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Suprema Corte di Cassazione

sezione I

sentenza 19 giugno 2014, n. 13983

Svolgimento del processo

Il Tribunale di Torino, giudicando nella causa di separazione personale tra i coniugi G.M. e G.F., rigettò le reciproche domande di addebito, dispose l’affidamento condiviso del figlio minore con collocazione abitativa presso la madre, disciplinando le modalità dei rapporti con il padre, e pose a carico del F. un contributo al mantenimento del figlio e della moglie.
La Corte di appello di Torino, con sentenza 1 giugno 2012, ha rigettato l’appello principale della M. e quello incidentale del F. Per quanto ancora interessa in questa sede, con riguardo alle domande di addebito, la corte ha condiviso la valutazione del tribunale che aveva ritenuti che i fatti da lei addebitati al marito (tra cui comportamenti assimilabili a mobbing familiare, atteggiamenti prepotenti e sprezzanti, villane espressioni indirizzate alla moglie, ecc.) non fossero causa ma effetto di un progressivo deterioramento del rapporto coniugale già in atto e che ciò giustificasse la decisione di non ammettere le istanze probatorie della M. in quanto attinenti a fatti temporalmente prossimi alla richiesta di separazione o generici e irrilevanti; analoga condivisione è stata espressa dalla corte con riguardo al rigetto della domanda di addebito proposta dal marito in relazione a fatti che non dimostravano la violazione dei doveri nascenti dal matrimonio e non rilevanti come causa della crisi matrimoniale. La corte ha inoltre ritenuto che non vi fossero ragioni di opportunità per modificare il regime di affidamento condiviso del figlio, che era in vigore dal 2006 con risultati positivi, anche tenuto conto del fatto che egli era prossimo alla maggiore età e che entrambi i genitori erano adeguati a tal fine.
Avverso questa sentenza la M. propone ricorso per cassazione sulla base di due motivi, cui resiste il F. che propone ricorso incidentale affidato a due motivi. Entrambe le parti hanno presentato memorie.

Motivi della decisione

Preliminarmente va dichiarata inammissibile la corposa produzione documentale allegata alla memoria del F. ex art. 378 c.p.c., non avente ad oggetto né la nullità della sentenza impugnata né l’ammissibilità del controricorso (art. 372 c.p.c.).
Venendo ad esaminare il ricorso principale, nel primo motivo la M. deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116, 151, comma 2, e 277 c.c., nonché insufficiente motivazione, per avere la corte del merito rigettato il motivo di appello con cui essa aveva dedotto l’erronea valutazione da parte del primo giudice delle condotte di mobbing poste in essere dal F. e consistite in provocazioni, offese e umiliazioni di vario genere e con diverse modalità al fine di indurla a lasciare la casa coniugale. Il tribunale aveva ritenuto che quelle condotte erano successive al sorgere della crisi coniugale, come dimostrato da un fax dell’avv. B. dell’8 gennaio 2006 da cui emergeva che le parti già allora erano assistite da difensori a causa di una crisi che sarebbe sfociata nel ricorso per separazione presentato il 1° dicembre 2006. Tale valutazione non sarebbe condivisibile perché inficiata da un errore materiale sulla data del fax, inviato ai difensori del F. un anno dopo (l’8 gennaio 2007), con la conseguenza che le condotte di mobbing precedevano i contatti tra i difensori di quasi un anno e, quindi, doveva ritenersi che erano state causa della crisi coniugale. Inoltre, si imputa alla corte del merito di avere, da un lato, svalutato la rilevanza di fatti accaduti sin dal 2002 e, dall’altro, attribuito improprio valore alle dichiarazioni rese dagli stessi coniugi all’udienza presidenziale.
Il motivo è infondato.
Una violazione dell’art. 115 c.p.c. è configurabile solo ove il giudice ometta di valutare le risultanze istruttorie indicate dalla parte come decisive o ponga a base della decisione circostanze non ritualmente acquisite al giudizio; inoltre, non sussiste violazione dell’art. 116 C.P.C. laddove, nell’esercizio del suo prudente apprezzamento delle risultanze istruttorie, il giudice indichi con motivazione logica ed esauriente (o lasci intendere implicitamente quali siano) le ragioni della ritenuta decisività di alcune risultanze istruttorie a preferenza di altre; né integra una violazione dell’art. 2697 c.c. (richiamato nel corpo del motivo) la erronea valutazione delle risultanze istruttorie che è censurabile soltanto per vizio della motivazione (v. Cass. n. 4330/2013, n. 12968/2012).
La corte torinese, con motivazione congrua ed immune da vizi logici, ha ritenuto che i comportamenti di mobbing addebitati al marito allo scopo di indurla ad abbandonare la casa coniugale non potevano dirsi causa ima conseguenza di una crisi coniugale già in atto, in quanto riferibili ad un periodo (primi mesi del 2006) in cui le parti erano già avviate sulla strada della separazione (formalizzata dal F. nel dicembre dello stesso anno), e ciò contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente che ha erroneamente addebitato alla sentenza impugnata di avere ritenuto che la crisi coniugale fosse “perdurante da anni e anni anteriormente al 2006”. La corte ha anche condiviso la non ammissione di alcune istanze probatorie della M. in quanto “da un lato generiche quanto a collocazione temporale dei fatti addebitati e dall’altro irrilevanti”, statuizione questa non espressamente censurata in questa sede mediante un apposito mezzo che avrebbe dovuto essere supportato dall’indicazione dell’atto con cui quelle istanze erano state formulate, dalla trascrizione del testo delle stesse e da un’argomentata dimostrazione della loro decisività (la quale può comunque escludersi sia con riguardo al presunto errore lamentato dalla ricorrente circa la datazione del fax, sia con riguardo alle circostanze riferite in ricorso, datate al 2002 e alla fine del 2005, che dimostrano soltanto opinioni divergenti o contrasti di natura economica sulla ristrutturazione della casa coniugale). Del resto, com’è noto, l’individuazione delle fonti del proprio convincimento, la valutazione delle prove e anche la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (v., tra le tante, Cass. n. 17097/2010, n. 12362/2006).
La ricorrente ha censurato per incongruità e contraddittorietà l’affermazione della corte che ha ritenuto che fosse improprio il riferimento all’istituto del mobbing in ambito familiare e che nel nostro ordinamento per provocare l’allontanamento del coniuge indesiderato non sarebbe necessaria l’adozione di un comportamento di tal genere, essendo sufficiente chiedere la separazione personale, come aveva fatto il F. senza attendere i risultati del suo ipotizzato piano persecutorio. Sono necessarie alcune precisazioni.
Per mobbing si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili (illeciti o anche leciti se considerati singolarmente) che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità (v., tra le altre, Cass., sez. lav., n. 3785/2009; anche n. 18093/2013). La nozione di mobbing è particolarmente utile per fotografare quelle situazioni patologiche che possono sorgere in presenza di un dislivello tra gli antagonisti, dove la vittima si trova in posizione di costante inferiorità rispetto ad un’altra o ad altre persone, e ciò spiega perché è con riferimento ai rapporti di lavoro che quella nozione è stata elaborata ed ha avuto applicazione.
In ambito familiare, invece, vige il principio di uguaglianza morale e giuridica tra i coniugi (art. 3 Cost.); l’unità familiare (art. 29 Cost.), che in passato aveva consentito di giustificare l’autorità del marito, è oggi affidata all’accordo dei coniugi che, come notato da acuta dottrina, condiziona la costituzione e conservazione del rapporto matrimoniale. La ricorrente sollecita l’applicazione della nozione di mobbing anche ai rapporti familiari tra coniugi, valorizzandone la natura di comportamento contrario ai doveri che derivano del matrimonio e idoneo a rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza (art. 151 c.c.), nei casi in cui un coniuge assuma atteggiamenti persecutori nei confronti dell’altro al fine di costringerlo ad abbandonare il tetto coniugale o ad accettare separazioni consensuali a condizioni inadeguate. Si ipotizza, in sostanza, che il comportamento del coniuge mobber integri di per sé una violazione degli obblighi di assistenza morale e materiale e di collaborazione previsti dall’art. 143 c.c., ma questa conclusione non è condivisibile.
La nozione di mobbing in materia familiare è utile in campo sociologico, ma in ambito giuridico assume un rilievo meramente descrittivo, in quanto non scalfisce il principio che l’addebito della separazione richiede pur sempre la rigorosa prova sia del compimento da parte del coniuge di specifici atti consapevolmente contrari ai doveri del matrimonio – quelli tipici previsti dall’art. 143 c.c. e quelli posti a tutela della personalità individuale di ciascun coniuge in quanto singolo e membro della formazione sociale familiare ex artt. 2 e 29 Cost. – sia del nesso di causalità tra gli stessi atti e il determinarsi dell’intollerabilità della convivenza o del grave pregiudizio per i figli (v., tra le tante, Cass. n. 25843/2013, n. 2059/2012, n. 14840/2006). Questa impostazione, la quale esclude ogni facilitazione probatoria per il coniuge richiedente l’addebito, neppure scalfisce (ed è anzi coerente con) il principio secondo cui il rispetto della dignità e della personalità dei coniugi assurge a diritto inviolabile la cui violazione può rilevare come fatto generatore di responsabilità aquiliana (v. Cass. n. 5652/2012, n. 9801/2005) anche in mancanza di una pronuncia di addebito della separazione (v. Cass. n. 18853/2011).
Il secondo motivo del ricorso principale, in tema di affidamento del figlio, è inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse, avendo egli raggiunto la maggiore età nell’anno 2013.
Venendo al ricorso incidentale del F., il primo motivo (per violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. e insufficiente motivazione) riguarda il mancato addebito della separazione alla moglie, in quanto considerata responsabile di una continua e reiterata condotta aggressiva verso il marito consistita in numerose iniziative assunte in varie sedi processuali (quali la proposizione del gravame avverso la sentenza del tribunale, di un ricorso urgente nel giudizio di appello e del ricorso per cassazione in esame, nonché per avere proposto una querela nei suoi confronti, rifiutato una proposta transattiva e introdotto altra causa civile per il rimborso delle spese di ristrutturazione dell’abitazione coniugale). Il motivo è infondato in quanto basato su comportamenti del coniuge in parte diversi da quelli fatti valere nel giudizio di merito (dove il F. aveva dedotto il carattere intollerante della moglie, la sua ostilità verso la famiglia di origine del marito, l’insofferenza verso la casa coniugale) e in parte successivi alla proposizione della domanda di separazione e, quindi, intrinsecamente privi di ogni influenza ai fini della intollerabilità della convivenza e, conseguentemente, della pronuncia di addebito (v. Cass. n. 8512/2006, n. 3098/1995).
Il secondo motivo dell’incidentale, che deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 155 bis c.c. e 91 e 96 c.p.c., è inammissibile, avendo la corte di appello fatto uso del potere discrezionale di compensazione delle spese processuali, in considerazione della soccombenza reciproca, che è incensurabile in Cassazione (v. Cass., sez. un., n. 14989/2005).
In conclusione, entrambi i ricorsi sono rigettati. Sussistono giusti motivi di compensazione delle spese del giudizio di legittimità, vista la reciproca soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta i ricorsi; compensa le spese del giudizio. In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi.

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