Corte di Cassazione, sezione I civile , sentenza 25 maggio 2016, n. 10640

La responsabilità dell’intermediario che ometta di informarsi sulla propensione al rischio del cliente o di rappresentare a quest’ultimo i rischi dell’investimento, ovvero che compia operazioni inadeguate quando dovrebbe astenersene, ha natura contrattuale, investendo il non corretto adempimento di obblighi legali facenti parte integrante del contratto-quadro (o contratto d’investimento) intercorrente tra le parti

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE I

SENTENZA 25 maggio 2016, n. 10640

Ritenuto in fatto

Con sentenza in data 6-5-2009 la corte d’appello di Genova, accogliendo la subordinata domanda proposta da M.C. nei riguardi del Banco di credito P. Azzoaglio s.p.a. (hinc cit. banca), dichiarava risolto per grave inadempimento della società un contratto di acquisto di titoli obbligazionari Argentina 99/04 stipulato l’11-5-1999 e per l’effetto condannava la banca al risarcimento dei danni, quantificandoli in misura pari al relativo controvalore oltre interessi fino al saldo. Riteneva difatti il titolo non più negoziabile sul mercato e quindi insuscettibile di rimborso.
La corte motivava la decisione previamente sostenendo l’inammissibilità della prova orale dedotta dalla banca al fine di dimostrare l’assolvimento degli obblighi informativi su di essa gravanti in base al d.lgs. n. 58 del 1998 (cd. T.u.f.), essendo i capitoli di prova generici e valutativi. Conseguentemente riteneva che la banca non avesse dato prova di aver specificamente informato l’investitore del rischio tipico dell’investimento. Osservava inoltre che l’attore, non essendo operatore qualificato ai sensi della normativa Consob, non poteva essere annoverato tra gli investitori speculativi e che rispetto a esso la banca aveva mancato di indicare l’inadeguatezza dell’investimento.
Per la cassazione della sentenza, la banca ha proposto ricorso sorretto da quattro motivi.
L’intimato non ha svolto difese.
La ricorrente ha depositato una memoria

Motivi della decisione

I – Possono essere unitariamente esaminati, perché connessi, il primo e il secondo motivo di ricorso.

Col primo motivo la ricorrente deduce la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 21 del T.u.f. e 28, 1 e 2 comma, della delibera Consob recante il cd. regolamento intermediari, in combinato con gli artt. 244 e 253 cod. proc. civ., nonché la contraddittorietà della motivazione della sentenza sul fatto controverso, decisivo, circa il tipo di informazioni rese dalla banca al cliente.

La ricorrente muove dal rilievo che l’investitore non aveva ritenuto di fornire informazioni sulla sua situazione finanziaria, sugli obiettivi dell’investimento e sulla propensione al rischio. Con riguardo alla statuizione di inammissibilità della prova testimoniale, sostiene che l’esigenza di specificazione dei fatti può, in tale tipo di prova, essere soddisfatta se i fatti stessi, ancorché non precisati in tutti i loro minuti dettagli, siano stati comunque esposti nei loro elementi essenziali, così da consentire al giudice di controllarne l’influenza e la pertinenza e mettere la controparte in grado di formulare un’adeguata prova contraria.

Secondo l’assunto della ricorrente, la corte territoriale sarebbe dunque caduta in una contraddizione rilevante ai sensi dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., da un lato avendo censurato per genericità e superficialità i capi di prova dedotti (e in ricorso riportati); dall’altro avendo ritenuto non provata l’informativa specifica del cliente senza dare ingresso alle prove ritualmente dedotte a questo fine.

Col secondo motivo di ricorso la banca deduce la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 29 della delibera Consob n. 11522-98 recante il cd. regolamento intermediari, nonché l’omessa o contraddittoria motivazione della sentenza sul fatto controverso, decisivo, circa la presunta non adeguatezza dell’operazione.

Si ascrive in questo caso alla sentenza d’appello di non aver considerato che i parametri imposti dalla suddetta norma per la valutazione dell’adeguatezza attengono alla tipologia, all’oggetto, alla frequenza e alla dimensione delle operazioni, per cui non sarebbe stato possibile definire inadeguata l’operazione essendo emerso dalla documentazione che l’attore operava con certa assiduità in campo finanziario, con consolidata esperienza in investimenti con grado di rischio superiore a quello dei titoli di debito pubblico emessi da stati sovrani, e con percentuali di investimento in titoli o fondi azionari superiori al 66 %.

In ogni caso si lamenta che su tale decisivo punto della controversia, in ordine cioè alla presunta non adeguatezza dell’operazione, la corte d’appello non abbia fornito una idonea motivazione.

– Osserva la corte che il primo motivo di ricorso è da disattendere perché in parte inammissibile e in parte infondato.

L’art. 21 del T.u.f. (d. lgs. 58 del 1998), nella vigenza del quale risulta eseguito l’ordine di negoziazione, stabilisce che nella prestazione dei servizi e delle attività di investimento i soggetti abilitati devono, tra l’altro, comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza, per servire al meglio l’interesse dei clienti e per l’integrità dei mercati; devono inoltre acquisire le informazioni necessarie dai clienti e operare in modo che essi siano sempre adeguatamente informati.

A sua volta l’art. 29 del regolamento intermediari, sempre vigente pro tempore, stabilisce che gli intermediari autorizzati debbono astenersi dall’effettuare con o per conto degli investitori operazioni non adeguate per tipologia, oggetto, frequenza o dimensione; che ai detti fini essi tengono conto delle informazioni chieste prima della stipulazione del contratto di gestione e/o di consulenza e di ogni altra informazione disponibile in relazione ai servizi prestati; che infine, quando ricevono da un investitore disposizioni relative a una operazione non adeguata, gli intermediari lo informano (id est, lo debbono informare) di tale circostanza e delle ragioni per cui non è opportuno procedere alla sua esecuzione e, qualora l’investitore intenda comunque dare corso all’operazione, possono eseguire l’operazione stessa solo sulla base di un ordine impartito per iscritto ovvero, nel caso di ordini telefonici, registrato su nastro magnetico o su altro supporto equivalente, in cui sia fatto esplicito riferimento alle avvertenze ricevute.

Questa corte, anche a sezioni unite, ha avuto modo di sottolineare che la responsabilità dell’intermediario che ometta di informarsi sulla propensione al rischio del cliente o di rappresentare a quest’ultimo i rischi dell’investimento, ovvero che compia operazioni inadeguate quando dovrebbe astenersene, ha natura contrattuale, investendo il non corretto adempimento di obblighi legali facenti parte integrante del contratto-quadro (o contratto d’investimento) intercorrente tra le parti (v. Sez. un. n. 26724-07 cui adde, di recente, Sez. 1^ n. 12262-15).

L’onere della prova va quindi ripartito secondo il disposto ex art. 1218 cod. civ., sicché spetta all’investitore allegare l’inadempimento delle obbligazioni poste a carico dell’intermediario e provare il pregiudizio conseguente, mentre incombe sull’intermediario provare d’aver rispettato i dettami di legge e di avere agito con la specifica diligenza richiesta (v. per tutte Sez. 1^ n. 22147-10, n. 2640-15).

III. – Nel caso di specie la corte d’appello ha ritenuto non assolto l’onere della prova posto a carico della banca giacché i capi di prova testimoniale al riguardo dedotti erano, nel nucleo essenziale e rilevante, ‘del tutto generici e valutativi’.

In particolare i capitoli, tesi a ‘indicare che sarebbero stati illustrati al M. la natura, le caratteristiche e i rischi del titolo’, nonché ‘il rischio tipico dell’obbligazione emessa da un Paese in via di sviluppo’, erano stati caratterizzati da ‘indicazioni pianamente superficiali e generiche, tali da non porre il cliente in condizioni di valutare a pieno la natura, i rischi e le implicazioni dell’investimento’.

Invero la banca era risultata di contro edotta ‘delle concrete e specifiche informazioni sugli investimenti, come risultanti dalla circular offer in suo possesso, che conteneva informazioni di carattere primario tali da non poter essere assorbite dalle mere generiche indicazioni che sarebbero state fornite dal funzionario’; e dunque in definitiva si era rivelata in possesso di informazioni di grado superiore, prescindenti dalla conoscenza generalizzata del rating dell’emittente; informazioni che al cliente non erano state fornite.

La valutazione si sottrae a censura, giacché per consolidata giurisprudenza il giudizio sulla superfluità e sulla genericità di una prova per testimoni è insindacabile in cassazione, involgendo una valutazione di fatto che può essere censurata solo se basata su erronei principi giuridici, ovvero su incongruenze di carattere logico (v. Sez. 2^ n. 18222-04, fino a risalire a Sez. 1^ n. 2555-62 e a Sez. 3^ n. 2450-63). Il che non si è verificato nella fattispecie, essendo congruente la dianzi riportata motivazione della corte di merito.

Può osservarsi che la riscontrata carenza degli elementi di specificità, richiesti dall’art. 244 cod. proc. civ. non può essere superata – diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente – con la sottolineatura della necessità di intendere in modo non formalistico la previsione normativa.

Va certo condiviso l’indirizzo che in linea di principio intende salvaguardare una simile necessità, ove la prova riguardi un comportamento o un’attività che si frazioni in circostanze molteplici (v. Sez. 1^ n. 11844-06, Sez. lav. n. 5842-02).

Ma deve essere evidenziato che la ratio del principio riposa sull’essere il difensore e il giudice legittimati a individuare, in questi casi, durante l’espletamento della prova, i semplici dettagli del mezzo istruttorio, utili alla migliore comprensione dei fatti. Il che nulla toglie al dovere essere il mezzo comunque dedotto in modo puntuale, vale a dire con quel livello di compiutezza che la legge richiede per poter definire la deduzione caratterizzata dalla ‘indicazione specifica’ dei fatti rilevanti in rapporto all’oggetto della prova, formulati in articoli separati, sui quali ciascuna persona deve essere interrogata.

È dunque infondato discorrere, quanto all’impugnata sentenza, di contraddizione motivazionale, posto che non è dato constatare alcuna frattura argomentativa tra la valutazione preliminare di inammissibilità della prova dedotta dalla parte onerata e la conclusione circa l’inadempimento dell’onere della prova su di essa (parte) gravante.

– Il rigetto del primo motivo di ricorso assorbe l’esame del secondo, al quale la ricorrente non ha interesse. La statuizione circa la responsabilità della banca rimane difatti salda in base alla ratio appena sopra esaminata e rivelatasi esatta, secondo cui la banca aveva omesso di adempiere agli obblighi informativi discendenti dall’art. 21 del T.u.f., a tutela dell’investitore e dell’integrità del mercato. Ed è principio affatto consolidato (v. Sez. un. n. 36-07 e n. 7931-13) che, ove una sentenza si fondi su più ragioni, tutte autonomamente idonee a sorreggerla, è necessario – per giungere alla cassazione della pronunzia – non solo che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura, ma anche che il ricorso abbia esito positivo nella sua interezza con l’accoglimento di tutte le censure, in modo da potersi realizzare lo scopo dell’impugnazione altrimenti sterilizzato.

– Possono a questo punto essere esaminati il terzo e il quarto motivo di ricorso.

Col terzo motivo la ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1453 cod. civ. per avere la sentenza erroneamente dichiarato la risoluzione per inadempimento del contratto di acquisto dei titoli obbligazionari, laddove la fattispecie poteva al massimo attenere alla diversa ipotesi di responsabilità precontrattuale.

Col quarto motivo la ricorrente denunzia invece la violazione e falsa applicazione dell’art. 1225 cod. civ., nonché l’omessa o insufficiente motivazione sul fatto controverso relativo al nesso di causalità tra il dedotto inadempimento e il danno lamentato dall’investitore.

– Appare prioritario l’esame del quarto motivo.

Il nucleo della censura è dato dall’affermazione che sarebbe stato violato il precetto normativo che limita il risarcimento al danno prevedibile al tempo in cui l’obbligazione è sorta, considerato che non era stata fornita prova del nesso causale tra inadempimento e danno e che alla data dell’investimento (maggio 1999) le obbligazioni della Repubblica argentina ancora godevano di un certo grado di affidabilità. Inoltre, a dire della ricorrente, la motivazione dell’impugnata sentenza sarebbe manchevole per non aver tenuto conto delle risultanze dell’estratto del dossier titoli intestato all’attore, prodotto in appello, evidenzianti gli anteriori investimenti in azioni e fondi azionari, caratterizzati da rischio superiore, con conseguente mancanza di prova del fatto che, ove anche distintamente informato, lo stesso non avrebbe effettuato l’investimento de quo.

La censura complessivamente svolta nel quarto motivo è infondata in iure, dal momento che ai fini dell’imprevedibilità di cui all’art. 1225 cod. civ. non rileva di per sé lo stato soggettivo specifico del debitore.

L’imprevedibilità alla quale fa riferimento l’art. 1225 cod. civ. determina la limitazione del danno risarcibile avendo riguardo alla prevedibilità astratta, inerente a una determinata categoria di rapporti; e ciò sulla scorta delle regole ordinarie di comportamento dei soggetti economici, vale a dire secondo un criterio di normalità in presenza delle circostanze di fatto conosciute (v. Sez. 2^ n. 16763-11; Sez. lav. n. 17460-14).

La negoziazione avventata (o comunque non ponderata) di titoli obbligazionari, per difetto di adeguata previa informazione da parte della banca, rende prevedibile il danno correlato alla susseguente perdita di valore dei titoli stessi.

Da questo punto di vista il quarto motivo di ricorso si rivela dunque infondato quanto al ragionamento giuridico sotteso, non avendo la questione degli investimenti anteriormente effettuati dal medesimo soggetto alcuna pertinenza col mentovato profilo della prevedibilità del danno.

Tanto conchiude anche la ragione di inammissibilità del motivo nella parte involgente il supposto difetto motivazionale, non essendo stato specificato il fatto controverso decisivo – id est, il fatto storico decisivo – in rapporto al quale la sentenza avrebbe dovuto più compiutamente motivare.

Il dato essenziale della causa rimane difatti confinato dall’affermazione della corte d’appello, integrante un accertamento di fatto avverso il quale non risulta prospettata censura, per cui i titoli compravenduti erano divenuti non più negoziabili sul mercato; e, come tali, non erano (più) suscettibili di rimborso. Sicché la misura concreta del danno risarcibile era da fissare in termini pari all’importo investito.

VII. – Il rigetto del quarto motivo determina l’inammissibilità, per difetto di interesse, della censura prospettata nel terzo.

Con essa la ricorrente pone una questione assai dibattuta in dottrina e nella giurisprudenza di merito.

La questione è se, in presenza di violazioni dell’obbligo dell’intermediario di fornire all’investitore informazioni adeguate e complete in relazione all’acquisito di titoli mobiliari, sia possibile una pronuncia di risoluzione dei singoli negozi esecutivi di investimento anziché del contratto di intermediazione.

Pur tenendosi conto dei principi posti dalle sezioni unite con la citata sentenza n. 26724 del 2007, va osservato che su tale specifica questione la giurisprudenza di questa corte non ha offerto spunti per una soluzione univoca (e v. infatti in termini motivazionali in apparenza contrastanti, Sez. 3^ n. 26159-14 e Sez. 1^ n. 11412-12).

Nel caso di specie una tale questione non richiede però di essere affrontata, giacché – nelle condizioni date – la sua rilevanza è solo teorica.

L’impugnata sentenza ha dichiarato risolto il contratto di acquisto dei titoli obbligazionari nella prospettiva del risarcimento del danno arrecato all’investitore. E il capo di condanna al risarcimento del danno resta infine intangibile alla luce del rigetto dei sopra esaminati motivi primo, secondo e quarto.

Consegue che finanche l’eventuale condivisione della tesi sostenuta nel terzo motivo non porterebbe alla banca alcuna utilità concreta, come può evincersi dalla considerazione che, se anche fosse accolto il suddetto terzo motivo, ciò non darebbe al danneggiato una tutela minore di quella derivata dalla sentenza; e specularmente la banca di nulla si gioverebbe, fatto salvo – appunto – il profilo teorico della questione prospettata.

Poiché il processo – compreso quello di cassazione – rifugge a tentativi di asservimento a interessi solo teorici (o di mera sistematica concettuale), la conclusione è che il terzo motivo va ritenuto inammissibile e il ricorso per cassazione rigettato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso

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