Corte di Cassazione

Suprema Corte di Cassazione

S.U.P.

sentenza 30 dicembre 2015, n. 51207

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE PENALI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SANTACROCE Giorgio – Presidente

Dott. MANNINO Saverio – Consigliere

Dott. MILO Nicola – Consigliere

Dott. CONTI Giovanni – Consigliere

Dott. VECCHIO Massimo – Consigliere

Dott. BIANCHI Luisa – Consigliere

Dott. FUMO Maurizio – Consigliere

Dott. FIDELBO Giorgio – Consigliere

Dott. RAMACCI Luca – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

1. (OMISSIS), nato a (OMISSIS);

2. (OMISSIS), nata a (OMISSIS);

avverso la ordinanza del 08/05/2015 del Tribunale di Napoli;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;

udita la relazione svolta dal componente Dott. RAMACCI Luca;

lette le richieste del Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato generale Dott. STABILE Carmine e dei Sostituti Procuratori generali Dott. BALDI Fulvio, Dott. GAETA Pietro, Dott. GALASSO Aurelio, Dott. IACOVIELLO Francesco, che hanno concluso chiedendo il rinvio a nuovo ruolo del ricorso, ai fini dell’integrazione del contraddittorio difensivo nelle forme di cui all’articolo 127 c.p.p..

RITENUTO IN FATTO

1. Il Tribunale di Napoli, con ordinanza dell’8 maggio 2015 ha confermato il decreto di sequestro probatorio eseguito nei confronti di (OMISSIS) ed (OMISSIS) e concernente armi da fuoco, detenute legittimamente ma conservate in un armadio blindato trovato aperto all’atto dell’accesso di polizia, armi bianche e munizioni, nonche’ marijuana, conservata in diversi involucri rinvenuti in piu’ luoghi, ipotizzandosi, nei loro confronti, i reati di cui alla Legge n. 110 del 1975, articolo 20, articolo 697 c.p. e Decreto del Presidente della Repubblica 309 del 1990, articolo 73.

2. Avverso tale pronuncia i predetti hanno proposto ricorso per cassazione tramite il proprio difensore di fiducia, deducendo il difetto di motivazione e la violazione dell’articolo 292 c.p.p., comma 2, lettera c) e c bis) e comma 2 ter, in relazione alla questione, sollevata in sede di riesame e concernente la mancanza di sigilli “nello scatolo di cartone ed all’interno delle buste contenenti il materiale sequestrato”, nonche’ la mancanza di motivazione del decreto di convalida, in considerazione della riferita comprovata presenza in sede di accertamento tecnico, di un quantitativo di sostanza presunta stupefacente superiore a quello descritto nel verbale di sequestro.

Deducono altresi’ la violazione di legge in relazione al contenuto di due verbali di sequestro (redatti uno alle ore 14,30 e l’altro alle 17,30, quest’ultimo relativo a sostanza stupefacente) dai quali risulterebbe la prosecuzione illecita dell’attivita’ di ricerca, anche in assenza del difensore, presente solo all’accertamento tecnico effettuato in data 11 giugno 2015.

3. Il ricorso e’ stato assegnato alla Sesta Sezione penale, la quale, all’udienza del 15 settembre 2015, ha proceduto con rito camerale non partecipato, ai sensi dell’articolo 611 c.p.p..

4. In vista della predetta udienza, nelle sue conclusioni scritte, il Procuratore generale aveva formulato richiesta di fissazione di udienza camerale secondo il disposto dell’articolo 127 c.p.p., richiamando, a tale proposito, le conclusioni cui era pervenuta una precedente decisione delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 14 del 06/11/1992, dep. 1993, Lucchetta, Rv. 192206), ritenute condivisibili nonostante quanto rilevato in successive pronunce (Sez. U, n. 41694 del 18/10/2012, Nicosia, Rv. 253289; Sez. U, n. 9857 del 30/10/2008, dep. 2009, Manesi, Rv. 242291) e considerate anche le indicazioni della Corte EDU, atteso il carattere, ritenuto afflittivo, dell’ablazione reale, sostanzialmente affine alle misure sanzionatone, che giustificherebbe un’ampia applicazione della partecipazione, della comunicazione e della contrapposizione dialettica.

In subordine, il Procuratore generale richiedeva la rimessione degli atti alle Sezioni Unite.

5. La Sesta Sezione ha accolto tale ultima sollecitazione e, premessa una diffusa disamina dei precedenti giurisprudenziali e delle disposizioni richiamate, ha ritenuto necessaria una rivisitazione del precedente, consolidato, indirizzo interpretativo.

Si osserva, che l’assenza di un espresso richiamo, da parte dell’articolo 325 c.p.p., comma 3, dell’articolo 311 c.p.p., comma 5, che e’ l’unico ad imporre l’osservanza delle forme dell’articolo 127 c.p.p., per la trattazione del ricorso avverso le misure cautelari, avrebbe un oggettivo rilievo che non puo’ essere attribuito, come affermato nelle precedenti pronunce delle Sezioni Unite (n. 14 del 1993, cit., e Sez. U, n. 4 del 26/04/1990, Serio), alla scarsa qualita’ del dettato legislativo, risultando invece coerente con la diversa scelta, esplicitata dal mancato richiamo, di rendere applicabile al ricorso, consentito per la sola violazione di legge, il contraddittorio scritto, pieno e discrezionale.

E’ stata conseguentemente pronunciata ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite sul punto relativo alla procedura camerale da seguire a seguito di ricorso proposto a norma dell’articolo 325 c.p.p..

6. Il Primo Presidente, con decreto del 28 settembre 2015, ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la data odierna la relativa udienza camerale di trattazione in camera di consiglio ai sensi dell’articolo 611 c.p.p..

7. La Procura generale ha chiesto che sia riconosciuta la necessita’ del rito camerale partecipato ai sensi dell’articolo 127 c.p.p., escludendosi la possibilita’ di ricorrere a quello disciplinato dall’articolo 611 c.p.p..

Richiamati i contenuti della precedente requisitoria, nonche’ la giurisprudenza comunitaria e costituzionale, l’Ufficio requirente ha rilevato che, nel seguire le argomentazioni prospettate nella criticata ordinanza di rimessione, si recherebbe un intollerabile vulnus al diritto al contraddittorio difensivo, alla ragionevole durata dei processi ed all’efficiente organizzazione degli uffici giudiziari.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. La questione di diritto per la quale i ricorsi sono stati rimessi alle Sezioni Unite e’ la seguente: “Se il rito da seguire in caso di ricorso per cassazione proposto a norma dell’articolo 325 c.p.p., deve svolgersi nel rispetto delle forme previste dall’articolo 611 o di quelle previste dall’articolo 127 c.p.p.”.

2. Va preliminarmente ricordato che, con l’articolo 611 c.p.p., il quale presenta corrispondenze con l’articolo 531 del previgente codice di rito, e’ stata data attuazione all’articolo 2, direttiva 89, della legge – delega per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale (Legge 16 febbraio 1987, n. 81).

Nell’attuale formulazione, l’articolo 611 c.p.p., cosi’ recita: “Oltre che nei casi particolarmente previsti dalla legge, la corte procede in camera di consiglio quando deve decidere su ogni ricorso contro provvedimenti non emessi nel dibattimento, fatta eccezione delle sentenze pronunciate a norma dell’articolo 442. Se non e’ diversamente stabilito e in deroga a quanto previsto dall’articolo 127, la corte giudica sui motivi, sulle richieste del procuratore generale e sulle memorie delle altre parti senza intervento dei difensori. Fino a quindici giorni prima dell’udienza, tutte le parti possono presentare motivi nuovi e memorie e, fino a cinque giorni prima, possono presentare memorie di replica”.

Va peraltro considerata, nella lettura della disposizione codicistica in esame, anche la direttiva 95 contenuta nella Legge Delega n. 81 del 1987, articolo 2, concernente il “diritto delle parti di svolgere le conclusioni davanti alla Corte di cassazione”, rispetto alla quale la dottrina ha posto in rilevo le differenze rispetto alla precedente Legge Delega del 1974 (Legge 3 aprile 1974, n. 108) che, nella direttiva n. 77, si riferiva, invece, alla “necessita’ delle conclusioni della difesa nel dibattimento davanti alla Cassazione”, osservando come la diversa formulazione possa ritenersi indicativa dell’intento di semplificare i mezzi di impugnazione mediante l’eliminazione di interventi e presenze non assolutamente necessari, considerando anche la peculiarita’ del giudizio di legittimita’, la quale ben consente la possibilita’ di affidare i motivi di ricorso ad un atto scritto, senza l’obbligatorieta’ della illustrazione ed esposizione orale.

La tipicita’ del giudizio di cassazione giustifica, pertanto, la scelta del rito da parte del legislatore, il quale, tuttavia, ha comunque lasciato inalterato il ricorso all’oralita’ del procedimento camerale laddove lo richiedano la posizione processuale dei soggetti coinvolti e l’oggetto del giudizio, con la conseguenza che il procedimento nella forma non partecipata ai sensi dell’articolo 611 c.p.p., in deroga a quanto previsto dall’articolo 127 c.p.p., costituisce una regola nel giudizio di cassazione, operante salvo che sia diversamente stabilito (lo si e’ recentemente ricordato, in tema di rescissione del giudicato di cui all’articolo 625 ter c.p.p., in Sez. U, n. 36848 del 17/07/2014, Burba, par. 6 del Considerato in diritto).

3. Cio’ posto, va preso in considerazione il sistema delle impugnazioni in materia di sequestro, iniziando dal sottolineare come, con riferimento al sequestro probatorio, l’articolo 257 c.p.p., comma 1, stabilisca che contro il decreto che lo dispone possano proporre richiesta di riesame, anche nel merito, a norma dell’articolo 324 c.p.p., l’imputato, la persona alla quale le cose sono state sequestrate e quella che avrebbe diritto alla loro restituzione.

Analoga previsione e’ contenuta nell’articolo 322 c.p.p., comma 1, riguardo al sequestro preventivo, che contempla anche il difensore dell’imputato tra i soggetti che possono presentare richiesta di riesame.

Sempre in tema di sequestro preventivo, l’articolo 322-bis c.p.p., abilita i medesimi soggetti, al di fuori dei casi previsti dall’articolo 322, a proporre appello contro le ordinanze in materia di sequestro preventivo e contro il decreto di revoca del sequestro emesso dal pubblico ministero.

3.1. Invece, con riferimento al procedimento per la restituzione delle cose sequestrate, l’articolo 263 c.p.p., comma 5, stabilisce che, contro il decreto del pubblico ministero che dispone la restituzione o respinge la relativa richiesta, gli interessati possono proporre opposizione, sulla quale il giudice provvede a norma dell’articolo 127.

In questa ipotesi, avverso l’ordinanza emessa dal giudice, secondo quanto affermato dalle Sezioni Unite, a conferma di un orientamento giurisprudenziale decisamente maggioritario, puo’ essere proposto ricorso per cassazione (Sez. U, n. 7946 del 31/01/2008, Eboli, Rv. 238507), che va deciso in camera di consiglio, con le forme del rito non partecipato di cui all’articolo 611 c.p.p., (Sez. U, n. 9857 del 30/10/2008, dep. 2009, Manesi, Rv. 242291).

3.2. L’articolo 325 c.p.p., specifica poi, al comma 1: “Contro le ordinanze emesse a norma degli articolo 322 bis e 324, il pubblico ministero, l’imputato e il suo difensore, la persona alla quale le cose sono state sequestrate e quella che avrebbe diritto alla loro restituzione possono proporre ricorso per cassazione per violazione di legge”.

Va a tale proposito ricordato che, secondo la giurisprudenza di legittimita’, nella nozione di “violazione di legge”, per la quale soltanto puo’ essere proposto ricorso per cassazione in ragione della espressa previsione del citato comma 1, rientrano la mancanza assoluta di motivazione o la presenza di motivazione meramente apparente, in quanto correlate all’inosservanza di precise norme processuali, ma non l’illogicita’ manifesta, la quale puo’ denunciarsi nel giudizio di legittimita’ soltanto tramite lo specifico e autonomo motivo di ricorso di cui dell’articolo 606 c.p.p., lettera e), (Sez. U, n. 25932 del 29/05/2008, Ivanov, Rv. 239692; Sez. U, n. 25933 del 29/05/2008, Malgioglio, non massimata sul punto; Sez. U, n. 5876 del 28/01/2004, Bevilacqua, Rv. 226710).

Il successivo comma 2 cosi’ dispone: “Entro il termine previsto dell’articolo 324, comma 1, contro il decreto di sequestro emesso dal giudice puo’ essere proposto direttamente ricorso per cassazione.

La proposizione del ricorso rende inammissibile la richiesta di riesame”.

Al comma 3 si prevede l’applicazione delle disposizioni dell’articolo 311 c.p.p., commi 3 e 4.

Il primo dei commi richiamati stabilisce che il ricorso va presentato nella cancelleria del giudice che ha emesso la decisione, ovvero, nel caso previsto dal comma 2, in quella del giudice che ha emesso l’ordinanza. Il giudice cura che sia dato immediato avviso all’autorita’ giudiziaria procedente la quale, entro il giorno successivo, trasmette gli atti alla corte di cassazione.

Il comma 4 specifica che, nei casi previsti dai commi 1 e 2, i motivi devono essere enunciati contestualmente al ricorso, sebbene il ricorrente abbia facolta’ di enunciare nuovi motivi davanti alla corte di cassazione, prima dell’inizio della discussione.

Inoltre, il successivo comma 5, non richiamato dall’articolo 325, ma di interesse per la soluzione della questione in esame, prevede che la corte di cassazione decida entro trenta giorni dalla ricezione degli atti, osservando le forme previste dall’articolo 127.

4. I contenuti delle richiamate disposizioni e, segnatamente, quello dell’articolo 311 c.p.p., comma 4, nella parte in cui prevede la possibilita’ di enunciare nuovi motivi davanti alla corte di cassazione, prima dell’inizio della “discussione”, ha orientato le precedenti decisioni delle Sezioni Unite, inducendo a ritenere superabile, in ragione di tale specifico riferimento, il mancato espresso richiamo al comma 5 del medesimo articolo, che impone l’osservanza delle forme di cui all’articolo 127.

In particolare, nella sentenza Serio (n. 4 del 1990, cit.) si e’ affermato che il richiamo dell’articolo 311 c.p.p., comma 4, rende impossibile la trattazione scritta, in quanto la disposizione prevede una “discussione”, necessariamente orale e la possibilita’ di enunciare motivi nuovi prima del suo inizio, delineando cosi’ un modulo procedimentale ritenuto incompatibile con quello dell’articolo 611 c.p.p., che e’ basato unicamente su atti scritti e consente alle parti di presentare motivi nuovi fino a quindici giorni prima dell’udienza camerale.

Tale evenienza, dunque, sarebbe indicativa della sussistenza di uno di quei casi in cui, secondo l’articolo 611, “e’ diversamente stabilito” e, risultando inapplicabili le forme del procedimento camerale speciale, non possono che essere adottate quelle generali dell’articolo 127 c.p.p., nonostante l’assenza, nell’articolo 325 c.p.p., di un rinvio al comma 5 dell’articolo 311.

La mancanza del rinvio avrebbe tuttavia, quale conseguenza, l’inapplicabilita’, ai ricorsi in materia di sequestro, del termine di trenta giorni dalla ricezione degli atti, fissato dell’articolo 311, comma 5, entro il quale deve intervenire la decisione della corte di cassazione.

La sentenza Serio ha conseguentemente ritenuto che l’articolo 325 c.p.p., comma 3, abbia parificato i ricorsi in materia di misure cautelari reali a quelli in materia di misure cautelari personali per quanto concerne le forme di trattazione, non estendendo pero’ ai primi il termine di trenta giorni per la decisione, che ha considerato giustificato, nel suo rigore, solo per le misure di natura personale.

Le considerazioni svolte nella sentenza Serio sono state pienamente ribadite dalla successiva sentenza Lucchetta (n. 14 del 1993, cit.), la quale, nel respingere nuovamente la diversa soluzione interpretativa, prospettata nell’ordinanza di rimessione sulla base del mancato espresso richiamo dell’articolo 311 c.p.p., comma 5, da parte dell’articolo 325, ha rilevato la superfluita’ di tale rinvio in presenza del riferimento alla “discussione”, contenuto l’articolo 311, nel comma 4 che presuppone, necessariamente, la forma orale del procedimento.

Sulla base di tale assunto, viene negata anche la fondatezza della tesi (ora nuovamente prospettata nell’ordinanza di rimessione), che il rinvio potrebbe operare soltanto per la parte applicabile e, cioe’, quella riguardante la possibilita’ di enunciare nuovi motivi e non anche per la discussione orale, perche’ vi osterebbe l’inequivoco tenore letterale delle norme e, inoltre, perche’, venendo eliminata la discussione, sarebbe vanificato il termine stabilito per la presentazione di nuovi motivi, individuato, appunto, nell’inizio della discussione, privando di efficacia la norma stessa.

Infine, la sentenza Lucchetta rileva che, accedendo alla contraria soluzione della questione, la mancanza della discussione comporterebbe l’impossibilita’, per il pubblico ministero, di controdedurre ai nuovi motivi enunciati dalla controparte.

5. E’ il caso di segnalare che, in una successiva, isolata, pronuncia (Sez. 1 , n. 3259 del 02/05/2000, Selini, Rv. 216755) si e’ affermato che le forme camerali di cui all’articolo 127 c.p.p., in sede di ricorso per cassazione in procedimenti riguardanti i sequestri, vanno osservate soltanto per quelli proposti dalle parti processuali legittimate a richiedere il riesame del provvedimento di sequestro e che concretamente abbiano partecipato al relativo procedimento, mentre nei casi inerenti all’istanza di restituzione della cosa in sequestro, formulata da soggetto non intervenuto nella procedura di riesame, va osservato il rito camerale non partecipato e con solo contraddittorio scritto tra le parti.

6. Ritiene il Collegio che le argomentazioni sviluppate nelle richiamate pronunce Serio e Lucchetta, entrambe ormai risalenti nel tempo, vadano oggi riviste, pur in presenza di un quadro normativo immutato, alla luce dei contributi interpretativi offerti da successivi interventi delle Sezioni Unite, dando pure conto di quanto rilevato dalla giurisprudenza costituzionale e convenzionale richiamata anche nella requisitoria della Procura generale.

7. Si e’ gia’ ricordato in precedenza che, con riferimento al ricorso per cassazione contro l’ordinanza emessa dal g.i.p. a norma dell’articolo 263 c.p.p., comma 5, le Sezioni Unite (Sez. U, n. 9857 del 2008, dep. 2009, Manesi, cit.) hanno individuato, quale rito da seguire, quello non partecipato di cui all’articolo 611 c.p.p..

Richiamando le argomentazioni svolte in altra pronuncia (Sez. U, n. 26156 del 28/05/2003, Di Filippo, Rv. 224612), secondo la quale il modello camerale tipico previsto per le decisioni della corte di cassazione dall’articolo 611 c.p.p., “su ogni ricorso contro provvedimenti non emessi nel dibattimento”, diverge dal modello camerale tipico delineato dall’articolo 127 c.p.p., per le fasi procedimentali di merito, la sentenza Manesi ha posto in evidenza: la natura di norma speciale dell’articolo 611 c.p.p., rispetto alla norma generale dettata dall’articolo 127 c.p.p.; il fatto che l’articolo 611 c.p.p., costituisce attuazione della previsione contenuta all’articolo 2, direttiva 89, della legge-delega per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale, nonche’ della previsione di cui all’articolo 2, direttiva 95, della medesima legge contenente l’indicazione del “diritto delle parti di svolgere le conclusioni davanti alla Corte di Cassazione”, di cui pure si e’ detto in precedenza; che il rito camerale di cassazione previsto dall’articolo 611 c.p.p., costituisce una forma specifica e generale per la sede di legittimita’, derogatoria rispetto alla forma prevista in via generale per la sede di merito, la cui peculiarita’ consiste nella modalita’ attuativa del principio del contraddittorio (cartolare e non partecipato).

Da tale enunciato la decisione trae la conclusione che “la disciplina speciale, dettata per il rito camerale in cassazione, costituisce gia’ di per se’ deroga alla disciplina generale; il mero richiamo all’articolo 127 riferito al procedimento incidentale di merito, se puo’ valere a definire l’ambito di ricorribilita’ del provvedimento del giudice di merito, non puo’ essere esteso meccanicamente alla procedura da seguire nella successiva fase di legittimita’, la quale, “se non e’ diversamente stabilito”, e’ regolata da una specifica forma”.

Si e’ anche osservato come il rito camerale di cassazione sia previsto per materie che incidono su diritti soggettivi o posizioni di rilevanza anche costituzionale, per i quali il contraddittorio cartolare costituisce valido espletamento del diritto defensionale delle parti.

Ancor piu’ recentemente, si e’ affermato (Sez. U, n. 41694 del 18/10/2012, Nicosia, Rv. 253289), con riferimento al procedimento per la trattazione in camera di consiglio non partecipata, in sede di legittimita’, dei ricorsi in materia di riparazione per l’ingiusta detenzione, che essa non trova ostacolo nella sentenza 10 aprile 2012 della Corte EDU, nel caso Lorenzetti c. Italia, perche’ tale pronuncia, nell’affermare la necessita’ che al soggetto interessato possa, quanto meno, essere offerta la possibilita’ di richiedere una trattazione in pubblica udienza, non si riferisce al giudizio innanzi alla Corte di cassazione.

In tale occasione, sia pure con riferimento al ben diverso tema dell’alternativa tra rito camerale non partecipato e udienza pubblica, le Sezioni Unite hanno condiviso le conclusioni cui e’ pervenuta la Corte costituzionale nella sentenza n. 80 del 2011 nel desumere, dalla giurisprudenza della Corte EDU, “il principio secondo il quale, in riferimento al giudizio di legittimita’, la pubblicita’ della udienza non rappresenta un corollario necessario e inderogabile del diritto alla pubblicita’ del processo garantito dall’articolo 6, 1, della CEDU, quanto meno con riferimento alla tematica dei procedimenti speciali che vengono qui in discorso. In senso reciproco, d’altra parte, ed a corroborare un simile assunto, sta la circostanza che, ove si sia verificata una violazione dell’articolo 6, 1, della CEDU, nei gradi di merito, la eventuale trattazione del ricorso per cassazione in udienza pubblica non varrebbe – come pure puntualizzato dalla citata sentenza n. 80 del 2011 – a rimuovere e “sanare” quella violazione, dal momento che la giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha piu’ volte precisato che lo svolgimento pubblico del giudizio di impugnazione che sia a cognizione limitata, come nel caso in cui il relativo sindacato sia circoscritto ai soli motivi di diritto, non compensa la mancanza di pubblicita’ del giudizio anteriore, “proprio perche’ sfuggono all’esame del giudice di legittimita’ gli aspetti in rapporto ai quali l’esigenza di pubblicita’ delle udienze e’ piu’ avvertita, quali l’assunzione delle prove, l’esame dei fatti e l’apprezzamento della proporzionalita’ tra fatto e sanzione””.

8. Anche le sezioni semplici penali hanno, in piu’ occasioni, preso in esame questioni di legittimita’ costituzionale dell’articolo 611 c.p.p., sollevate sotto diversi profili.

Una prima valutazione e’ stata effettuata dalla Prima Sezione, la quale ha rilevato la manifesta infondatezza, con riferimento all’articolo 24 Cost., della questione, prospettata riguardo alla parte in cui l’articolo 611 c.p.p., derogando a quanto stabilito dall’articolo 127, prevede il rito camerale non partecipato, osservando che il diritto di difesa e’ comunque garantito dalla facolta’ di presentare memorie a sostegno del ricorso e non deve necessariamente esplicarsi con la presenza della parte all’udienza camerale (Sez. 1 , n. 5161 del 14/12/1992, dep. 1993, Micci, Rv. 193075).

A conclusioni analoghe e’ successivamente pervenuta la Terza Sezione penale in relazione alle sentenze di applicazione della pena ai sensi dell’articolo 444 c.p.p., osservando che l’articolo 24 Cost. tutela il diritto di difesa in quanto tale e non una sua particolare modalita’ di esercizio, quale la difesa orale davanti al giudice (Sez. 3 , n. 3093 del 27/09/1995, Caporale, Rv. 202808; conf. Sez. 5 , n. 32728 del 13/06/2001, Canalicchio, Rv. 219344). Nello stesso senso, con riferimento all’ormai abrogato comma 2 dell’articolo 611 c.p.p., (la cui disciplina e’ stata peraltro trasfusa nell’articolo 610 c.p.p.), v. Sez. 1 , n. 5379 del 29/09/2000, Srebot, Rv. 217613 e Sez. 5, n. 4118 del 17/11/2000, dep. 2001, Manfredi, Rv. 217937).

Con riferimento all’articolo 76 Cost. e’ stata, poi, ritenuta manifestamente infondata altra questione, sollevata ipotizzando l’eccesso di delega rispetto ai criteri direttivi contenuti nella Legge n. 81 del 1987, articolo 2 e, in particolare, rispetto alle direttive n. 2 (non essendo assicurata la trattazione orale del ricorso), n. 3 (non essendo realizzata la partecipazione della difesa su basi di parita’ rispetto all’accusa) e n. 89 (non essendo previste adeguate garanzie di difesa).

Si e’ rilevato che l’esigenza di assicurare l’oralita’ del processo non solo non e’ imposta in via assoluta, ma attiene alla formazione della prova e non alle modalita’ di esercizio della difesa in sede di discussione dibattimentale; che il procedimento camerale in cassazione non attribuisce alcun privilegio all’accusa, essendo esclusa in esso la presenza non solo del difensore ma anche del pubblico ministero e, infine, che il diritto di difesa e’ adeguatamente assicurato dalla facolta’ del difensore di presentare memorie e memorie di replica (Sez. 6 , n. 4679 del 27/11/1997, dep. 1998, Testa, Rv. 209780; conf. Sez. 1 , n. 4775 del 05/10/1998, dep. 1999, De Filippis, Rv. 212287).

E’ stata poi rilevata, con riferimento alla trattazione dell’istanza di ricusazione, la manifesta infondatezza della questione di legittimita’ costituzionale riferita alla mancata ammissione del difensore alla discussione orale sia nel corso della procedura di ricusazione che in sede di ricorso per cassazione, secondo quanto prescritto nell’articolo 127 c.p.p..

Si e’ osservato, a tale proposito, che il legislatore ordinario, in ossequio all’articolo 24 Cost., e’ tenuto a garantire, in ogni stato e grado dei procedimenti giudiziari, l’esplicazione del diritto di difesa, sebbene le modalita’ attraverso le quali questo diritto trova attuazione nelle specifiche e singole procedure possono essere stabilite di volta in volta dalla legge e la sua concreta esplicazione puo’ essere, conseguentemente, adeguata e adattata alla natura della materia trattata, alle esigenze di celerita’ o anche di massima semplificazione che il legislatore intenda perseguire, purche’ non lo faccia in maniera del tutto arbitraria ed irragionevole e tale da vanificare il diritto costituzionalmente garantito, sicche’ il contraddittorio scritto, specie quando ponga le parti in situazione di assoluta parita’, non si pone in contrasto con l’articolo 24 Cost., (cosi’, Sez. 4 , n. 1003 del 31/03/1999, Sette, Rv. 214772).

9. Per cio’ che riguarda, invece, la compatibilita’ dell’articolo 611 c.p.p., con i principi della CEDU, la piena legittimita’ della procedura camerale non partecipata e’ stata riconosciuta con riferimento ai ricorsi avverso i provvedimenti in materia di misure di prevenzione, in quanto la garanzia del contraddittorio orale in tale materia e’ riferita, dalla Corte EDU (sent. 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza e. Italia), al giudizio di merito (Sez. 1, n. 8990 del 13/02/2008, Ambrogio, Rv. 239515; conf. Sez. 6 , n. 2269 del 15/12/2009, dep. 2010, Del Vento, Rv. 245706; Sez. 1 , n. 14010 del 26/02/2008, Cucurachi, Rv. 240137; Sez. 1 , n. 11279 del 26/02/2008, Magnisi, Rv. 239046; Sez. 1 , n. 13569 del 04/02/2009, Falsone, Rv. 243552; Sez. 5 , n. 35371 del 20/06/2013, Scinardo, Rv. 255765).

In tema di esecuzione e’ stata poi ritenuta la manifesta infondatezza della questione di legittimita’ costituzionale dell’articolo 611 c.p.p., nella parte in cui non prevede l’intervento orale delle parti, osservandosi che tale procedimento camerale non e’ in contrasto con i principi del contraddittorio e della parita’ delle parti caratterizzanti il “giusto processo” a norma dell’articolo 111 Cost., comma 2, poiche’ assicura il contraddittorio cartolare tra le parti, poste su un piano di parita’ attraverso la possibilita’ di presentare memorie e memorie di replica e ricordando come la Corte EDU, nel ribadire la rilevanza della pubblicita’ dell’udienza dei procedimenti che possono incidere sui diritti fondamentali del cittadino, abbia previsto cause legittime di deroga in ragione della natura della questione trattata connotata da alto tecnicismo (Corte EDU, Sez. 2 , 18 maggio 2010, Udorovic c. Italia), la quale e’ destinata alla verifica della sussistenza dei presupposti per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio, gia’ stabilito in sentenze irrevocabili, secondo la regola del cumulo giuridico previsto in ipotesi di reato continuato, in luogo del cumulo materiale delle pene (cosi’, Sez. 1 , n. 42160 del 10/10/2012, De Stefano, Rv. 253812).

Ad analoghe conclusioni si e’ pervenuti, infine, con riferimento ai ricorsi in materia di riparazione per l’ingiusta detenzione (Sez. 4 , n. 10547 del 13/02/2014, Troci, Rv. 259218).

10. Dalla sommaria disamina delle richiamate pronunce emerge, dunque, chiaramente la piena legittimita’ della procedura camerale disciplinata dall’articolo 611 c.p.p., anche alla luce della normativa convenzionale e costituzionale, attraverso la non equivocabile distinzione tra il giudizio di merito e quello di legittimita’, di cui si e’ appena detto, cosicche’ una soluzione interpretativa diversa da quella prospettata nelle sentenze Serio e Lucchetta sarebbe priva delle negative conseguenze prospettate nella requisitoria della Procura generale, che peraltro, come si e’ avuto occasione di notare, investono non il tema dell’alternativa tra procedura in camera di consiglio partecipata e quella non partecipata, che qui solo interessa, ma quello ben diverso dell’alternativa tra procedura camerale e udienza pubblica.

11. Ponendo nuovamente l’attenzione sui contenuti delle disposizioni codicistiche in esame, va osservato come rilevi, in primo luogo, la specialita’ della procedura camerale non partecipata nel giudizio di cassazione, che opera “se non e’ diversamente stabilito”, come precisa l’articolo 611 c.p.p…

La formula utilizzata sembra riferirsi ad una espressa indicazione della differente procedura applicabile, precludendo, cosi’, la possibilita’ di interpretazioni sostanzialmente fondate su deduzioni di natura implicita, quali quelle prospettate nelle sentenze Serio e Lucchetta.

In altre parole, l’articolo 325, comma 3, e l’articolo 311, commi 3 e 4, in esso richiamato, non stabiliscono alcunche’ di diverso rispetto a quanto indicato dall’articolo 611 c.p.p., diversamente da quanto e’ da dire con riferimento dell’articolo 311, comma 5, laddove l’osservanza delle forme previste dall’articolo 127 c.p.p., e’ invece specificatamente effettuata.

Va inoltre rilevato che l’articolo 311 c.p.p., riguarda il ricorso per cassazione avverso provvedimenti in materia di misure coercitive, sicche’ la sua complessiva conformazione e’ chiaramente calibrata con specifico riferimento ad esse, ed il richiamo alla “discussione”, presente nel comma 4, non puo’ ritenersi determinante ai fini della individuazione del rito, cosi’ come non puo’ ritenersi che la sua mera presenza sia significativa di una diversa previsione da parte del legislatore, il quale avrebbe, cosi’, “diversamente stabilito” rispetto all’articolo 611 c.p.p..

Da cio’ consegue che l’assenza di un richiamo anche dell’articolo 311, comma 5, da parte dell’articolo 325 c.p.p., non e’ affatto irrilevante, venendo a mancare quella espressa previsione di un diverso rito camerale che l’articolo 611 chiaramente richiede nell’individuare i casi in cui non si procede nella forma non partecipata.

Considerando, dunque, l’articolo 311 c.p.p., nel suo complesso, perde rilievo anche la ulteriore osservazione, presente nella sentenza Serio, secondo la quale il mancato richiamo al comma 5, produce comunque concrete conseguenze, rendendo inapplicabile, in tema di sequestri, l’obbligo di decidere il ricorso entro trenta giorni dalla ricezione degli atti.

Tale ultima affermazione, significativamente oggetto di critica nei commenti alla decisione, mostra una evidente debolezza argomentativa, forzando la lettera della legge in un tortuoso percorso, seguendo il quale si sarebbe inteso perseguire il medesimo risultato che si sarebbe potuto ottenere attraverso il semplice richiamo dell’articolo 311 c.p.p., comma 5, ovvero disciplinandosi del tutto autonomamente il ricorso per cassazione avverso le ordinanze in materia di sequestro, senza alcun richiamo ad altre disposizioni.

Una lettura organica dell’articolo 311 c.p.p., rende peraltro condivisibili le osservazioni svolte nell’ordinanza di rimessione, laddove si osserva che la prevista possibilita’ di presentazione di motivi nuovi fino all’udienza puo’ essere compresa solo se correlata alla necessita’ di fissare l’udienza medesima nei trenta giorni dalla ricezione degli atti, come disposto dal comma 5, considerando che i tempi ristretti giustificano la possibilita’ di introdurre argomenti nuovi a sostegno dei motivi gia’ proposti e la conseguente deroga dell’articolo 127 c.p.p., comma 2.

Nel valutare, dunque, l’ambito di operativita’ dell’articolo 325 c.p.p., comma 2, in relazione all’articolo 311 c.p.p., richiamati commi 3 e 4, non puo’ prescindersi dal considerare che quest’ultimo e’ strutturato in relazione alle misure cautelari personali e dal fatto che il contenuto del comma 5 non puo’ essere ignorato.

Solo attribuendo rilievo alla circostanza che soltanto tale comma contiene un richiamo espresso all’articolo 127 c.p.p., e considerandone i contenuti, che lo saldano perfettamente ai commi precedenti, puo’ pervenirsi ad una interpretazione coerente, giungendo cosi’ alla conclusione, prospettata nell’ordinanza di rimessione, secondo la quale il richiamo, operato dall’articolo 325 c.p.p., comma 3, dell’articolo 311, comma 4, va riferito esclusivamente all’obbligo di enunciazione contestuale dei motivi di ricorso; precisazione a ben vedere per nulla superflua, essendo giustificata dalla necessita’ di affermare esplicitamente che la presentazione di una dichiarazione di impugnazione autonoma rispetto ai motivi, consentita nella fase del merito nella materia qui considerata, non e’ consentita nel giudizio di cassazione.

La diversa disciplina del rito camerale relativo alla trattazione del ricorso per cassazione regolato dall’articolo 325 c.p.p., trova, peraltro, ulteriore giustificazione, in linea generale, nella sostanziale differenza tra il regime cautelare personale e quello reale (messo in evidenza da Sez. U, n. 26268 del 17/06/2013, Rv. 255582, Cavalli), che legittima opzioni procedurali diversificate e, in particolare, nel fatto che il ricorso per cassazione ex articolo 325 c.p.p., e’ ammesso solamente per violazione di legge; evenienza, quest’ultima, che da ben ragione dell’opzione del legislatore verso un rito camerale non partecipato, il quale assicura comunque la pienezza del contraddittorio tra le parti.

Va peraltro osservato che, diversamente da quanto rilevato dalla Procura generale nelle sue conclusioni, il ricorso al rito camerale non partecipato non determina rilevanti conseguenze sulla celere definizione dei processi, considerato, in primo luogo, che il maggior termine di trenta giorni di cui all’articolo 610 c.p.p., comma 5, rispetto a quello stabilito dall’articolo 127 c.p.p., puo’ essere comunque ridotto a richiesta delle parti, secondo quanto disposto dall’articolo 169 disp. att. c.p.p.; e, in secondo luogo, che per l’individuazione della data della udienza ex articolo 611 c.p.p., diversamente da quanto sostenuto nella requisitoria, non e’ affatto necessario attendere che sia licenziata la requisitoria scritta, l’assenza della quale non impedisce comunque la trattazione del ricorso (v. Sez. 1, n. 4355 del 19/11/1991, dep. 1992, Chllle’, Rv. 188823).

12. Al quesito posto in apertura della presenta parte motiva, vale a dire “se il rito da seguire in caso di ricorso per cassazione proposto a norma dell’articolo 325 c.p.p., deve svolgersi nel rispetto delle forme previste dall’articolo 611 o di quelle previste dall’articolo 127 c.p.p.”, si deve pertanto rispondere che “deve osservarsi la procedura di cui all’articolo 611 c.p.p.”.

13. Venendo ora all’esame dei motivi di ricorso, deve rilevarsi la manifesta infondatezza degli stessi.

Lamentano, in particolare, i ricorrenti che il Tribunale non avrebbe fornito risposta su una specifica deduzione, concernente la insufficienza o mera apparenza della motivazione del provvedimento di convalida di perquisizione e sequestro effettuata dal pubblico ministero nella parte concernente le modalita’ di custodia delle cose apprese dalla polizia giudiziaria.

14. Va a tale proposito rilevato che, secondo quanto gia’ osservato dalla giurisprudenza di legittimita’ (Sez. 6 , n. 25383 del 27/05/2010, Galluzzi, Rv. 247825; Sez. 6 , n. 6166 del 14/03/1995, Sanfilippo, Rv. 201824), le modalita’ di custodia delle cose sequestrate, descritte negli articoli 259 e 260 c.p.p., costituiscono prescrizioni meramente indicative che, da un lato, sono derogabili per ragioni di impossibilita’ o di opportunita’, e, dall’altro, non sono astrattamente contestabili, salvo il caso in cui vengano specificamente dedotti inconvenienti sostanziali attinenti ad ipotesi concrete di alterazione, modificazione o sostituzione dei reperti.

Il provvedimento di convalida, presente in atti, contiene l’espressa indicazione, da parte del Pubblico ministero procedente, della conferma delle modalita’ di custodia dei reperti e costituisce motivazione certamente adeguata in difetto di specifiche esigenze tali da imporre particolari modalita’ di conservazione delle cose sequestrate.

Il Tribunale, inoltre, ha espressamente affermato che nessuna censura poteva essere mossa al provvedimento impugnato sotto il profilo motivazionale, cosi’ implicitamente fornendo risposta a tutte le doglianze formulate, sul punto, dalla difesa.

Quanto alle deduzioni ulteriori poste a sostegno del motivo di ricorso e concernenti il diverso peso dello stupefacente riscontrato in sede di accertamento tecnico rispetto a quello constatato all’atto del sequestro, va rilevato che trattasi di questione di fatto che non puo’ essere prospettata in sede di legittimita’.

Per cio’ che concerne, infine, la censura concernente l’indicazione di diversi orari nei verbali di sequestro, dalla semplice disamina degli stessi emerge chiaramente che la polizia giudiziaria ha dato atto della data e dell’ora di redazione di ciascuno di essi (rispettivamente, 27 marzo 2015 ore 17,30 e 27 marzo 2015 ore 14,30), precisando, in entrambi i verbali, di aver proceduto al sequestro alle precedenti ore 12,30, all’esito di perquisizione.

15. Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile e alla declaratoria di inammissibilita’ consegue l’onere delle spese del procedimento, nonche’ quello del versamento, in favore della cassa delle ammende, della somma, equitativamente fissata, di euro mille.

P.Q.M.

Dichiara i ricorsi inammissibili e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1.000,00 ciascuno in favore della cassa delle ammende.

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