cassazione 7

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE I

SENTENZA 15 aprile 2015, n. 7613

Ritenuto in fatto

La Corte d’appello di Palermo, con la sentenza del 26 settembre 2012, ha respinto l’opposizione avverso il decreto del 30 marzo 2010, relativo all’esecutività in Italia dell’ordinanza emessa dal Giudice del sequestro di prima istanza di Bruxelles il 15 aprile 2009, che aveva dichiarato dovuto, per il numero di giorni intercorso tra il 17 luglio 2008 e il 20 ottobre 2008, l’importo giornaliero determinato dal Presidente del Tribunale di Commercio di Bruxelles del 5 marzo 2008, concernente il ritardo nella consegna al sequestratario nominato dal giudice di azioni rappresentative del capitale sociale della Mondello Immobiliere Italo-Belge s. a..
La corte d’appello ha ritenuto che: a) sebbene il provvedimento straniero non sia stato tempestivamente notificato ad uno degli opponenti, egli ha presentato dettagliato ricorso in opposizione, così dimostrando di essere a piena conoscenza del provvedimento, ritualmente notificato all’altro opponente; b) il provvedimento del giudice straniero, pur non definitivo al momento della proposizione del ricorso in exequatur, lo è divenuto nel corso del giudizio d’opposizione, onde il sostanziale rispetto dell’art. 49 del Regol. 44/2001/CE; c) l’ordinanza di condanna all’astraiate non è contraria all’ordine pubblico interno, dal momento che esiste nel nostro ordinamento l’art. 614 bis c.p.c., introdotto dall’art. 49 della legge n. 69 del 2009, il quale prevede un istituto del tutto simile; d) l’allegata sproporzione della penalità stabilita dal giudice straniero è questione di merito, preclusa al giudice italiano ex art. 45 del citato regolamento.
Per la cassazione di questa sentenza viene proposto ricorso sulla base di quattro motivi, illustrati da memoria; resistono con controricorso gli intimati.

Motivi della decisione

– Con il primo motivo, i ricorrenti censurano la violazione dell’art. 38 Regol. 44/2001/CE, 2697 c.c. e 112 c.p.c., con nullità della sentenza, oltre al vizio di omessa motivazione, per avere la corte del merito trascurato di valutare i profili concernenti la qualità di parte interessata dei soggetti richiedenti l’exequatur (dal momento che non risultava che l’ammenda fosse dovuta ad essi, e non invece allo Stato o al custode giudiziario) e la natura esecutiva del provvedimento, dalle controparti non dimostrati e sui quali gli opponenti avevano sollecitato una pronuncia.

Con il secondo motivo, deducono la violazione dell’art. 42 Regol. 44/2001/CE, la nullità della sentenza e del procedimento e la motivazione insufficiente, perché controparte ha notificato tardivamente a Ca.Ma. la decisione straniera dichiarata esecutiva, mentre la corte territoriale ha ritenuto la circostanza irrilevante in quanto la parte era a conoscenza del ricorso cui si era opposta, dovendosi tuttavia la norma menzionata interpretare restrittivamente, quanto al rispetto delle forme previste.

Con il terzo motivo, censurano la violazione degli art. 49 Regol. 44/2001/CE e 2697 c.c., la nullità della sentenza e del procedimento e la motivazione insufficiente, posto che detta norma permette l’esecutività delle decisioni straniere che applicano una penalità soltanto ove definitive: mentre quella di specie era ancora non definitiva al momento della proposizione dell’istanza di esecutività alla corte d’appello.

Con il quarto motivo, lamentano la violazione degli art. 34 e 45 Regol. 44/2001/CE, 15 l. n. 218 del 1995, 11 e 12 preleggi, 58 l. n. 69 del 2009, oltre alla motivazione insufficiente, per essere la decisione riconosciuta contraria all’ordine pubblico interno, contrastando con esso l’istituto belga delle astreintes, posto che per l’ordinamento italiano il sistema della responsabilità civile ha unicamente funzione reintegratoria, non punitiva e che l’art. 614 bis c.p.c. non era ancora stato emanato allorché il giudice belga comminò il danno punitivo in discorso.

  • Il primo motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile.

La questione in esso illustrata non fu, invero, proposta con il ricorso in opposizione, come palesa il riferimento degli stessi ricorrenti all’atto in cui affermano di averla introdotta, vale a dire la memoria di replica innanzi alla corte d’appello: laddove, secondo il costante orientamento di questa Corte (e plurimis, Cass. 7 dicembre 2004, n. 22970), con tale memoria le parti possono solo replicare alle deduzioni avversarie ed illustrare ulteriormente le tesi difensive già enunciate nelle comparse conclusionali, ma non esporre questioni nuove o formulare nuove conclusioni; pertanto, ove sia prospettata per la prima volta una questione nuova con tale atto, il giudice non può e non deve pronunciarsi al riguardo.

Il motivo è inammissibile, invece, quanto al dedotto vizio di motivazione – dovendo le osservazioni che seguono valere anche per i vizi motivazionali denunziati con i restanti motivi – perché in netta dissonanza con l’art. 360, 1 comma, n. 5, c.p.c., come riformato dall’art. 54, 1 comma, lett. b), del d.l. n. 83 del 2012, convertito in legge n. 134 del 2012, che prevede l’esclusiva deducibilità dell’”omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. Tale disposizione – applicabile ratione temporis alla fattispecie, in cui l’impugnazione riguarda una sentenza depositata il 26 settembre 2012, successivamente alla data (12 settembre 2012) di entrata in vigore della novella (cfr. il comma 3 dell’articolo citato) – ha, infatti, circoscritto il sindacato sulla motivazione, in sede di giudizio di legittimità, alla sola anomalia motivazionale che, concretandosi in violazione di legge costituzionalmente rilevante, incida sull’esistenza stessa della motivazione (risolvendosi nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili, nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile) ed ha deprivato di ogni rilevanza l’insufficienza motivazionale, che non si risolva in omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali e che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere di decisività (cfr. Cass., sez. un., 7 aprile 2014, nn. 8053 e 8054).

  • Il secondo motivo è infondato.

La sentenza impugnata ha rilevato che l’art. 42 Regol. 44/2001/CE dispone la notifica alla parte contro cui è chiesta l’esecuzione, attribuendo a quest’ultima il diritto di opposizione. Ne ha ricavato che nessun pregiudizio si è verificato nella specie al diritto dell’istante, che si è puntualmente e diffusamente difeso opponendosi alla concessione dell’esecutività medesima.

Come questa Corte ha avuto modo di precisare (Cass. 20 novembre 2012, n. 20382), le decisioni emesse in uno Stato membro ed ivi esecutive sono automaticamente riconosciute per tali anche negli altri Stati membri (art. 38, 41 Regol. 44/2001/CE) e la parte contro cui è chiesta l’esecuzione può proporre apposito ricorso (art. 43 del citato regolamento), avendo dunque il legislatore comunitario delineato un sistema incentrato sulla diretta efficacia negli Stati membri dei provvedimenti giudiziari emessi in uno di essi, salva la possibilità di contestazioni da parte del potenziale esecutato, onde rileva soltanto la concreta lesione del diritto di difesa. In particolare, il procedimento delineato dal citato regolamento comunitario è un giudizio di cognizione di tipo monitorio, ispirato ad esigenze di celerità, mirando la norma suddetta a consentire al destinatario l’esercizio del suo diritto ad opporsi all’esecuzione.

La decisione si è uniformata ai principi enunciati, avendo accertato che il diritto di difesa era stato esercitato con pienezza di tutela.

  • Il terzo motivo è infondato.

La sentenza impugnata ha considerato la circostanza, dalla medesima accertata, che, al momento della decisione, il provvedimento straniero era passato in giudicato, onde non sussiste violazione alcuna dell’art. 49 Regol. 44/2001/CE.

Infatti, deve ritenersi irrilevante, per quanto esposto al p.3, la dedotta mancanza del presupposto della declaratoria d’esecutività al momento dell’emissione del decreto (nella specie, per non essere ancora definitiva la decisione straniera), rilevando invece il momento della definizione dell’opposizione da parte della corte d’appello.

  • Il quarto motivo è infondato.

I ricorrenti invocano l’art. 34 Regol. 44/2001/CE, richiamato dall’art. 45, secondo cui le decisioni non sono riconosciute “1) se il riconoscimento è manifestamente contrario all’ordine pubblico dello Stato membro richiesto”.

Il precetto è stato ribadito dall’art. 45 Regol. 1215/2012/Ue, pur non applicabile al caso di specie, entrato in vigore lo scorso mese di gennaio.

La corte del merito ha qualificato la misura comminata, disposta in applicazione dell’art. 1385 bis, 1 comma, del code judiciaire belga, quale astreinte, affermando che l’istituto è “posto a fondamento del provvedimento del giudice belga” e reputandolo non contrario agli schemi legali del nostro ordinamento, data l’introduzione nel 2009 dell’art. 614 bis c.p.c., contenente proprio una misura coercitiva indiretta finalizzata all’attuazione degli obblighi di fare infungibile e di non fare.

Reputa il Collegio che tale decisione non incorra nel vizio dai ricorrenti denunziato.

5.1. – La clausola dell’ordine pubblico mira a proteggere la coerenza interna dell’ordinamento; ma l’alta discrezionalità che comporta l’applicazione di tale limite deve indurre a farvi prudente ricorso, come è evidenziato dallo stesso avverbio utilizzato.

Non si chiede, infatti, al giudice, chiamato al riconoscimento, di constatare la diversità della disciplina posta alla base della sentenza straniera rispetto al nostro ordinamento, ma di verificare se gli effetti della sua applicazione superino il vaglio di liceità alla luce dei principi di ordine pubblico. Ciò atteso il carattere di straordinarietà che il diniego di esecutività ha assunto con il regolamento n. 44/2001, ma che già caratterizzava la Convenzione di Bruxelles, il quale trova riscontro nella giurisprudenza di questa Corte di legittimità e in quella della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

Tale Corte ha chiarito (Corte di giustizia, 6 settembre 2012, C-619/10, Trade Agency Ltd, punti 48 e 51) che, poiché l’art. 34, punto 1, del regolamento 44/2001 deve essere interpretato restrittivamente, in quanto costituisce un ostacolo alla realizzazione di uno degli obiettivi fondamentali del regolamento, il ricorso alla clausola relativa all’ordine pubblico “può avvenire soltanto in casi eccezionali”, così puntualizzando: “È quindi ipotizzatile ricorrere alla clausola relativa all’ordine pubblico di cui all’art. 34, punto 1, del regolamento 44/2001 solo ove il riconoscimento o l’esecuzione della decisione emessa in un altro Stato membro contrasti in modo inaccettabile con l’ordinamento giuridico dello Stato membro richiesto, in quanto lesiva di un principio fondamentale. La lesione dovrebbe costituire una manifesta violazione di una norma considerata essenziale nell’ordinamento giuridico dello Stato membro richiesto o di un diritto riconosciuto come fondamentale nello stesso ordinamento giuridico (v. citate sentenze Krombach, punto 37; Renault, punto 30 e Apostolides, punto 59)”.

Questa Corte di legittimità, a sezioni unite, ha dal suo canto ancor di recente affermato che l’inderogabile tutela dell’ordine pubblico – e cioè delle “regole fondamentali poste dalla Costituzione e dalle leggi a base degli istituti giuridici in cui si articola l’ordinamento positivo nel suo perenne adeguarsi all’evoluzione della società” – è imposta a presidio della sovranità dello Stato, quale affermata nell’art. 1, 2 comma, Cost., principio supremo dell’ordinamento costituzionale (Cass., sez. un., 17 luglio 2014, n. 16379 e n. 16380).

Il concetto di ordine pubblico italiano, cui la sentenza straniera deve conformarsi per poter essere delibata, consiste dunque nel complesso dei principi cardine dell’ordinamento giuridico, i quali caratterizzano la stessa struttura etico-sociale della comunità nazionale in un determinato momento storico, conferendole una individuata ed inconfondibile fisionomia, nonché nelle regole inderogabili, provviste del connotato della fondamentalità, che le distingue dal più ampio genere delle norme imperative, immanenti ai più importanti istituti giuridici, ivi compresi i principi desumibili dalla Carta costituzionale (Cass. 13 dicembre 1999, n. 13928; più di recente, cfr. Cass. 18 aprile 2013, n. 9483; 19 luglio 2007, n. 16017; 4 maggio 2007, n. 10215; 26 novembre 2004, n. 22332; 6 dicembre 2002, n. 17349). Ciò, tenuto conto del contesto Europeo, internazionale e convenzionale nel quali tali principi cardine etico-giuridici sono da collocare (Cass. 26 novembre 2004, n. 22332).

Non può prescindersi, dunque, da una valutazione complessiva della materia all’esame.

5.2. – Non constano pronunce della Corte che, nell’ambito del riconoscimento ed esecuzione di sentenze straniere, abbiano affrontato il tema della compatibilità delle astreintes di diritto francese (e di altri ordinamenti, come quello belga di specie) con l’ordine pubblico.

Peraltro, l’istituto viene dai ricorrenti insistentemente accostato a quello dei danni punitivi di derivazione anglosassone. Ne consegue che occorre dar conto dei precedenti che, in due occasioni, hanno escluso la compatibilità dei c.d. punitive damages con l’ordine pubblico.

Nel primo caso esaminato (Cass. 19 gennaio 2007, n. 1183), una corte statunitense aveva condannato, a seguito della caduta letale da un motociclo, la società produttrice del casco indossato dal conducente, e sganciatosi a causa della fibbia difettosa, al risarcimento del danno nella misura di Dollari 1.000.000,00. Argomentando anche dalla non riconducibilità della clausola penale e del risarcimento del danno morale alla categoria dei danni punitivi con finalità sanzionatorio-afflittiva, la sentenza ha concluso che “nel vigente ordinamento l’idea della punizione e della sanzione è estranea al risarcimento del danno, così come è indifferente la condotta del danneggiante”.

In continuità con tale decisione, è stata cassata con rinvio la sentenza d’appello di riconoscimento della sentenza emessa da un’altra corte statunitense, la quale aveva condannato la società produttrice di un macchinario a pagare la somma di Dollari 5.000.000,00, oltre interessi, relativamente ai danni subiti da un lavoratore, e ciò per il fatto che “nel vigente ordinamento il diritto al risarcimento del danno conseguente alla lesione di un diritto soggettivo non è riconosciuto con caratteristiche e finalità punitive, ma in relazione all’effettivo pregiudizio subito” (Cass. 8 febbraio 2012, n. 1781).

In entrambi i casi, si trattava del riconoscimento di sentenze straniere di condanna per responsabilità extracontrattuale, in cui è stato ravvisato anche un importo liquidato a fini di danno punitivo.

Laddove, nel caso in esame, il giudice belga ha invece corredato la condanna di consegna con l’obbligo di pagare una somma per ogni giorno della sua mancata esecuzione: tale specifica statuizione occorre dunque valutare.

5.3. – Anche l’ordinamento italiano conosce, a fronte dell’inadempimento di obblighi non coercibili in forma specifica, misure generali e speciali volte ad ottenerne l’adempimento mediante la pressione esercitata sulla volontà dell’inadempiente a mezzo della minaccia di una sanzione pecuniaria, che si accresce con il protrarsi o il reiterarsi della condotta indesiderata.

Senza pretese di completezza, si ricordano quelle norme secondo cui il provvedimento che accerta la violazione fissa una somma per ogni inosservanza o violazione successiva o per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione dei comandi in esso contenuti: così, in tema di brevetto e marchio, gli art. 86 r.d. 29 giugno 1127, n. 1939 e 66 r.d. 21 giugno 1942, n. 929, abrogati dal d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, che ha dettato a tal fine le misure degli art. 124, 2 comma, e 131, 2 comma; l’art. 140, 7 comma, d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, c.d. codice del consumo, dove si tiene conto della “gravità del fatto”; secondo alcuni, l’art. 709 ter, n. 2 e n. 3, c.p.c., introdotto dalla l. 8 febbraio 2006, n. 54, per le inadempienze agli obblighi di affidamento della prole; l’art. 614 bis c.p.c., introdotto dall’art. 49 l. 18 giugno 2009, n. 69, il quale contempla il potere del giudice di fissare una somma pecuniaria per ogni violazione ulteriore o ritardo nell’esecuzione del provvedimento, “tenuto conto del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile”; l’art. 114 d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, redatto sulla falsariga della norma appena ricordata, che attribuisce analogo potere al giudice amministrativo dell’ottemperanza.

In altri casi, è il giudice che commina la condanna, ma con riferimento ad un importo determinato in modo globale una tantum: si menzionano l’art. 12 l. 8 febbraio 1948, n. 47, che prevede una somma aggiuntiva a titolo riparatorio nella diffamazione a mezzo stampa (cfr. Cass. 17 marzo 2010, n. 6490; 26 giugno 2007, n. 14761) e l’art. 96, 3 comma, c.p.c., introdotto dalla l. 18 giugno 2009, n. 69.

Si tratta, nelle suddette disposizioni, di una condanna comminata direttamente dal giudice civile che fissa la norma del caso concreto; onde parzialmente diverse sono le ipotesi in cui è la legge che direttamente commina una determinata pena per il trasgressore: come – accanto alle disposizioni penali degli art. 388 e 650 c.p. – l’art. 18, 14 comma, dello statuto dei lavoratori, ove, a fronte dell’accertamento dell’illegittimità di un licenziamento di particolare gravità, la mancata reintegrazione è scoraggiata da una sanzione aggiuntiva; l’art. 31, 2 comma, l. 27 luglio 1978, n. 392, per il quale il locatore pagherà una somma in caso di recesso per una ragione poi non riscontrata; l’art. 709 ter, n. 4, c.p.c. che attribuisce al giudice il potere di infliggere una sanzione pecuniaria aggiuntiva per le violazioni sull’affidamento della prole; o ancora l’art. 4, d.l. 22 settembre 2006, n. 259, convertito in l. 20 novembre 2006, n. 281, in tema di pubblicazione di intercettazioni illegali, che dispone la riparazione consistente in una somma di denaro determinata in ragione di ogni copia stampata o con riguardo al bacino di utenza della diffusione avvenuta con mezzo radiofonico, televisivo o telematico (anche se il giudice dovrà tenere conto, in caso di azione risarcitoria, di quanto così corrisposto).

Deve constatarsi, dunque, che lo strumento di coercizione del comportamento desiderato mediante condanna giudiziaria ad una somma progressiva a ciò rivolta – nel perseguimento di fini privati, ma a volte anche superindividuali o generali – è presente nel nostro ordinamento, ed anzi l’area dei diritti presidiati dallo stesso è venuta man mano ad estendersi.

5.4. – È noto come allo strumento del risarcimento del danno, cui resta affidato il fine primario di riparare il pregiudizio patito dal danneggiato, vengano ricondotti altri fini con questo eterogenei, quali la deterrenza o prevenzione generale dei fatti illeciti (posto che la minaccia del futuro risarcimento scoraggia dal tenere una condotta illecita, anche se, secondo gli approdi dell’analisi economica del diritto, l’obiettivo di optimal deterrence è raggiunto solo se la misura del risarcimento superi il profitto sperato) e la sanzione (l’obbligo di risarcire costituisce una pena per il danneggiante).

Si riscontra, dunque, l’evoluzione della tecnica di tutela della responsabilità civile verso una funzione anche sanzionatoria e deterrente, sulla base di vari indici normativi (quali, ad esempio, l’art. 125 d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30 sulla violazione di un diritto di proprietà industriale, o l’art. 158 l. 22 aprile 1941, n. 633, come sostituito dall’art. 5 d.lgs. n. 140 del 2006, sulla protezione del diritto d’autore, che determinano il danno anche tenuto conto degli utili realizzati in violazione del diritto), specialmente a fronte di un animus nocendi; pur restando la funzione risarcitoria quella immediata e diretta cui l’istituto è teso, tanto da restare imprescindibile il parametro del danno cagionato.

5.5. – Risarcimento del danno ed astreinte costituiscono misure fra loro diverse, con funzione l’uno reintegrativa e l’altra coercitiva al di fuori del processo esecutivo, volta a propiziare l’induzione all’adempimento.

Parimenti, il danno punitivo ha struttura e funzione non coincidenti con l’astreinte.

A voler individuare, tra questi ultimi, dei tratti comuni, si può pur considerare che entrambi mirano (a coartare) all’adempimento: l’astreinte di un obbligo ormai posto all’interno della relazione diretta tra le parti, in quanto derivante dal provvedimento giudiziale (anche qualora in origine si trattasse di illecito extracontrattuale) e da adempiersi in futuro; il danno punitivo – ma solo se riguardato come previsione normativa astratta fra gli strumenti a disposizione del giudice adito – all’adempimento futuro dell’obbligo generale del neminem laedere o dell’obbligazione contrattuale principale, restando però il contenuto suo proprio quello di sanzione per il responsabile, così che il profilo della coazione ad adempiere si configura con riguardo ad altri potenziali danneggianti o danneggiati. Insomma, a voler ravvisare in entrambi gli istituti il fine di coartazione della volontà, si dovrà parlare, da una parte, di funzione deterrente propria, e, dall’altra parte, di una funzione deterrente solo indiretta.

Il parallelismo si estende in senso inverso, perché l’astreinte, se mira a convincere all’adempimento, ex post funziona anche come sanzione per il suo contrario.

E, dunque, può pur dirsi che le astreintes e i danni punitivi, già negli ordinamenti di derivazione, operano sia come strumenti sanzionatori e sia come forme di coazione indiretta all’adempimento.

Eppure, le differenze restano fondamentali: permane il fatto che l’astreinte non ripara il danno in favore di chi l’ha subito, ma minaccia un danno nei confronti di chi si comporterà nel modo indesiderato.

Allorché la misura pecuniaria sia comminata in aggiunta non alla condanna risarcitoria, ma a quella a consegnare un bene determinato (come, nella specie, le azioni rappresentative del capitale sociale), l’astreinte si allontana dalla liquidazione del danno punitivo, presentando i caratteri di una tecnica di tutela di altro tipo, ossia d’induzione all’adempimento mediante una pressione (indiretta nel senso che non ricorre agli organi dello Stato, ma diretta per il fine perseguito) a tenere il comportamento dovuto.

5.6. – Se la funzione sua propria è quella di coartare all’adempimento, a tutela del creditore e dell’interesse generale all’esecuzione dei provvedimenti giudiziari, allora l’astreinte comminata nel provvedimento del giudice belga non contrasta con l’ordine pubblico italiano.

Non si può considerare invero in contrasto con un principio fondamentale, desumibile dalla Costituzione o da fonti equiparate, il provvedimento di condanna al pagamento di una somma che si accresce con il protrarsi dell’inadempimento, impartito da un giudice al fine di coazione all’adempimento di un obbligo infungibile.

Al contrario, la misura comminata tutela il diritto del creditore alla prestazione principale accertata con provvedimento giudiziale, dunque mira ad assicurare il rispetto di fondamentali e condivisi principi, quali il giusto processo civile, inteso come attuazione in tempi ragionevoli e con effettività delle situazioni di vantaggio, ed il diritto alla libera iniziativa economica.

Né rileva che l’art. 614 bis c.p.c., secondo quanto deducono i ricorrenti, non esistesse quando il giudice belga ha comminato la condanna: a parte il rilievo che la compatibilità con l’ordine pubblico va delibata al momento della definizione del giudizio di opposizione all’exequatur (cfr. Cass. n. 1782 del 2012), altri indici normativi nell’ordinamento erano comunque preesistenti (cfr. Cass. 23 settembre 2011, n. 19454).

Sotto il profilo della proporzionalità della misura, pure menzionato dai ricorrenti, basti infine rilevare che l’astreinte per sua natura lievita in ragione del ritardo nell’adempimento, in quanto la caratteristica della tecnica di tutela è appunto che più tarda l’attuazione della condotta dovuta, più grande è la sanzione: onde basta adempiere per evitare l’evento, con la conseguente non contrarietà all’ordine pubblico anche sotto tale aspetto.

6 – Le spese seguono la soccombenza. Deve provvedersi all’accertamento di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall’art. 1, comma 17, l. 24 dicembre 2012, n. 228, applicabile ai procedimenti iniziati dal trentesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore della legge, avvenuta il 30 gennaio 2013.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna in solido i ricorrenti al pagamento delle spese di lite in favore solidale dei controricorrenti, liquidate in Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfetarie ed agli accessori come per legge.

Da atto che sussistono i presupposti per il raddoppio del versamento del contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.

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