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Suprema Corte di Cassazione

sezione II

sentenza 12 giugno 2014, n. 13407

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 28-7-1993 R.M.L. , quale erede con beneficio di inventario del marito Co.An. , da cui si era separata consensualmente nel 1988, conveniva dinanzi al Tribunale di Marsala L.P.G. , C.A. , P.G. e P.R. , gli ultimi due quali eredi di C.M. , esponendo che con due atti pubblici del 4-2-1991 il de cuius, per vanificare i diritti successori della moglie, aveva apparentemente trasferito a L.P.G. e C.A. , a titolo oneroso, ma in realtà gratuitamente, un fabbricato in nuda proprietà ed alcuni appezzamenti di terreno, e con atto in data 2-8-1991 aveva venduto simulatamene alla nipote C.M. un ulteriore immobile. L’attrice chiedeva, conseguentemente, previo sequestro dei beni in questione, la dichiarazione di nullità ed inefficacia dei predetti rogiti, e l’affermazione del suo diritto alla porzione di sua pertinenza.
L.P.G. e C.A. si costituivano contestando la fondatezza della domanda e chiedendo la condanna della R. al risarcimento dei danni, ai sensi dell’art. 96 cpc e dell’art. 1226 c.c..
Nel corso del giudizio l’attrice dichiarava di rinunciare alla domanda nei confronti degli eredi di C.M. , essendo intercorsa tra le parti una transazione.
Con sentenza in data 6-2-2004 il Tribunale rigettava la domanda proposta dall’attrice, condannando quest’ultima al risarcimento dei danni subiti dai convenuti in conseguenza dell’esecuzione del sequestro dei beni autorizzato in corsi di causa.
A seguito di gravame proposto dalla R. , con sentenza in data 19-2-2008 la Corte di Appello di Palermo riformava parzialmente la decisione di primo grado, escludendo la condanna dell’attrice al risarcimento dei danni, ma confermando il rigetto delle sue domande.
La R. proponeva ricorso per cassazione avverso la predetta pronuncia, sulla base di quattro motivi.
Con sentenza in data 7-9-2009 la Corte di Cassazione accoglieva il primo motivo, con il quale l’attrice aveva lamentato che erroneamente la Corte di Appello aveva ritenuto che non fosse stata esercitata, già in primo grado, l’azione di reintegrazione nella legittima, con conseguente impossibilità di dimostrare mediante prove testimoniali e presuntive la simulazione degli atti di disposizione compiuti dal de cuius. Il giudice di legittimità osservava che la Corte territoriale non aveva tenuto conto delle conclusioni formulate nell’atto introduttivo del giudizio, con le quali l’attrice, facendo valere il proprio diritto alla quota di metà del patrimonio ereditario spettantele come legittimaria, aveva espressamente chiesto, previo accertamento del carattere gratuito delle alienazioni del 4-2-1991, la loro “riduzione fino alla quota stessa”; istanza poi ribadita nelle conclusioni finali e nell’atto di appello. La Corte di Cassazione dichiarava assorbiti gli altri motivi di ricorso, con i quali, in particolare, per quanto qui ancora rileva, la R. aveva lamentato il mancato riconoscimento del diritto di abitazione della casa coniugale, spettante alla vedova del defunto come legittimaria.
Con atto di citazione ex art. 392 c.p.c. la R. provvedeva alla riassunzione del giudizio.
Con sentenza in data 21-8-2002 la Corte di Appello di Palermo, pronunciando in sede di rinvio, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava che l’atto pubblico di vendita per notaio Marino del 4-2-1991 rep. 87180 dissimulava una donazione disposta da Co.An. in favore di C.A. e L.P.G. , nullo per difetto di forma, per violazione dell’art. 48 della legge n. 89/1913; dichiarava che l’atto pubblico di cessione onerosa per notaio Marino del 4-2-1991 rep. N. 87179 dissimulava un contratto di donazione disposta da Co.An. in favore di C.A. e L.P.G. ; disponeva reintegrarsi la quota di legittima spettante all’attrice sull’eredità relitta di Co.An. , deceduto il 3-4-1993, mediante l’attribuzione in favore della stessa dei beni elencati nel dispositivo e con condanna dei convenuti, in solido, al pagamento in favore della R. della somma di Euro 12.968,04. La Corte territoriale, al contrario, disattendeva le censure mosse dall’appellante avverso il capo della sentenza di primo grado che aveva negato alla R. il diritto di abitazione ex art. 540 c.c. sulla casa già adibita ad abitazione coniugale e il diritto d’uso sui relativi mobili.
Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso R.M.L. , sulla base di tre motivi.
L.P.G. e C.A. hanno resistito con controricorso, proponendo altresì ricorso incidentale, affidato ad un unico motivo.
La ricorrente principale ha resistito al ricorso incidentale con controricorso e successivamente ha depositato una memoria difensiva ex art. 378 cpc.

Motivi della decisione

1) Con il primo motivo la ricorrente principale lamenta la violazione degli artt. 540 primo comma, 548 primo comma e 560 c.c., 157 e 158 c.c., 707. 708 e 711 c.c., nonché la mancanza e contraddittorietà della motivazione. Sostiene che, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di appello, alla R. , quale coniuge separata senza addebito, spettava il diritto di abitazione sulla casa già adibita a casa coniugale e nella quale il de cuius aveva continuato ad abitare fino alla morte, non rilevando, in contrario, il fatto che, a seguito della separazione, l’attrice si fosse trasferita altrove.
Il motivo è infondato.
Deve premettersi che, ai sensi dell’art. 540 c.c., al coniuge è riservata, a titolo di legittima, una quota pari alla metà del patrimonio dell’altro, salve le disposizioni dettate in caso di concorso con i figli dal successivo art. 542 c.c., il quale prevede in favore del coniuge la riserva della quota di un terzo, in caso di un solo figlio, e di un quarto in caso di più figli. In ogni caso, ai sensi del secondo comma dello stesso art. 540 c.c., al coniuge superstite sono riservati il diritto di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredano, se di proprietà del defunto o comuni.
Questa Corte ha già avuto modo di precisare che il diritto reale di abitazione, riservato per legge al coniuge superstite (art. 540 cod. civ., comma 2), ha ad oggetto la casa coniugale, ossia l’immobile che in concreto era adibito a residenza familiare. Poiché, dunque, l’oggetto del diritto di abitazione mortis causa coincide con la casa adibita a residenza familiare, esso si identifica con l’immobile in cui i coniugi – secondo la loro determinazione convenzionale, assunta in base alle esigenze di entrambi- vivevano insieme stabilmente, organizzandovi la vita domestica del gruppo familiare (Cass. 14-3-2012 n. 4088).
E invero, le espressioni usate dall’art. 540, comma secondo, cit. (“…diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredano….”) non lasciano al riguardo spazi a dubbi interpretativi. Il diritto de quo (introdotto con la riforma di cui alla legge 19 maggio 1975 n.151), che spetta per legge al coniuge superstite ex lege, sorge chiaramente in esclusivo riferimento alla casa che dai coniugi era stata adibita a residenza familiare (dove il concetto di residenza, di cui all’art. 43, comma secondo, c.c., richiama la effettività della dimora abituale nella casa coniugale). Il contenuto del diritto in discorso viene poi completato dal diritto di uso sui mobili che corredano la casa coniugale, dove il corredare sta univocamente a significare che si riferisce alla destinazione in atto dei mobili di arredamento (Cass. 27-2-1998 n. 2159).
Secondo l’opinione prevalente, la ratio della suddetta normativa è da rinvenire nella tutela non tanto dell’interesse economico del coniuge superstite di disporre di un alloggio, quanto dell’interesse morale legato alla conservazione dei rapporti affettivi e consuetudinari con la casa familiare.
In proposito, è stato autorevolmente rilevato che oggetto della tutela dell’art. 540, secondo comma, c.c., non è il bisogno dell’alloggio (che da questa norma riceve protezione solo in via n indiretta ed eventuale), ma altri interessi di natura non patrimoniale, riconoscibili solo in connessione con la qualità di erede del coniuge, quali la conservazione della memoria del coniuge scomparso, il mantenimento del tenore di vita, delle relazioni sociali e degli status symbols goduti durante il matrimonio, con conseguente inapplicabilità, tra l’altro, dell’art. 1022 c.c., che regola l’ampiezza del diritto di abitazione in rapporto al bisogno dell’abitatore (Corte Cost. n. 310/1989).
Fatte queste puntualizzazioni riguardo alla matura ed all’ampiezza del diritto di abitazione previsto dal citato art. 540 c.c., si rileva che l’art. 548 primo comma c.c. equipara, quanto ai diritti successori attribuiti dalla legge, il coniuge separato senza addebito al coniuge non separato.
La formulazione di tale ultima norma lascerebbe intendere, a una prima lettura, che anche in favore del coniuge separato senza addebito debbano riconoscersi i diritti di abitazione e di uso di cui al secondo comma dell’art. 540 c.c..
In conformità del prevalente orientamento della dottrina, tuttavia, deve ritenersi che, in caso di separazione personale dei coniugi e di cessazione della convivenza, l’impossibilità di individuare una casa adibita a residenza familiare faccia venire meno il presupposto oggettivo richiesto ai fini dell’attribuzione dei diritti in parola.
Se, infatti, per le ragioni esposte, il diritto di abitazione (e il correlato diritto d’uso sui mobili) in favore del coniuge superstite può avere ad oggetto esclusivamente l’immobile concretamente utilizzato prima della morte del “de cuius” come residenza familiare, è evidente che l’applicabilità della norma in esame è condizionata all’effettiva esistenza, al momento dell’apertura della successione, di una casa adibita ad abitazione familiare; evenienza che non ricorre allorché, a seguito della separazione personale, sia cessato lo stato di convivenza tra i coniugi.
Nella ipotesi considerata, pertanto, essendo venuto meno il collegamento con l’originaria destinazione della casa di abitazione a “residenza familiare”, non può che ritenersi che il coniuge superstite perda i diritti in questione.
Nella specie, la Corte di Appello ha accertato, con apprezzamento in fatto non sindacabile in sede di legittimità, che, al momento del decesso di Co.An. , la R. non occupava più la casa a suo tempo adibita ad abitazione familiare, avendo trasferito altrove la propria residenza da alcuni anni, nell’ambito di accordi miranti a pervenire ad una separazione consensuale.
Nel negare, conseguentemente, all’attrice il diritto di abitazione sull’immobile in questione e il diritto d’uso sui relativi mobili, il giudice del gravame ha fatto corretta applicazione degli enunciati principi di diritto.
Ove si consideri, infatti, che la separazione consensuale tra i coniugi è intervenuta nel XXXX, ben cinque anni prima del decesso di Co.An. (XXXXXXXX), appare evidente che, dato il tempo trascorso, l’appartamento in questione aveva perso ogni collegamento con l’originaria destinazione a “residenza familiare”.
2) Con il secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione degli artt. 99 e 112 cpc, nonché la mancanza di motivazione, in ordine alla richiesta di sommatoria tra i valori corrispondenti alla quota di legittima ad essa spettante e quelli afferenti il legato ex lege di cui all’art. 540 secondo comma c.c..
Il motivo è infondato, essendosi la Corte di Appello pronunciata sulla domanda attrice, negando, con motivazione immune da vizi logici e giuridici, il riconoscimento in favore della R. dell’invocato diritto di abitazione sulla casa già adibita a residenza coniugale.
3) Con il terzo motivo la ricorrente si duole della violazione dell’art. 91 cpc, in relazione alla disposta compensazione delle spese nella misura di 1/4, in ragione della ritenuta soccombenza dell’attrice sul diritto di abitazione. Deduce che, una volta riconosciuto il diritto di abitazione della R. , le spese devono essere poste integralmente a carico dei convenuti.
Il motivo rimane assorbito dal rigetto del primo, stante l’acclarata insussistenza del diritto di abitazione reclamato dalla ricorrente.
4) Con l’unico motivo i ricorrenti incidentali lamentano “la falsa applicazione dell’art. 360 co 1 n. 3 e 4 cpc”. Deducono, in particolare, che, poiché la Corte di Cassazione non aveva emesso alcun principio di diritto vincolante per il giudice del rinvio, questo era tenuto unicamente a riesaminare i fatti oggetto di discussione ai fini di un nuovo apprezzamento complessivo. Rilevano, inoltre, che le presunzioni non costituiscono elementi sufficienti a provare il carattere simulatorio dell’atto pubblico.
Il motivo è inammissibile, risolvendosi in una serie di generiche e astratte petizioni di principio, senza individuare i punti della sentenza impugnata che si assumono essere in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie, peraltro nemmeno indicate, né spiegare, in concreto, le ragioni degli addebiti mossi.
Si rammenta, al riguardo, che il ricorso per cassazione deve contenere, a pena di inammissibilità, i motivi per i quali si richiede la cassazione, aventi i caratteri di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata; il che comporta la necessità dell’esatta individuazione del capo di pronunzia impugnata e dell’esposizione di ragioni che illustrino in modo intelligibile ed esauriente le dedotte violazioni di norme o principi di diritto, ovvero le carenze della motivazione (tra le tante v. 25-9-2009 n. 20652; 6-6-2006 n. 13259; Cass. 23-7-2004 n. 13830; Cass. 11-6-2003 n. 9371).
5) Per le ragioni esposte il ricorso principale va rigettato, mentre quello incidentale va dichiarato inammissibile.
La soccombenza reciproca delle parti giustifica la totale compensazione delle spese dalle stesse sostenute nel presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale, dichiara inammissibile quello incidentale e compensa integralmente le spese del presente giudizio di legittimità.

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