606 c. 3 c.p.p., letto in relazione all’art. 609 c. 1 c.p.p., fissa i limiti dell’applicazione del principio devolutivo al giudizio di legittimità. Deve concludersi che è inammissibile il motivo di impugnazione con cui venga dedotta una violazione di legge che non sia stata eccepita con l’atto di appello non avendo l’intervenuta trattazione della questione da parte del giudice di secondo grado, efficacia sanante ex post (Sez. 3 n.21920 del 16.5.2012, rv. 252773). Nel caso di specie il ricorrente prospetta in via principale, una violazione di legge con riferimento all’art. 1 e. 7 D.L. 35/2005 convertito nella L. 80/2005, nel testo successivamente modificato dalla L. 99/2009, in quanto la Corte d’appello, nel ritenere responsabili i due imputati per il reato di ricettazione, avente ad oggetto capi di abbigliamento con marchi contraffatti, avrebbe violato il dettato normativo di cui alla disciplina speciale citata, in tema di acquirente finale concetto esplicitato dalla Suprema Corte a Sezioni Unite nella sentenza n. 22225/2012. A detta dei ricorrenti, il dato normativo e l’interpretazione di esso fornita dalle Sezioni Unite, avrebbero determinato un’abolitio criminis, rientrando gli imputati, nella categoria degli ‘acquirenti finali’ e come tali, insuscettibili di sanzione penale, qualità che la Corte d’Appello non avrebbe valutato, ritenendo l’argomento inammissibile in quanto introdotto in dibattimento, nella fase della discussione finale.

Deve innanzi tutto essere chiaro che la questione riguardante la prospettata depenalizzazione del reato di cui all’art. 648 c.p. con riferimento all’acquirente finale, introdotta, nella prospettiva difensiva, dalla giurisprudenza di questa Corte a Sezione Unite per effetto della sentenza n. 22225/2012, parte dall’erroneo convincimento di ritenere che ‘il mutamento giurisprudenziale’, introdotto dal Supremo Collegio, sia idoneo a provocare una modifica del quadro normativo di riferimento, portata che nel nostro ordinamento viene riconosciuta esclusivamente alle sentenze demolitive o additive della Corte Costituzionale, ma non alle sentenze della Corte di Cassazione la cui funzione istituzionale nomofilattica, se garantisce l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale, non consente di attribuire alle sue pronunce il valore di norma di legge ( Corte Cost. n. 230/2012), ne consegue che la questione sottoposta alla Corte d’Appello, nella fase della discussione, è stata correttamente dichiarata inammissibile, trattandosi non già di ius supervenies, suscettibile di applicazione immediata in ragione della disciplina di cui all’art. 2 c.p., ma di argomento di natura interpretativo-giurisprudenziale, non contenuto nei motivi di appello, né introdotto con motivi nuovi e dunque non valutabile. D’altra parte l’ammissibilità di censure non tempestivamente formalizzate entro termini per l’impugnazione, determinerebbe una irragionevole estensione dei tempi di definizione del processo oltre che lo scardinamento del sistema dei termini per impugnare (Sez. 3, 5 maggio 2014 n. 18293, rv.259740). E pur essendo prevista, nel nostro ordinamento, la possibilità di introdurre ‘motivi nuovi’ a sostegno dell’originaria impugnazione (art. 585 c. 4 c.p.p.), essi devono avere ad oggetto i capi o punti della decisione impugnata che sono stati enunciati nell’originario atto di gravame ai sensi dell’art. 581 lett. a) c.p.p. (Sez. Unite 20 aprile 1998, n. 4683; rv.210259; Sez. 4, 2 febbraio 2005 n. 3453, Nwobodo), circostanza esclusa nel caso in esame, tenuto conto del contenuto dell’atto di appello. La Corte di merito, in ogni caso, incidentalmente, ha affrontato il tema della prospettata abolitio criminis dell’art. 648 c.p. ed ha escluso la configurabilità dell’illecito amministrativo (ex art. 1 c. 7 L. 35/2005 come successivamente modificata), non potendo considerare gli imputati ‘acquirenti finali’ proprio alla stregua della pronuncia n. 22225/2012 richiamata dalla difesa. Per meglio definire il concetto di acquirente finale occorre a questo punto evidenziare i passaggi fondamentali della sentenza delle Sezioni Unite del 19/1/2012.

Il Supremo Collegio perviene al principio di diritto secondo cui può essere considerato acquirente finale ‘colui che non partecipa affatto alla catena di produzione o di distribuzione e diffusione dei prodotti contraffatti, ma si limita ad acquistarli per uso personale’ (nel caso sottoposto all’esame delle Sezioni Unite si trattava di un orologio contraffatto proveniente dalla Cina), affermando la natura speciale, e dunque la prevalenza sul delitto di ricettazione in base all’art. 9 l. 689/1981, dell’illecito amministrativo configurato dall’art. 1, comma 7 d.l. 35/2005, attraverso una puntuale disamina delle modifiche che nel corso degli anni hanno investito la norma invocata. A tale proposito, particolare attenzione viene dedicata alla clausola di riserva ‘salvo che il fatto costituisca reato’. Originariamente essa si trovava collocata nell’incipit della disposizione, e pertanto si riferiva a tutte le condotte in essa previste, ossia tanto a quelle realizzate dal soggetto acquirente finale, quanto a quelle, più gravemente sanzionate, poste in essere da altri soggetti (in particolare operatori commerciali o importatori). La legge n. 99 del 2009 ha mutato la collocazione testuale della clausola in esame, la quale attualmente risulta riferibile soltanto alle condotte realizzate da operatori commerciali o importatori. La modifica viene valorizzata dalle Sezioni Unite alla stregua di una manifestazione della volontà legislativa di escludere in ogni caso la rilevanza penale delle condotte poste in essere dagli acquirenti finali. La citata pronuncia si diffonde poi sul tema del rapporto di specialità tra le norme di cui agli art. 648, 712 c.p. e l’illecito amministrativo previsto dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35,art. 1, comma 7 conv. nella L. 14 maggio 2005, n. 80, così come modificato dalla L. 23 luglio 2009 n. 99, art. 17, comma 2, con riferimento all’acquirente finale di un prodotto con marchio contraffatto o comunque di origine e provenienza diverse da quelle indicate e conclude affermando la specialità dell’illecito amministrativo rispetto agli acquisti effettuati dall’acquirente finale, sottolineando che per i soggetti diversi dall’acquirente finale, stante il mantenimento la clausola di riserva ‘salvo che il fatto costituisca reato’, solo l’acquisto di cose di provenienza altrimenti illecita, ovvero non provenienti da reato, configura l’illecito amministrativo di cui al D.L. n. 35 del 2005, art. 1, comma 7. Occorre allora chiarire quale sia il contenuto dell’espressione acquirente finale. La Suprema Corte nella sentenza citata definisce il concetto, tenendo conto non solo delle modifiche normative sopra illustrate, ma anche della relazione che accompagnava il disegno di legge governativo, per cui acquirente finale può essere definito il ‘consumatore consapevole’, ove il concetto di ‘consapevolezza’ dell’acquirente è all’evidenza ben diverso da quello di un acquirente semplicemente incauto, mentre il riferimento al ‘consumatore’ chiarisce che l’intento del legislatore è stato quello di dettare una disciplina sanzionatoria speciale dedicata a “qualsiasi persona fisica che agisca per fini che non rientrano nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale” (art. 2 direttiva dell’Unione Europea 11 maggio n. 2005/29/CE). L’acquirente finale nella prospettiva della Corte, viene contrapposto all’acquirente ‘professionale’, all’operatore commerciale e all’importatore, pertanto acquirente finale è colui che non partecipa in alcun modo alla catena di produzione o di distribuzione e diffusione dei prodotti contraffatti, ma si limita ad un acquisto ad uso esclusivamente personale. Aggiungono le Sezioni Unite che la previsione di un semplice illecito amministrativo per gli acquirenti finali di prodotti contraffatti rende la normativa in esame congruente con quella relativa all’acquisto di supporti audiovisivi, fonografici o informatici o multimediali non conformi alle prescrizioni legali, in relazione ai quali a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. 9 aprile 2003, n. 68, si configura una fattispecie penalmente rilevante a carico di coloro che effettuino l’acquisto a fine di commercializzazione, configurandosi l’illecito amministrativo previsto dall’art. 174-ter legge n. 633 del 1941 soltanto quando l’acquisto o la ricezione siano destinati a uso esclusivamente personale. In conclusione può senz’altro affermarsi che acquirente finale ovvero soggetto immune da sanzione penale alla stregua della L. 35/2005 come modificata dalla L. 99/2009, è solo colui che acquisti il prodotto contraffatto per sé e sia estraneo non solo al processo produttivo ma anche a quello diffusivo del prodotto contraffatto, la cui destinazione finale deve rimanere circoscritta all’uso e consumo dell’acquirente stesso.

Nel caso in esame la Corte di merito conformandosi a tali principi, ha correttamente evidenziato che gli imputati non potevano essere considerati acquirenti finali in quanto erano stati trovati in possesso di numerosi capi di abbigliamento ed accessori femminili che, sebbene non fosse provata la destinazione alla vendita, per ammissione degli stessi ricorrenti, erano pacificamente destinati a regalie in favore di familiari e dipendenti ‘per compensarli di qualche ora di straordinario’, così da garantirne l’uso ed il consumo a terzi, non rilevando se a titolo gratuito od oneroso.

Quanto all’eccezione di estinzione del reato per prescrizione, i ricorrenti non valutano che la fattispecie di reato contestata (art. 648 c. 2 c.p.) per giurisprudenza costante, non costituisce reato autonomo ma circostanze attenuante speciale, con la conseguenza che ai fini della prescrizione deve aversi riguardo alla pena edittale prevista per il reato base (anni dieci) e non per l’ipotesi attenuata (Sez. 2, 14 ottobre 2008, n. 38803, rv. 241450).

Infine con riferimento alla doglianza relativa all’omessa motivazione in ordine alla richiesta di conversione della pena detentiva in pena pecuniaria, trattasi di censura inammissibile in quanto il motivo di ricorso in appello è generico, non essendo stata formulata alcuna specifica circostanza idonea a giustificare il ricorso alla sanzione sostitutiva. È stato infatti affermato da questa Corte che il giudice di appello al quale sia dalla legge attribuito un potere discrezionale, deve fornire adeguata motivazione nella sentenza solo se eserciti tale potere o non lo eserciti nonostante sia stato motivatamente sollecitato a farlo dall’imputato o dal difensore (Sez. 6 12358/1998, rv.212325).

Tutto ciò comporta l’inammissibilità dell’impugnazione per manifesta infondatezza dei motivi proposti. Ne consegue, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che, considerati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro 1.000,00.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.

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