Non serve l’affissione del codice disciplinare perché il lavoratore rispetti i doveri fondamentali di etica e professionali.

Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenza 6 aprile 2018, n. 8560.

Non serve l’affissione del codice disciplinare perché il lavoratore rispetti i doveri fondamentali di etica e professionali.

Sentenza 6 aprile 2018, n. 8560
Data udienza 16 gennaio 2018

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Presidente

Dott. LORITO Matilde – Consigliere

Dott. LEONE Margherita Maria – rel. Consigliere

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere

Dott. LEO Giuseppe – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

(OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS), giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

(OMISSIS), (OMISSIS);

– intimati –

avverso la sentenza n. 2446/2015 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 14/01/2016 R.G.N. 1309/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16/01/2018 dal Consigliere Dott. LEONE MARGHERITA MARIA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FINOCCHI GHERSI RENATO che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato (OMISSIS).

FATTI DI CAUSA

La Corte di appello di Bari, con sentenza n. 2446/2015, aveva rigettato il ricorso proposto da (OMISSIS), cosi’ confermando la sentenza del 25.2.2013 con la quale il Tribunale di Foggia aveva preliminarmente dichiarato il difetto di legittimazione passiva dell’ (OMISSIS), ed aveva ritenuto illegittimo il licenziamento intimato dalla (OMISSIS), condannando quest’ultima alla riassunzione della attuale ricorrente o, in mancanza, al pagamento, in suo favore,di una indennita’ pari a sei mensilita’ dell’ultima retribuzione di fatto, oltre accessori di legge.

La Corte territoriale aveva valutato in parte inammissibile il gravame per carenza di interesse o comunque per violazione dei principi di specificita’ dei motivi di appello, ed in altra parte aveva ritenuto infondato lo stesso. In particolare aveva ritenuto infondato il motivo di censura inerente la mancata affissione del codice disciplinare e la conseguente nullita’ del licenziamento, perche’ non esplicitate le ragioni della rilevanza della eccepita condotta datoriale con la causa del licenziamento. Precisava a riguardo che il principio di necessaria affissione del codice disciplinare non aveva rilievo nei casi in cui il licenziamento era intimato per violazioni di norme penali o in contrasto al cosiddetto “minimo etico” e che comunque, anche in caso della invocata violazione il licenziamento non sarebbe stato nullo ma illegittimo, come gia’ dichiarato dal Tribunale. La Corte escludeva altresi’ la natura imprenditoriale della Fondazione valutando a tal riguardo la sufficienza probatoria dello Statuto della Fondazione e la carenza di altre differenti e contrastanti prove in merito e dichiarava inammissibile il motivo inerente la natura discriminatoria o ritorsiva del licenziamento in quanto censura nuova estranea alla causa petendi introdotta con il giudizio di primo grado. Avverso detta decisione la (OMISSIS) proponeva ricorso affidandolo a tre motivi.

La Fondazione rimaneva intimata.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1) – Con il primo motivo la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli articoli 342 e 434 c.p.c., nonche’ dell’articolo 100 c.p.c., avendo, la Corte territoriale ritenuto che, in difetto del requisito di specificita’, in alcune parti il gravame non contenesse argomentazione critica dell’impugnata decisione coerente con lo sviluppo argomentativo della sentenza del Tribunale. Rispetto a tale assunto la (OMISSIS), in contrapposizione, indica una serie di punti del ricorso in appello senza peraltro riportare precisamente le parti dello stesso da sottoporre al giudizio di questo Giudice di legittimita’. Deve a riguardo ribadirsi che “ove il ricorrente censuri la statuizione di inammissibilita’, per difetto di specificita’, di un motivo di appello, ha l’onere di specificare, nel ricorso, le ragioni per cui ritiene erronea tale statuizione del giudice di appello e sufficientemente specifico, invece, il motivo di gravame sottoposto a quel giudice, e non puo’ limitarsi a rinviare all’atto di appello, ma deve riportarne il contenuto nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa specificita’” (Cass. n, 22880/2017). Alla stessa conclusione si deve giungere con riferimento all’asserita sussistenza dell’interesse ad agire invece esclusa dal Giudice del gravame, poiche’, anche in tal caso parte ricorrente richiama parti del ricorso in appello anche riferite ad altri procedimenti giudiziari(procedimenti penali dell’A.G. argentina), non dettagliatamente inserite e riportate nel ricorso in questa sede. La censura e’ quindi inammissibile.

2) Il secondo motivo di doglianza ha ad oggetto la violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, articoli 7 e 18, nonche’ dell’articolo 2697 c.c., poiche’ la Corte di merito non avrebbe attribuito alcun valore alla violazione delle prescrizioni dell’articolo 7, non avendo richiesto al datore di lavoro la prova dell’affissione del codice disciplinare, anche contravvenendo alle regole sulla ripartizione degli oneri probatori tra le parti.

Questa Corte ha in piu’ occasioni chiarito che solo in ipotesi in cui le violazioni contestate non consistano in condotte contrarie ai doveri fondamentali del lavoratore, rientranti nel cd. minimo etico o di rilevanza penale, ma nella violazione di norme di azione derivanti da direttive aziendali, suscettibili di mutare nel tempo, in relazione a contingenze economiche e di mercato ed al grado di elasticita’ nell’applicazione, solo in questo caso le condotte devono essere previamente poste a conoscenza dei lavoratori, secondo le prescrizioni dell’articolo 7 st. lav. (Cass. n. 54/2017; Cass. n. 22626/2013).

Fuori da tale ambito, e dunque con riferimento a situazioni la cui gravita’ sia platealmente accettata, in quanto in contrasto al “minimo etico”, ovvero a quel nucleo di valori e comportamenti afferenti ad un comune sentire e ad un sistema di rispettosa convivenza civile, non e’ necessario far riferimento alle violazioni contenute nel codice disciplinare ed alla pubblicita’ delle stesse attraverso l’affissione.

Il motivo deve essere rigettato.

3) – Con la terza censura parte ricorrente denuncia l’errata valutazione della Corte territoriale sulla natura della attivita’ svolta dalla fondazione e lamenta quindi la violazione della L. n. 108 del 1990, articolo 4, della L. n. 300 del 1970, articolo 18, dell’articolo 4 Cost., dell’articolo 2082 c.c., in relazione alla violazione e falsa applicazione degli articoli 2, 3 e 4 dell’atto costitutivo della Fondazione e articoli 2, 3, 16 e 17 dello statuto della medesima fondazione.

Il motivo risulta inammissibile in quanto alcun vizio nella valutazione fatta dal Tribunale viene indicato, ma solo una errata (a dir della ricorrente) valutazione degli elementi probatori inerenti la qualita’ di imprenditore della Fondazione. In sostanza e’ richiesta a questa Corte una ulteriore valutazione dei medesimi elementi probatori. Come gia’ in molte occasioni affermato “l’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonche’ la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilita’ dei testi e sulla credibilita’ di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute piu’ idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (ex multis Cass. n. 19011/2017; Cass. n. 16056/2016).

Il ricorso deve quindi essere rigettato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in Euro 4.000,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma quater, da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1-bis.

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