Suprema Corte di Cassazione
sezione II
sentenza 18 aprile 2014, n. 17348
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza in data 21/5/2012, la Corte di appello di Roma, confermava la sentenza del Tribunale di Roma, in data 15/11/2011, che aveva condannato B.B. (in concorso con P.S.) alla pena di anni due, giorni venti di reclusione ed €. 500,00 di multa per i reati di rapina e lesioni personali.
2. La Corte territoriale respingeva le censure mosse con l’atto d’appello, in punto di qualificazione giuridica del fatto, e confermava le statuizioni del primo giudice, ritenendo accertata la penale responsabilità dell’imputato in ordine ai reati a lui ascritti, ed equa la pena inflitta.
3. Avverso tale sentenza propone ricorso l’imputato per mezzo del suo difensore di fiducia, sollevando un unico motivo di gravame con il quale si duole di motivazione apparente in ordine alla qualificazione giuridica del fatto, da valutarsi alla stregua dell’art. 624 bis cod. pen.
Considerato in diritto
1.Il ricorso è inammissibile in quanto basato su motivi manifestamente infondati.
2. Rispetto alla linea di discrimine fra il furto con strappo e la rapina, la giurisprudenza di questa Corte ha osservato che integra il reato di furto con strappo la condotta di violenza immediatamente rivolta verso la cosa e solo in via del tutto indiretta verso la persona che la detiene, mentre ricorre il delitto di rapina quando la “res” sia particolarmente aderente al corpo del possessore e la violenza si estenda necessariamente alla persona, dovendo il soggetto attivo vincerne la resistenza e non solo superare la forza di coesione inerente alla normale relazione fisica tra il possessore e la cosa sottratta (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 41464 del 11/11/2010 Ud. (dep. 23/11/2010) Rv. 248751).
3. Nel caso di specie, correttamente la Corte territoriale ha ritenuto integrato il delitto di rapina in quanto la violenza è stata direttamente esercitata contro la persona poiché l’agente ha strappato con violenza la collana, cioè una cosa particolarmente aderente al corpo del possessore, che non poteva essere sottratta se non con violenza alla persona.
4. Ai sensi dell’articolo 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, l’imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonché – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle ammende di una
somma che, alla luce del dictum della Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000, si stima equo determinare in euro 1.000,00 (mille/00).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro mille alla Cassa delle ammende.
Così deciso, il 2 aprile 2014.
Leave a Reply