Cassazione toga rossa

Suprema Corte di Cassazione

sezione I

sentenza 29 ottobre 2014, n. 45001

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CORTESE Arturo – Presidente
Dott. NOVIK Toni Adet – Consigliere
Dott. DI TOMASSI M. Stefan – rel. Consigliere
Dott. BONITO Francesco M. S – Consigliere
Dott. SANDRINI Enrico Giusepp – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS);

avverso l’ordinanza emessa in data 1.4.2014 dal Tribunale di Napoli.

Visti gli atti, il provvedimento denunziato, il ricorso e le memorie;

Udita la relazione svolta dal Consigliere Di Tomassi M. Stefania;

Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. CEDRANGOLO Oscar, che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio del provvedimento impugnato;

Udito l’avvocato (OMISSIS), in sostituzione dell’avvocato (OMISSIS), per il ricorrente, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO
1. Con l’ordinanza in epigrafe il Tribunale di Napoli, investito ex articolo 324 c.p.p., dalla richiesta di riesame avanzata da (OMISSIS), terzo interessato, confermava il decreto in data 17.2.2014 del Giudice delle indagini preliminari che aveva disposto il sequestro preventivo del fondo agricolo condotto dal (OMISSIS), disposto, nell’ambito di procedimento che vedeva altri soggetti indagati, in relazione al reato di cui all’articolo 439 c.p., contestato in ragione del fatto che “con le acque prelevate da un pozzo irriguo ivi ubicato, caratterizzate dalla presenza di tetracloroetilene in quantita’ superiore a quella consentita” era stata effettuata l’irrigazione di prodotti agricoli destinati all’alimentazione.
A ragione della decisione, il Tribunale premetteva, citando Sezioni Unite n. 4 del 23/4/1993, che secondo principi consolidati il suo controllo non poteva investire la concreta fondatezza dell’accusa, ma doveva limitarsi invece “al profilo dell’astratta possibilita’ di sussumere il fatto attribuito … in una determinata ipotesi di reato”.
Osservava quindi, nel merito, che dalla comunicazione della notizia di reato stilata il 10 febbraio 2014 dal Corpo forestale dello Stato, dal rapporto di prova ARPAC del 15 dicembre 2013 e dal precedente verbale dello stesso ente in data 13 novembre 2013, emergeva che l’acqua prelevata dal pozzo esistente sul fondo sequestrato, alimentato da una falda acquifera sotterranea, presentava valori di tetracloroetilene – sostanza potenzialmente cancerogena – in misura pari a 3,9 mg/litro eccedenti i limiti normativamente consentiti, quantificati in 1,1 mg/litro; e tale concentrazione, comportando il raggiungimento della “soglia di contaminazione” (CSC), rendeva assolutamente necessaria, secondo quanto disposto dal Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 240, comma 1, lettera b), la caratterizzazione del sito e l’espletamento, ad opera degli organi deputati, dell’analisi di rischio specifica.
Sussisteva percio’ il fumus del delitto di avvelenamento di acque, costituente reato di mero pericolo, atteso l’uso irriguo che di regola veniva fatto delle acque emunte da detto pozzo, a prescindere dal concreto svolgimento delle attivita’ di caratterizzazione del sito e di analisi di rischio specifiche, che avrebbero successivamente consentito di acclarare se le sostanze di cui s’era riscontrata la presenza potevano ritenersi ordinariamente presenti nel fondo naturale geologico dell’area, o avevano piuttosto origine antropica: eventualita’ questa nella quale il delitto in contestazione si sarebbe potuto ritenere configurabile in termini di assoluta certezza.
Da quanto evidenziato discendeva altresi’ il periculum in mora, apprendo evidente che il fondo, se lasciato nella libera disponibilita’ del conduttore in forza di contratto di affitto agrario, avrebbe potuto formare oggetto di uso ulteriore, con aggravamento o protrazione delle conseguenze del reato contestato.
2. Ha proposto ricorso il (OMISSIS) a mezzo del difensore avvocato (OMISSIS), che chiede l’annullamento della ordinanza impugnata denunziando violazione di legge processuale e sostanziale.
Lamenta, in particolare, anzitutto che erroneamente il Tribunale si era ritagliato un ruolo di controllo non sull’astratta fondatezza dell’accusa, ma sulla sola riconducibilita’ in astratto della (non vagliata) ipotesi di reato lumeggiata dal Pubblico ministero ad una (altrettanto non vagliata) ipotesi di reato presente nel codice. Mentre, al fine di verificare la fondatezza dell’applicazione della misura cautelare reale, il Tribunale del riesame, pur non dovendo vagliare la fondatezza dell’accusa, neppure puo’ limitarsi a verificare soltanto l’astratta configurabilita’ del reato, dovendo comunque tenere conto in modo puntuale e coerente delle risultanze processuali e della situazione emergente dagli elementi forniti dalle parti, dunque anche dalla difesa (si cita sez. 6 , n. 42531 del 5/11/2013).
Il Tribunale del riesame, invece, non aveva menomamente esaminato le deduzioni difensive in ordine alla erronea applicazione del Decreto Legislativo n. 152 del 2006; non aveva minimamente valutato la problematica giuridica legata alla reale valenza delle CSC (Concentrazioni Soglia di Contaminazione) che si riferivano superate; non aveva preso in alcuna considerazione le prove addotte dalla difesa a dimostrazione della insussistenza dei presupposti del reato contestato.
Il ricorso ripete, dunque, illustrandole, le deduzioni che lamenta non esaminate dal Tribunale del riesame, evidenziando che gia’ negli atti difensivi prodotti al Tribunale del riesame si era dedotto:
– che l’acqua emunta dal pozzo agricolo non era destinata al consumo umano ma solo alla irrigazione;
– che in assenza di normativa specifica riguardante le acque ad uso irriguo, non poteva che essere richiamata, quale piu’ pertinente, la disciplina dell’acqua destinata al diretto consumo umano, cioe’ dell’acqua potabile;
– che erroneamente, percio’, s’era fatto riferimento al Decreto Legislativo n. 152 del 2006, e ai valori soglia da questo istituiti, anziche’ ai limiti previsti dalla Legge n. 31 del 2001 sull’acqua potabile;
– che, in ogni caso, i limiti riferiti alle CSC (Concentrazioni Soglia di Contaminazione) individuano, per il legislatore, l’esistenza di un sito solo “potenzialmente contaminato”, al solo fine dell’espletamento delle doverose attivita’ di apprezzamento delle ragioni di tale contaminazione e dell’effettivo raggiungimento di soglia di rischio (evidenziandosi, peraltro, che erroneamente il Tribunale aveva parlato di soglie espresse in milligrammo/litro anziche’ in microgrammo/litro);
– che la rilevata presenza di tetracloroetilene in percentuale di 3,9 microgrammo/litro risultava di gran lunga inferiore al limite previsto dalla legge vigente in materia di acqua destinata al consumo diretto umano, che pone il limite massimo di 10 microgrammo/litro di tetracloroetilene e tricloroetilene (nel caso in esame il valore di tricloroetilene era pari a zero);
– che a norma del diritto internazionale, recepito nel nostro ordinamento, addirittura era consigliato per la irrigazione l’uso di acque provenienti da depurazione dei liquami reflui;
– che l’ARPAC di Napoli, settore acque reflue, cui era stato affidato il compito di analizzare i campioni di acqua prelevati dal pozzo in uso al ricorrente, cosi’ come gli uffici a cui tali compiti erano stati subdelegati, non erano accreditati per tali analisi e non erano in possesso delle attrezzature necessarie;
– che, come evidenziato dal consulente di parte, il verbale di campionamento faceva riferimento ad un piezometro di monitoraggio chimico che non poteva essere usato anche per un pozzo di irrigazione, trattandosi di sistemi di captazione idraulica del tutto differenti, richiedenti tecniche di espurgo e di campionamento diverse, di modo che, attese le caratteristiche dell’elettropompa utilizzata, il campionamento non poteva ritenersi corretto;
– che le osservazioni difensive avevano peraltro trovato puntuale conferma nello studio elaborato dal Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali (pubblicato pochi giorni prima che fosse emesso il provvedimento impugnato ma citato nelle memorie difensive), con il quale si rendeva noto che le indagini tecniche per la mappatura dei terreni destinati all’agricoltura in Campania avevano portato all’individuazione di aree sospette nella percentuale del 2% dell’intero territorio, suddivise per fasce di rischio individuate dalle classi nn. 3, 4 e 5: solo per l’ultima delle quali veniva vietata, allo stato, la raccolta e la commercializzazione dei prodotti agricoli; mentre i terreni su cui si svolgeva l’attivita’ del ricorrente non risultavano inclusi in alcuna di dette aree, neppure tra quelle a piu’ basso rischio;
– che, in ogni caso, erroneamente era stata attribuita al tetracloroetilene la natura di sostanza cancerogena indicata nel regolamento CE 1272/08, quando, al contrario da detto regolamento risultava che la sostanza era classificata nella Categoria 2, tra quelle per le quali non esisteva prova sufficiente della cancerogenicita’;
– che l’inconfutabile dimostrazione dell’insussistenza del rischio di avvelenamento ipotizzato risiedeva, d’altro lato, nel fatto che la stessa Procura aveva autorizzato si e’ raccolto ossia la vendite commercializzazione della produzione agricola del fondo sequestrato, di quella cioe’ coltivata servendosi per l’irrigazione dell’acqua proveniente dai pozzi in indagine, e cio’ perche’ a seguito delle indagini tecniche fatte effettua da ricorrente sui prodotti da lui coltivati, gli stessi erano risultati immuni da contaminazioni sorta.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Osserva il Collegio che il ricorso appare, nei termini che si diranno, fondato.
2. E’ in primo luogo fondato il rilievo che il Tribunale ha erroneamente affermato di essere tenuto a un controllo sulla astratta configurabilita’ del fumus commissi delicti ridotto nella sostanza alla mera notarile comparazione tra descrizione della fattispecie concreta predicata in imputazione e fattispecie astratta, cosi’ in premessa negando di essere tenuto al controllo in ordine alla configurabilita’ della fattispecie concreta.
1.1. Tale controllo e’ invece doveroso, giacche’ fattispecie concreta che non e’ tanto, o soltanto, cio’ che e’ scritto nel capo d’incolpazione, ovverosia non coincide con la mera postulazione del reato predicato dal Pubblico ministero, ma consiste nella condotta in concreto realizzata quale emerge dagli atti d’accusa e dagli eventuali ulteriori incontrovertibili elementi forniti dalle parti (secondo i principi oramai pacificamente affermati, tra molte, da: Sez. 6 , Sentenza n. 45591 del 24/10/2013, Ferro, Rv. 257816; Sez. 6 , Sentenza n. 16153 del 06/02/2014, Di Salvo, Rv. 259337; Sez. 6 , Sentenza n. 35786 del 21/06/2012, Buttini, Rv. 254394; Sez. 4 , Sentenza n. 15448 del 14/03/2012, Vecchione, Rv. 253508; Sez. 3 , Sentenza n. 26197 del 05/05/2010, Bressan, Rv. 247694).
1.2. E’ d’altra parte la stessa Sez. U, n. 920 del 17/12/2003, Montella, che chiarisce che cio’ che si richiede per il controllo in ordine alla sussistenza del fumus e’ la verifica che nel fatto attribuito all’indagato, in relazione alle concrete circostanze indicate dall’accusa, sia “astrattamente” configurabile una delle ipotesi criminose previste dalla norma cui si riferisce l’incolpazione: dove all’evidenza il termine “astrattamente” sta a significare che cio’ che basta, ma da cui non puo’ prescindersi, e’ un minimo di elementi di fatto sufficienti a far apparire prima facie non avventata la contestazione e a far ragionevolmente supporre, percio’, che essa, pur con le opportune integrazioni e le indispensabili verifiche, possa trovare conferma nel successivo giudizio di accertamento.
In altri termini, allorche’ si parla di mero raffronto tra fattispecie concreta e fattispecie astratta, comunque si postula che la prima consista in una condotta, e se la fattispecie astratta lo prevede, in un evento, effettivamente ipotizzabili come realizzati, quantomeno dal punto di vista oggettivo, in base ai dati allegati a sostegno dell’accusa e purche’ gli stessi non risultino all’evidenza insussistenti o contraddetti da quanto allegato dalla difesa; non bastando certamente che l’esistenza di essi si presupponga nella contestazione formale.
1.3. Deve dunque ribadirsi che il nesso di pertinenzialita’ che, ai fini dell’applicabilita’ della cautela reale di prevenzione, deve sussistere, sul piano sostanziale, tra oggetto del sequestro e reato – e che corrisponde, sul piano processuale, alla funzione servente della misura cautelare – pur potendo fare astrazione da qualsiasi profilo di responsabilita’ del titolare del bene sequestrato, che come nel caso in esame puo’ persino essere soggetto diverso dalla persona indagata, non ammette pero’ che si ignorino i dati materiali e le ragioni che consentono di ritenere esistente, o viceversa ictu oculi insussistente, la fattispecie concreta.
3. Nel caso in esame il Tribunale non poteva percio’ completamente ignorare – come ha invece fatto sulla base della erronea premessa riferita – le molte, articolate e pertinenti deduzioni del ricorrente, versate nelle memorie in atti e puntualmente riprodotte nel ricorso (come sintetizzate prima, nella parte in fatto), con cui si contestava in radice la configurabilita’ della fattispecie concreta di avvelenamento delle acque oggetto di contestazione alla luce dei dati obiettivi allegati (non ultimo dei quali, in termini di mera plausibilita’, l’autorizzazione concessa dallo stesso Pubblico ministero alla commercializzazione dei prodotti irrigati con quelle stesse acque) e della ricostruzione del quadro normativo di riferimento.
4. Sotto altro, concorrente, aspetto, fondata appare altresi’ la censura con cui si denunzia violazione della legge sostanziale per avere il provvedimento impugnato ritenuto ipotizzabile il reato di avvelenamento evocando l’esistenza di rilevamenti che consentivano di ritenere al piu’ superate i livelli di contaminazione definiti CSC (concentrazioni soglia di contaminazione) di cui al Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 240, comma 1, lettera b), come individuate nell’Allegato 5 alla parte quarta del medesimo decreto.
4.1. E’ principio ripetutamente affermato, e condiviso, che per la configurabilita’ del reato di avvelenamento (sia esso ipotizzato, come nella specie, quale delitto doloso, o quale fatto colposo) di acque o sostanze destinate all’alimentazione, pur potendosi ritenere giustificato l’orientamento secondo cui che il reato e’ di pericolo presunto, e’ tuttavia necessario che un “avvelenamento”, vi sia comunque stato. E il termine “avvelenamento”, “che ha pregnanza semantica tale da renderne deducibile in via normale il pericolo per la salute pubblica”, non puo’ riferirsi che “a condotte che, per la qualita’ e la quantita’ dell’inquinante, siano pericolose per la salute pubblica (vale a dire potenzialmente idonee a produrre effetti tossico-nocivi per la salute)”. Detta pericolosita’ deve dunque potersi ritenere scientificamente accertata, nel senso che deve essere riferita a “dose di sostanza contaminante alla quale le indagini scientifiche hanno associato effetti avversi per la salute” (Sez. 4 , n. 15216 del 13/02/2007, Della Torre, Rv. 236168).
4.2. Ne discende che non puo’ ritenersi corretto, neppure ai limitati fini dell’apprezzamento del fumus del reato contestato, allorche’ si ipotizza che questo consisterebbe nell’avvelenamento di acque o di sostanze alimentari ai sensi dell’articolo 439 c.p., il riferimento a schemi presuntivi che s’attestano su indicazioni di carattere meramente precauzionale, ovvero, in particolare, ai cosiddetti CSC, limiti di concentratone della contaminazione che costituiscono ai sensi del citato decreto legislativo sull’inquinamento la prudenziale indicazione di una soglia di valori al di sotto della quale non si richiede, neppure in presenza di assunzione quotidiana e sul lungo periodo, alcun accertamento ulteriore di rischio e il cui superamento neppure basta ad integrare la fattispecie specifica di cui al Decreto Legislativo n. 156 del 2006, articolo 257, posto che per la punibilita’ delle condotte ivi previste – che pure implicano un “inquinamento” che costituisce evidentemente un minus rispetto all’ipotesi di “avvelenamento” – si richiede il superamento delle “concentrazioni soglie di rischio” (CSR), ovverosia di valori ben superiori ai parametri di CSC (cfr., da ultimo, Sez. 3 , Sentenza n. 25718 del 16.5.2014) cui, come detto, si limita a fare riferimento il provvedimento impugnato.
5. Per le ragioni esposte il provvedimento impugnato non puo’ che essere annullato con rinvio al Tribunale di Napoli, perche’ proceda a nuovo esame attenendosi ai principi enunziati e dando conto di avere considerato le pertinenti osservazioni difensive.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di Napoli.

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