Corte di Cassazione

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

S.U.P.

SENTENZA 6 aprile 2016, n. 13682

Ritenuto in fatto

Il Tribunale di Cosenza ha affermato la responsabilità dell’imputato indicato in epigrafe in ordine al reato di cui all’art. 186, comma 7, del codice della strada commesso il 7 agosto 2011. La pronunzia è stata confermata dalla Corte di appello di Catanzaro.

L’imputato ha presentato ricorso per cassazione, chiedendo che sia ritenuta la non punibilità per particolare tenuità del fatto ai sensi dell’art. 13-bis. cod. pen. introdotto in epoca successiva alla sentenza d’appello.

La Quarta Sezione penale, cui il giudizio era stato assegnato, ha rimesso alle Sezioni Unite la questione relativa alla compatibilità della causa di non punibilità per particolare tenuità dei fatto di cui all’art. 131-bis cod. pen. con il reato previsto dall’art. 186, comma 7, cod. strada.

L’ordinanza rammenta che il quesito ha trovato risposta affermativa in una pronunzia di legittimità (Sez. 4, n. 33821 del 01/07/2015, Pasolini, Rv. 264357); ma ritiene non condivisibile tale soluzione.

Si considera che l’illecito in questione, costituito dal rifiuto di sottoporsi all’esame alcoolimetrico da parte del conducente di un veicolo, si risolve in una condotta di dissenso che è sempre uguale a se stessa e delinea un reato istantaneo; sicché sarebbe impossibile una graduazione dell’offensività nel senso richiesto dall’art. 131-bis cod. pen.

D’altra parte, il nuovo istituto richiede di valutare la sola condotta e non consente di apprezzare se essa abbia dato luogo ad una situazione concretamente pericolosa. Conseguentemente, non è condivisibile l’approccio al problema proposto dalla citata sentenza Pasolini, che ha ritenuto la possibilità di ritenere la particolare tenuità dei fatto proprio in considerazione del mancato riscontro di concreta pericolosità.

A ciò si aggiunge che il bene tutelato dalla norma incriminatrice è costituito dal regolare andamento dei controlli di polizia attinenti alla sicurezza della circolazione; e che al riguardo non può ipotizzarsi la graduazione dell’offesa.

Con decreto del 21 dicembre 2015 il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni unite e ne ha disposto la trattazione nell’udienza odierna.

Considerato in diritto

La questione sottoposta all’esame delle Sezioni Unite attiene al seguente quesito:

‘Se la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui all’art. 131-bis cod. pen., sia compatibile con il reato di rifiuto di sottoporsi all’accertamento alcoolimetrico, previsto dall’art. 186, comma 7, cod, strada’.

Occorre considerare che l’art. 131-bis cod. pen. è stato introdotto con l’art. 1, comma 2, d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28, e quindi in epoca successiva alla pronunzia d’appello, emessa il 10 febbraio 2015 e relativa a fatto commesso il 15 marzo 2011.

Questa Corte ha in numerose occasioni condivisibilmente ritenuto che, se non è stato possibile proporlo in grado di appello, il tema afferente all’applicazione del nuovo istituto può essere dedotto davanti alla Corte di cassazione e può essere altresì rilevato d’ufficio ai sensi dell’art. 609, comma 2, cod. proc. pen. (da ultimo Sez. 3, n. 24358 del 14/05/2015, Ferretti, Rv. 264109; Sez. 4, n. 22381 del 17/04/2015, Mauri, Rv. 263496; Sez. 3, n. 15449 del 08/04/2015, Mazzarotto, Rv. 263308).

Si è infatti in presenza, come sarà meglio esposto nel prosieguo, di innovazione di diritto penale sostanziale che disciplina l’esclusione della punibilità e che reca senza dubbio una disciplina più favorevole. Il novum trova quindi applicazione retroattiva ai sensi dell’art. 2, quarto comma, cod. pen. L’elevato rango del principio espresso da tale ultima norma impone le sua applicazione ex officio, anche in caso di ricorso inammissibile, come ritenuto recentemente dalle Sezioni unite. Si è infatti condivisibilmente affermato il diritto dell’imputato, desumibile dal principio in questione, ad essere giudicato in base al trattamento più favorevole tra quelli succedutisi nel tempo; ed il dovere del giudice di applicare la lex mitior, anche nel caso in cui il ricorso sia inammissibile (Sez. U, n. 46653 dei 26/06/2015, Della Fazia, Rv. 265110).

Naturalmente, quando non sia in questione l’applicazione della sopravvenuta legge più favorevole ai sensi dell’art. 609, comma 2, cod. proc. pen., la inammissibilità del ricorso per cassazione preclude la deducibilità e la rilevabilità di ufficio della causa di non punibilità.

Appurata la rilevanza della nuova disciplina, resta da intendere quale sia il ruolo della Corte di cassazione. In proposito si è ripetutamente ritenuto che vada compiuta una preliminare delibazione in ordine all’applicabilità in astratto del nuovo istituto sulla base degli elementi di giudizio disponibili alla stregua delle risultanze processuali e della motivazione della decisione impugnata; e che, in caso di valutazione positiva, la sentenza impugnata debba essere annullata con rinvio al giudice di merito per le pertinenti valutazioni e statuizioni (oltre alle sentenze sub § 1, da ultimo, Sez. 3, n. 21474 del 22/04/2015, Fantoni, Rv. 263693; Sez. 4, n. 33821 del 01/0712015, Pasolini, Rv. 264357).

In qualche pronunzia, peraltro, è stata pure ritenuta la possibilità di applicare direttamente, ai sensi dell’art. 620, comma 1, lett. 1), cod. proc. pen., la causa di non punibilità quando risulti palese dalla sentenza impugnata la ricorrenza dei presupposti oggettivi e soggettivi formali della stessa, e un apprezzamento dei giudice di merito che consenta di ritenere coerente la conclusione che il caso di specie debba essere ricondotto alla previsione di cui all’art. 131-bis cod. pen. (Sez. 6, n. 45073 del 16/09/2015, Barrara, Rv. 265224; Sez. 5, n. 48020 dei 07/1012015, V., Rv. 265467).

Il tema dì cui si discute chiama effettivamente in campo l’art. 620, comma 1, lett. 1), cod. proc. pen. che consente alla Corte di cassazione di adottare pronunzia di annullamento senza rinvio quando la restituzione del giudizio nella sede di merito è ‘superflua’; quando, cioè, per quel che qui interessa, non è richiesta una valutazione sul fatto estranea al sindacato di legittimità.

Tale norma è stata ripetutamente ritenuta dalle Sezioni Unite fonte per l’adozione di pronunzie assolutorie nella sede di legittimità (Sez. U, n. 22327 del 30/10/2003, Andreotti, Rv. 226100; Sez. U, n. 22327 del 21/05/2003, Carnevale, Rv. 224181); oltre che dalle sezioni semplici (ad es. Sez. 2, 11/11/2010, n. 41461, Franzi, Rv. 248927). Essa ha costituito pure la base normativa per applicare una causa di non punibilità sopravvenuta (ad es. Sez. 6, n. 9727 del 18/02/2014, Grieco, Rv 259110; Sez. 6, n. 17065 del 26/04/2012, Cirillo, Rv. 252506).

In tali situazioni la pronunzia è adottata ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen. Né un ostacolo può essere rinvenuto nel fatto che tale articolo, pur dedicato nella rubrica all’obbligo della immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità, non fa menzione dell’ipotesi in cui ricorra una causa di non punibilità. Invero la norma ha portata generale, sistemica. Essa, come già ritenuto dalle Sezioni Unite (Sez. U, n. 12283 del 25/01/2005, De Rosa, Rv. 230529), non attribuisce al giudice un potere di giudizio ulteriore ed autonomo rispetto a quello già riconosciutogli dalle specifiche norme che regolano l’epilogo proscioglitivo nelle varie fasi e nei diversi gradi del processo, ma enuncia una regola di condotta rivolta al giudice che, operando in ogni stato e grado del processo, presuppone l’esercizio della giurisdizione con effettiva pienezza del contraddittorio. In breve, atteso l’indicato ruolo sistemico, l’articolo citato consente l’adozione di tutte le formule di proscioglimento.

Occorre infine aggiungere che l’applicazione del meccanismo processuale di cui si discute non è preclusa nell’ambito del nuovo istituto, a causa del diritto dell’imputato all’interlocuzione. Invero, il giudizio di legittimità è caratterizzato da ampio contraddittorio scritto ed orale su ogni aspetto della regiudicanda. E d’altra parte, naturalmente, la Corte non potrebbe comunque prosciogliere l’imputato con una formula meno favorevole di quella enunciata nella sentenza di merito; ma dovrebbe semmai addivenire ad esito più favorevole, come nel caso di sopravvenuta prescrizione, pure se il fatto è specialmente tenue.

Resta da intendere quale sia la natura e la conformazione del giudizio demandato alla Corte di cassazione.

Anticipando quanto sarà esposto più avanti, va considerato che la valutazione sulla particolare tenuità del fatto richiede l’analisi e la considerazione della condotta, delle conseguenze del reato e del grado della colpevolezza. Si tratta di ponderazioni che sono parte ineliminabile del giudizio di merito e che sono conseguentemente espresse in motivazione, magari in guisa implicita. Sulla base del fatto accertato e valutato dalla sentenza impugnata, dunque, il giudice di legittimità è nella condizione di esperire il giudizio che gli è proprio, afferente all’applicazione della legge; di accertare, cioè, se la fattispecie concreta è collocata entro il modello legale espresso dal nuovo istituto.

Conclusivamente, quando la sentenza impugnata sia anteriore alla novella, l’applicazione dell’istituto nel giudizio di legittimità va ritenuta o esclusa senza che si debba rinviare il processo nella sede di merito. Ove esistano le condizioni di legge, l’epilogo decisorio è costituito, alla luce di quanto si è prima esposto ed alla stregua degli artt. 620, comma 1, lett. 1), e 129 cod. proc. pen., da pronunzia di annullamento senza rinvio perché l’imputato non è punibile a causa della particolare tenuità del fatto.

Chiarito il contenuto del giudizio di legittimità, occorre intendere se l’art. 131-bis cod. pen. sia applicabile al reato oggetto dei giudizio.

5.1. La sentenza Pasolini evocata nell’ordinanza di rimessione, ha dato risposta positiva. E’ stata annullata con rinvio la pronunzia di merito a seguito della sopravvenuta disciplina più favorevole.

Si è considerato che alla stregua della sentenza impugnata non emerge una condotta di guida concretamente pericolosa, e che la pena è stata irrogata in misura pari al minimo edittale, sicché esistono indici significativi nel senso della possibile sussunzione del fatto nell’ipotesi di particolare tenuità, che dovranno essere valutati dal giudice del rinvio.

5.2. Questo approccio non presenta aspetti critici per ciò che attiene all’applicabilità dei nuovo istituto al caso in esame; e le obiezioni esposte nell’ordinanza di rimessione non colgono nel segno.

II tema, peraltro, non può essere esaminato in astratto, ma richiede di partire dal dato testuale. Occorre considerare che il legislatore ha limitato il campo d’applicazione dei nuovo istituto in relazione alla gravità del reato, desunta dalla pena edittale massima; ed alla non abitualità del comportamento.

In tale ambito, come sarà meglio esplicitato più avanti, il fatto particolarmente tenue va individuato alla stregua di caratteri riconducibili a tre categorie di indicatori: le modalità della condotta, l’esiguità del danno o del pericolo, il grado della colpevolezza.

L’ordinanza di rimessione, dunque, non coglie nel segno e pecca di astrattezza quando lega il nuovo istituto al principio di offensività.

Le Sezioni Unite hanno già avuto occasione, recentemente, di evocare le radici e le inespresse potenzialità ermeneutiche del principio di offensività (Sez. U, n. 40354 del 18/07/2013, Sciuscio, Rv. 255974). Si è rammentata la sua costituzionalizzazione, conseguita attraverso la lettura integrata di diverse norme della legge fondamentale. Si è pure posto in luce (e lo si ribadisce nella presente sede) che l’interprete delle norme penali ha l’obbligo di adattarle alla Costituzione in via ermeneutica, rendendole applicabili solo ai fatti concretamente offensivi; offensivi in misura apprezzabile. I beni giuridici e la loro offesa costituiscono la chiave per una interpretazione teleologica dei fatti che renda visibile la specifica offesa già contenuta nel tipo legale del fatto. Sul piano ermeneutico viene così superato lo stacco tra tipicità ed offensività. I singoli tipi di reato vanno ricostruiti in conformità al principio di offensività, sicché tra i molteplici significati eventualmente compatibili con la lettera della legge si dovrà operare una scelta con l’aiuto del criterio del bene giuridico, considerando fuori dei tipo di fatto incriminato i comportamenti non offensivi dell’interesse protetto. In breve, è proprio il parametro valutativo di offensività che consente di individuare gli elementi fattuali dotati di tipicità; e di dare contenuto tangibile alle espressioni vaghe che spesso compaiono nelle formule legali.

Da quanto precede emerge che il principio di offensività attiene all’essere o non essere di un reato o di una sua circostanza; e non è invece implicato nell’ambito di cui ci si occupa, che riguarda per definizione fatti senza incertezze pienamente riconducibili alla fattispecie legale.

La distinzione va sottolineata, anche per rispondere alle preoccupazioni espresse da chi teme che la nuova figura, consentendo di devitalizzare vicende marginali, finisca con il depotenziare il principio di offensività quale chiave per la congrua restrizione dell’area del penalmente rilevante.

In realtà il nuovo istituto è esplicitamente, indiscutibilmente definito e disciplinato come causa di non punibilità e costituisce dunque figura di diritto penale sostanziale. Esso persegue finalità connesse ai principi di proporzione ed extrema ratio; con effetti anche in tema di deflazione. Lo scopo primario è quello di espungere dal circuito penale fatti marginali, che non mostrano bisogno di pena e, dunque, neppure la necessità di impegnare i complessi meccanismi del processo. Proporzione e deflazione s’intrecciano coerentemente.

Il dato normativo conduce senza dubbi di sorta a tale esito interpretativo. Il giudizio sulla tenuità del fatto richiede, infatti, una valutazione complessa che ha ad oggetto le modalità della condotta e l’esiguità del danno o del pericolo valutate ai sensi dell’art. 133, primo comma, cod. pen. Si richiede, in breve, una equilibrata considerazione di tutte le peculiarità della fattispecie concreta; e non solo di quelle che attengono all’entità dell’aggressione del bene giuridico protetto.

Per ciò che qui interessa, non esiste un’offesa tenue o grave in chiave archetipica. E’ la concreta manifestazione del reato che ne segna il disvalore. Come è stato persuasivamente considerato, qualunque reato, anche l’omicidio, può essere tenue, come quando la condotta illecita conduce ad abbreviare la vita solo di poco.

Di particolare ed illuminante rilievo è il riferimento testuale alle modalità della condotta, al comportamento. La nuova normativa non si interessa della condotta tipica, bensì ha riguardo alle forme di estrinsecazione del comportamento, al fine di valutarne complessivamente la gravità, l’entità del contrasto rispetto alla legge e conseguentemente il bisogno di pena.

insomma, si è qui entro la distinzione tra fatto legale, tipico, e fatto storico, situazione reale ed irripetibile costituita da tutti gli elementi di fatto concretamente realizzati dall’agente; secondo l’insegnamento espresso nella pagina fondativa del fatto nella teoria generale del reato. Ed è chiaro che la novella intende per l’appunto riferirsi alla connotazione storica della condotta, essendo in questione non la conformità al tipo, bensì l’entità del suo complessivo disvalore.

Allora, essendo in considerazione la caratterizzazione del fatto storico nella sua interezza, non si dà tipologia di reato per la quale non sia possibile la considerazione della modalità della condotta; ed in cui sia quindi inibita ontologicamente l’applicazione del nuovo istituto. L’opinione contraria manifestata dall’ordinanza di rimessione è deviata dalla impropria sovrapposizione tra il fatto tipico ed il fatto storico; tra l’offesa e la sua entità.

Dunque, pure nei reati senza offesa, di disobbedienza, o comunque poveri di tratti descrittivi, contrassegnati magari da una mera omissione o da un rifiuto, la valutazione richiesta dalla legge è possibile e doverosa, dovendosi considerare la concreta manifestazione del fatto illecito.

Del resto, l’esperienza giuridica mostra esempi eloquenti: non è certo indifferente, nella ponderazione del disvalore del fatto e del bisogno di pena, se un comportamento che si estrinseca in un nero rifiuto sia accompagnato da manifestazioni di irriguardosa e violenta opposizione o sia invece dovuto ad una non completa comprensione del contesto, ovvero a concomitanti esigenze personali socialmente apprezzabili. Né, sempre per restare alla fattispecie di cui si discute, è indifferente il contesto fattuale che fa da sfondo al rifiuto stesso e che afferisce alle circostanze della guida.

Per di più, la tesi espressa dall’ordinanza di rimessione condurrebbe a conseguenze paradossali: l’inapplicabilità dell’istituto ai reati bagatellari, caratterizzati di solito dall’omissione di una prescrizione, con conseguente frustrazione delle finalità deflative sottese alla novella. Pure per tali reati, invece, occorre considerare il contesto: l’entità, l’oggetto, gli effetti della condotta ed ogni altro elemento significativo.

Tale ricostruzione dell’istituto trova ulteriore conferma nella necessità di compiere le valutazioni di cui si discute alla luce dell’art. 133, primo comma, cod. pen.

Il richiamo mette in campo, oltre alle caratteristiche dell’azione e alla gravità del danno o dei pericolo, anche l’intensità del dolo e il grado della colpa. A tale riguardo sono state manifestate perplessità, alimentate dal timore che vengano richieste indagini complesse sulla sfera interiore, incompatibili con la spedita applicazione dei nuovo istituto, e possibili cause di derive incontrollabili nell’esercizio della discrezionalità

Si tratta di dubbi che non sono fondati. La pertinenza del richiamo emerge icasticamente dalla stessa intitolazione dell’art. 133, dedicato alla valutazione della gravità del reato agli effetti della pena; atteso che il nuovo istituto è stato configurato proprio come una causa di esclusione della punibilità.

D’altra parte, occorre considerare che se è vero che lo sviluppo del progetto normativo ha in più occasioni mostrato di preferire la considerazione dei tratti più obiettivabili rifuggendo dai profili interiori, tuttavia, come ormai comunemente ritenuto, anche l’elemento soggettivo del reato penetra nella tipicità oggettiva. Ciò è particolarmente chiaro nell’ambito della colpa, ove rileva il tratto obiettivo della violazione della regola cautelare. Ma anche nell’ambito del dolo condotta e colpevolezza s’intrecciano.

Soprattutto, infine, la dottrina della colpevolezza è troppo profondamente legata al tema della pena e della sua commisurazione perché se ne possa prescindere dei tutto nell’ambito della valutazione sulla sua meritevolezza richiesta dalla novella. Si vuoi dire che razionalmente, nel disciplinare la graduazione dell’illecito, si è fatto riferimento non solo al disvalore di azione e di evento ma anche al grado della colpevolezza.

La rilevanza dei profilo soggettivo emerge, del resto, dal parere espresso dalla Camera sullo schema di decreto legislativo. Si è considerato che li parametro della modalità della condotta consente valutazioni anche di natura soggettiva sul grado della colpa e sull’intensità del dolo; e si è quindi proposto di introdurre il richiamo esplicito all’art. 133, primo comma, cod. pen. che compare nell’atto normativo.

Tali brevi considerazioni corroborano la prospettata ricostruzione della nuova figura giuridica. Essendo richiesta la ponderazione della colpevolezza in termini di esiguità e quindi la sua graduazione, è dei tutto naturale che il giudice sia chiamato ad un apprezzamento di tutte le rilevanti contingenze che caratterizzano ciascuna vicenda concreta ed in specie di quelle afferenti alla condotta; ed è quindi escluso che una preclusione possa derivare dalla modesta caratterizzazione, sul piano descrittivo, della fattispecie tipica.

L’approccio proposto può essere ripetuto in guisa non molto dissimile per ciò che riguarda la ponderazione dell’entità del danno o dei pericolo. Anche qui nessuna precostituita preclusione categoria le è consentita, dovendosi invece compiere una valutazione mirata sulla manifestazione del reato, sulle sue conseguenze.

L’ordinanza di rimessione sembra dubitare che siffatta valutazione possa esser fatta con riguardo a illeciti nei quali sia impossibile o difficile compiere un apprezzamento gradualistico rapportato all’entità della lesione od esposizione a pericolo di un bene giuridico; o nei quali la misurazione sia stata espressa direttamente dal legislatore attraverso l’individuazione di soglie, fasce di rilevanza penale o di graduazione dell’entità dell’illecito.

Pure tale dubbio è ingiustificato. Esso è ancora una volta determinato dall’idea che la valutazione afferente all’esiguità del fatto o dell’offesa debba essere articolata nel rispetto della tradizione che lega il principio di offensività alla lesione od esposizione a pericolo dei bene giuridico. Si tratta di un approccio che non tiene conto della disciplina legale.

Il legislatore, come si è accennato, ha esplicato una complessa elaborazione per definire l’ambito dell’istituto. Da un lato ha compiuto una graduazione qualitativa, astratta, basata sull’entità e sulla natura della pena; e vi ha aggiunto un elemento d’impronta personale, pure esso tipizzato, tassativo, relativo alla abitualità o meno dei comportamento. Dall’altro lato ha demandato al giudice una ponderazione quantitativa rapportata al disvalore di azione, a quello di evento, nonché al grado della colpevolezza. Ha infine limitato la discrezionalità del giudizio escludendo alcune contingenze ritenute incompatibili con l’idea di speciale tenuità: motivi abietti o futili, crudeltà, minorata difesa della vittima ecc..

Da tale connotazione dell’istituto emerge un dato di cruciale rilievo, che deve essere con forza rimarcato: l’esiguità del disvalore è frutto di una valutazione congiunta degli indicatori afferenti alla condotta, al danno ed alla colpevolezza. E potrà ben accadere che si sia in presenza di elementi di giudizio di segno opposto da soppesare e bilanciare prudentemente.

Da quanto precede discende che la valutazione inerente all’entità del danno o del pericolo non è da sola sufficiente a fondare o escludere il giudizio di marginalità del fatto. Tale conclusione è desunta non solo dalla complessiva articolazione della disciplina cui si è sopra fatto cenno, ma anche da due argomenti specifici.

In primo luogo, il legislatore ha espressamente previsto che la nuova disciplina trova applicazione anche quando la legge prevede la particolare tenuità del danno o del pericolo come circostanza attenuante. Dunque, anche in presenza di un danno di speciale tenuità l’applicazione dell’art. 131-bis è pur sempre legata anche alla considerazione dei già evocati indicatori afferenti alla condotta ed alla colpevolezza.

D’altra parte, quando si è voluto evitare che la graduazione del reato espressa in una circostanza aggravante ragguagliata all’entità della lesione sia travolta da elementi di giudizio di segno opposto afferenti agli altri indicatori previsti dalla legge lo si è ha fatto esplicitamente: l’offesa non può essere ritenuta tenue quando la condotta ha cagionato, quale conseguenza non voluta, lesioni gravissime.

In breve, è stata accolta in tutto e per tutto la concezione gradualistica dei reato già nitidamente scolpita nell’insegnamento Carrariano: «nella ricerca sul grado si esamina un fatto nelle eccezionali accidentalità dei suo concreto modo di essere nella individualità criminosa nella quale si estrinseca»; e, nel rispetto della legge, tale giudizio non può che essere rimesso al magistrato «perché l’uomo deve essere condannato secondo la verità e non secondo le presunzioni». Si tratta, d’altra parte, di approccio non solo tradizionale ma anche moderno, ripreso dagli studiosi che hanno analizzato i mutevoli pesi dell’esperienza giuridica proprio per cogliervi criteri di selezione di comportamenti per l’appunto minori, meritevoli di trattamento differenziato.

Alla luce di tali considerazioni è possibile rispondere agli interrogativi che riguardano la fattispecie in esame. Come si è accennato, l’ordinanza di rimessione ritiene che la valutazione sulla tenuità del fatto sia preclusa nell’ambito delle fattispecie in cui non è richiesto l’accertamento della concreta pericolosità della condotta tipica.

A tale riguardo occorre considerare che l’illecito di cui all’art. 186, comma 7, cod. strada sanziona il rifiuto di sottoporsi all’indagine alcoolimetrica volta all’accertamento della guida in stato di ebbrezza sanzionata dal secondo comma dello stesso articolo. In conseguenza, la lettura della ratio e dello sfondo di tutela che presiedono alla contravvenzione in esame sarebbe fallace ed astratta se non si confrontasse con l’intimo intreccio tra i due reati, enfatizzato dal fatto che uno è punito con le sanzioni previste dall’altro. In breve, il comma 7 non punisce una mera, astratta disobbedienza ma un rifiuto connesso a condotte di guida indiziate di essere gravemente irregolari e tipicamente pericolose, il cui accertamento è disciplinato da procedure di cui il sanzionato rifiuto costituisce solitamente la deliberata elusione.

Dunque, non può farsi a meno di esaminare la collaterale contravvenzione di cui al richiamato comma 2 dell’art. 186. Essa si inscrive nella categoria di illeciti in cui la pericolosità della condotta tipica è tratteggiata in guisa categoriale: è ritenuta una volta per tutte dal legislatore, che individua comportamenti contrassegnati, alla stregua di informazioni scientifiche o di comune esperienza, dall’attitudine ad aggredire il bene oggetto di protezione. Si tratta, in breve, dei reati di pericolo presunto: nessuna indagine è richiesta sulla fattispecie concreta e sulla concreta pericolosità in relazione al bene giuridico oggetto di tutela. Si tratta, è bene rammentarlo, di una categoria di illeciti che trova frequente espressione in reati contravvenzionali connotati proprio dal superamento di valori soglia ritenuti per l’appunto tipicamente pericolosi.

Orbene, non è da credere che tale conformazione della fattispecie faccia perdere il suo ancoraggio all’idea di pericolo ed ai beni giuridici che si trovano sullo sfondo. Al contrario, come ormai diffusamente ritenuto, si tratta di illeciti che presentano un forte legame con l’archetipo della pericolosità e garantiscono, anzi, il rispetto del principio di tassatività, assicurando la definita conformazione della fattispecie alla stregua di accreditate informazioni scientifiche e di razionale ponderazione degli interessi in gioco; ed eliminando gli spazi di vaghezza e discrezionalità connessi alla necessità di accertare in concreto l’offensività dei fatto.

Da tale ricostruzione della categoria discende che, accertata la situazione pericolosa tipica e dunque l’offesa, resta pur sempre spazio per apprezzare in concreto, alla stregua della manifestazione del reato, ed al solo fine della ponderazione in ordine alla gravità dell’illecito, quale sia lo sfondo fattuale nel quale la condotta si inscrive e quale sia, in conseguenza, il concreto possibile impatto pregiudizievole rispetto al bene tutelato.

E’ agevole, a questo punto, tradurre le indicate enunciazioni di principio nell’ambito di cui ci si occupa, non prima, però, di aver posto un’ultima preliminare precisazione. Non può ritenersi che lo sfondo di tutela del reato di cui all’art. 186, comma 2, sia quello della regolarità della circolazione. Istanze di sicurezza e regolarità della circolazione permeano, nel complesso, il codice della strada. Tuttavia la nostra contravvenzione ha una evidente e ben poco mediata correlazione con i beni della vita e dell’integrità personale. Tale conclusione non si trae solo da diretta, vivida e comune fonte esperienziale. E’ la stessa disciplina legale a fornire univoca indicazione in tal senso. Il comma 2-bis prevede che se il conducente in stato di ebbrezza provoca un incidente stradale, il reato è aggravato. Più in generale, l’art. 222 prevede severe sanzioni amministrative accessorie quando dalla violazione di norme dei Codice derivano danni alle persone.

Dunque, il doveroso apprezzamento in ordine alla gravità dell’illecito connesso all’applicazione dell’art. 131-bis consente ed anzi impone di considerare se il fatto illecito abbia generato un contesto concretamente e significativamente pericoloso con riguardo ai beni indicati. Per esemplificare: non è indifferente che il veicolo sia stato guidato per pochi metri in un solitario parcheggio o ad elevata velocità in una strada affollata, magari generando un incidente. E l’indicato intreccio tra le due contravvenzioni impone di considerare, ai fini che qui interessano, pure con riguardo a quella di mero rifiuto lo sfondo fattuale, la rischiosità dei contesto nel quale l’illecito s’inscrive.

Va conclusivamente enunciato il seguente principio di diritto:

La causa di non punibilità per particolare tenuità dei fatto, di cui all’art. 131-bis cod. pen., è compatibile con il reato di rifiuto di sottoporsi all’accertamento alcoolimetrico, previsto dell’art. 186, comma 7, cod. strada‘.

Alla luce dei principi sin qui posti è infine possibile rispondere alla richiesta, posta dal ricorso, di applicazione del nuovo istituto.

Si tratta di prendere in esame i fatti e le valutazioni espresse nella pronunzia di merito e di verificare se possa ritenersi concretata la fattispecie legale di speciale tenuità.

Orbene, dalla sentenza emerge che l’imputato, fermato dai Carabinieri, mostrò immediatamente i sintomi di un grave stato di alterazione alcoolica: forte alito vinoso, difficoltà di espressione, eloquio sconnesso, difficoltà di coordinamento dei movimenti, stato confusionale, equilibrio precario, andatura barcollante. Egli venne sottoposto al test qualitativo preliminare che ebbe esito positivo e rifiutò di sottoporsi all’alcoltest.

Tali dati, valutati alla stregua dei criteri previsti dalla legge, consentono di escludere che sia ravvisabile un fatto specialmente tenue: il rifiuto è stato deliberato e motivato dall’esito dell’indagine preliminare; e d’altra parte lo stato d’alterazione era tanto marcato da consentire agevoli deduzioni sulla pericolosità della condotta di guida.

Il ricorso deve essere conseguentemente rigettato. Segue per legge la condanna al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali

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