Corte di Cassazione

Suprema Corte di Cassazione

S.U.P.

sentenza 22 luglio 2014, n. 32351

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE PENALI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SANTACROCE Giorgio – Presidente
Dott. MANNINO Saverio F. – Consigliere
Dott. MILO Nicola – Consigliere
Dott. LOMBARDI Alfredo Maria – Consigliere
Dott. CONTI Giovanni – Consigliere
Dott. BIANCHI Luisa – Consigliere
Dott. BRUNO Paolo Antonio – Consigliere
Dott. MACCHIA Alberto – rel. Consigliere
Dott. CASSANO Margherita – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 09/05/2013 del Tribunale di Lecce, sez. dist. di Maglie;
visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Alberto Macchia;
udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale Dott. DESTRO Carlo, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udito per l’imputato l’avv. (OMISSIS), la quale ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 9 maggio 2013, il Tribunale di Lecce, sez. dist. di Maglie, ha dichiarato (OMISSIS) del reato previsto dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 44, lettera a), cosi’ modificata la originaria imputazione dell’articolo 44, lettera b), dello stesso Decreto del Presidente della Repubblica, condannandolo alla pena di euro 6.000 di ammenda e concedendo al medesimo il beneficio della sospensione condizionale della pena.
L’imputato era stato tratto a giudizio per avere, in concorso con il titolare della ditta esecutrice dei lavori e con il progettista e direttore del lavori, poi entrambi assolti per non aver commesso il fatto, realizzato un balcone, un vano e una veranda in totale difformita’ rispetto al permesso di costruire rilasciato dal Comune di (OMISSIS). Il Tribunale, all’esito della istruttoria dibattimentale, aveva attribuito rilevanza decisiva alla violazione delle distanze del fabbricato confinante ed alla inottemperanza alle prescrizioni imposte con il permesso di costruire, il che aveva determinato la inquadrabilita’ del fatto nella previsione dettata dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 44, lettera a), e non sotto la piu’ grave previsione della lettera b) del medesimo articolo, come in origine contestato.
2. Avverso la indicata sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore, il quale ha rassegnato tre motivi di impugnazione.
Nel primo si deduce violazione della disciplina in tema di oblazione. In particolare, si osserva che la sentenza impugnata, avendo riqualificato il reato sussumendolo nell’ambito di una fattispecie che avrebbe potuto essere definita con l’oblazione, e’ suscettibile di censura nella parte in cui ha irrimediabilmente precluso l’esercizio di un vero e proprio diritto, regolamentato dall’articolo 162 c.p., dal quale consegue una pronuncia favorevole all’imputato in quanto dichiarativa dell’estinzione del reato. Poste in luce, in particolare, le differenze che distinguono fra loro le figure della oblazione ordinaria di cui all’articolo 162 c.p., e della oblazione speciale prevista dall’articolo 162 bis c.p., si osserva come la prima – che viene appunto in discorso nel caso di specie – corrisponderebbe ad un diritto soggettivo pubblico individuale, mediante il quale l’interessato ha il potere di rinunciare alla garanzia della giurisdizione chiedendo la irrogazione di una sanzione predeterminata con criterio rigido, tale da determinare una sorta di automaticita’ nella applicazione della causa estintiva, in considerazione della minima entita’ dell’illecito. Nel caso concreto, osserva il ricorrente, il giudice, per consentire l’accesso al procedimento oblativo, avrebbe dovuto d’ufficio determinare la somma da versare ed assegnare all’imputato un termine con la sentenza di condanna entro il quale provvedere al pagamento. A differenza del caso gia’ scrutinato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 7645 del 28/02/2006, Autolitano, nella vicenda de qua la riqualificazione del fatto in reato oblabile e’ avvenuta solo in sentenza – in un procedimento, per di piu’, di tipo contumaciale – per iniziativa del giudice e non su impulso o sollecitazione del pubblico ministero; sicche’ l’imputato, per la impossibilita’ di conoscere preventivamente l’effettiva contestazione, e’ stato privato di un suo fondamentale diritto, che ha impedito la produzione del favorevole effetto giuridico di estinguere il reato.
Si sottolinea, al riguardo, che l’accesso all’oblazione, in mancanza di una preventiva modifica della contestazione, non puo’ essere subordinato alla preventiva richiesta dell’imputato, peraltro dipendente da una ipotetica o solo eventuale riqualificazione del fatto in sentenza, ma dovrebbe essere lo stesso giudice, di ufficio, ad informare il contravventore della possibilita’ di accedere ad un procedimento che rappresenta un indubbio vantaggio per i positivi effetti che e’ in grado di produrre.
Con il secondo motivo, il difensore lamenta la violazione degli articoli 3, 24 e 111 Cost., in quanto l’opzione ermeneutica volta a far dipendere la decadenza dal diritto di oblazione ordinaria, allorche’ se ne concretizzino i presupposti solo con la sentenza conclusiva del giudizio, dalla mancata presentazione di una domanda preventiva o cautelativa dell’imputato, sarebbe contraria ai fondamentali principi costituzionali di parita’ di trattamento e del giusto processo. L’assegnazione di un termine per consentire l’esercizio del diritto di definire il processo attraverso la oblazione, rappresenterebbe, dunque, soluzione idonea per consentire al sistema di porsi in linea con i principi costituzionali.
Con il terzo ed ultimo motivo si deduce la violazione delle norme riguardanti la modifica della imputazione e delle regole di garanzia nei confronti dell’imputato assente o contumace, dal momento che la riqualificazione del fatto ad opera del giudice vizierebbe la sentenza, perche’ non preceduta, a norma dell’articolo 520 c.p.p., dalla sospensione del dibattimento e dalla notifica del verbale di udienza contenente la modifica dell’imputazione, in modo da permettere al contravventore di chiedere la definizione anticipata del procedimento con oblazione.
3. Con ordinanza del 6 maggio 2014, la Terza Sezione penale, cui il ricorso era stato assegnato, ha rimesso il ricorso medesimo alle Sezioni Unite, avendo ravvisato la sussistenza di un potenziale contrasto con gli orientamenti sin qui seguiti dalla giurisprudenza di legittimita’.
L’ordinanza osserva, infatti, come il tema del rapporto tra l’istituto della oblazione e la qualificazione giuridica del fatto-reato ritenuto in sentenza in termini diversi dalla accusa originariamente contestata, aveva in passato dato luogo a soluzioni divergenti, a fronte delle quali si erano pronunciate le Sezioni Unite con la sentenza n. 7645 del 28 febbraio 2006, Autolitano, nella quale era stato affermato il principio secondo il quale, in assenza di modifica della contestazione da parte del pubblico ministero ed in presenza di una diversa qualificazione giuridica del fatto da parte del giudice, non avrebbe potuto trovare applicazione la disposizione dell’articolo 141 disp. att. c.p.p., comma 4 bis.
L’interpretazione della disciplina di settore, che farebbe salva l’ipotesi che l’imputato abbia avanzato richiesta di oblazione sulla base di una futura ed ipotetica derubricazione del reato, sarebbe stata avallata da successive pronunce (Sez. 2, n. 40037 del 14/10/2011, Mosole, Rv. 251546; Sez. 1, n. 14944 del 21/02/2008, Scarano, Rv. 240135), adottate pure della stessa Sezione rimettente, la quale ha anche ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimita’ costituzionale degli articoli 162 e 162 bis c.p., dell’articolo 521 c.p.p., e dell’articolo 141 disp. att. c.p.p., in riferimento agli articoli 3 e 24 Cost. (Sez. 3, n. 12284 del 19/10/2011, Vavassori, Rv. 252244).
Peraltro, segnala il Collegio rimettente, la impostazione tradizionale, che subordina l’accesso alla oblazione ordinaria ad una preventiva modifica dell’imputazione su iniziativa del pubblico ministero e ad una espressa richiesta del contravventore, non puo’ automaticamente adattarsi anche alla ipotesi in cui la riqualificazione del fatto avvenga ad opera del giudice direttamente in sentenza. Mentre la soluzione seguita dalle Sezioni Unite nella richiamata sentenza Autolitano parrebbe perentoria, nel senso che il diritto dell’imputato a fruire della oblazione sarebbe tutelato solo nella ipotesi che nel corso del dibattimento il pubblico ministero modifichi la contestazione e qualifichi il fatto secondo una ipotesi di reato che, a differenza di quella originariamente addebitata, consenta l’applicazione della disciplina relativa alla oblazione. In tal modo riservando pero’ alla sola parte pubblica una valutazione decisiva ai fini della esperibilita’ del procedimento di oblazione, che, ove la contestazione non sia stata modificata, non potrebbe che essere successivamente negata dal giudice.
Ad avviso della Sezione rimettente, tale orientamento non appare in linea con i principi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo per come interpretati dalla Corte EDU, in particolare nella sentenza 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia. Principi che, invece, risulterebbero soddisfatti qualora l’avvenuta riqualificazione del fatto operata dal pubblico ministero nel corso del dibattimento ponga comunque l’imputato nella condizione di valutare il nuovo quadro normativo di riferimento, non essendo richiesto, per il rispetto dei diritti della parte, che il giudice informi n’imputato stesso della possibilita’ che il fatto contestatogli venga diversamente definito.
Reputa, dunque, la Sezione rimettente che, dovendosi riconoscere in capo all’imputato un diritto incondizionato ad attivare la procedura di oblazione, tale diritto debba essere riconosciuto anche con riferimento al reato ritenuto dal giudice in sentenza, e non solo in relazione a quello che la parte pubblica ha inteso contestare all’atto dell’esercizio della azione penale. Un diritto che, conclude l’ordinanza di rimessione, non risulterebbe adeguatamente tutelato nella ipotesi – oggetto del ricorso – relativa ad una diversa e piu’ favorevole qualificazione giuridica del fatto operata in sentenza, non potendosi pretendere che l’imputato e il difensore prendano anticipatamente in esame tutti i possibili epiloghi processuali e avanzino, prima delle conclusioni del pubblico ministero, una richiesta di “oblazione condizionata” alla eventuale decisione.
4. Il Primo Presidente, con decreto del 12 maggio 2014, ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissandone per la trattazione l’odierna udienza pubblica.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il quesito sul quale le Sezioni Unite sono state invitate a fornire una risposta e’ cosi’ riassumibile: “Se la restituzione nel termine per proporre la domanda di oblazione trovi applicazione solo nel caso in cui la modifica della imputazione avvenga ad opera del pubblico ministero ovvero anche nella ipotesi in cui sia il giudice ad attribuire al fatto una diversa qualificazione giuridica, che consenta l’applicazione dell’oblazione, prescindendo dalla preventiva richiesta dell’imputato”.
Sul punto il Collegio rimettente – pur non additando soluzioni alternative -mostra di non aderire all’orientamento espresso dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 7645 del 28 febbraio 2006, Autolitano, con la quale venne composto un precedente contrasto registratosi nella giurisprudenza della Corte di cassazione. Varie erano state, infatti, le posizioni emerse, a fronte della problematica connessa al tema delle modifiche subite dalla imputazione al di fuori delle contestazioni del pubblico ministero ed ai riverberi che da cio’ scaturivano sul piano della possibilita’ di attivare il procedimento per oblazione – e di quali fossero le relative forme processuali – in rapporto alla diversa qualificazione della regiudicanda.
1.1. Secondo un primo orientamento, che risulta ancora prevalere, si sostiene che l’imputato, affinche’ possa essere ammesso ad estinguere un reato non originariamente contestato come oblabile con l’atto di esercizio della azione penale, deve presentare, in forma preventiva, l’istanza di oblazione, per l’ipotesi di un futuro o possibile mutamento del fatto. Ed e’ proprio questo il percorso ricostruttivo adottato, nella sostanza, nella sentenza Autolitano, ove si e’ affermato che sull’imputato incombe un onere di attivazione, con presentazione di una espressa istanza di oblazione tesa a sollecitare una diversa e piu’ favorevole qualificazione giuridica del fatto, posto che, in mancanza, la dinamica del procedimento e l’esigenza del contraddittorio precludono l’accesso al beneficio, ove la modifica della imputazione provenga direttamente dal giudice con la sentenza di condanna.
Anzi, una iniziativa in tal senso dell’imputato, volta a proporre l’istanza nella fase predibattimentale, anche nei casi in cui non sarebbe consentita l’oblazione, presenterebbe il vantaggio di stimolare il giudice ad approfondire l’esame sulla corretta qualificazione giuridica del fatto. L’imputato, dunque, nell’esercizio del proprio diritto di difesa, non dovrebbe cristallizzare le proprie opzioni sulla esclusiva falsariga della contestazione che gli e’ stata formalmente mossa, ma dovrebbe altresi’ misurarsi con la possibilita’ di attribuire al fatto un diverso nomen iuris, e contestualmente chiedere, in base alla piu’ favorevole qualificazione del reato, di esercitare il proprio diritto di estinguerlo attraverso l’oblazione. In caso contrario, l’imputato non potrebbe dolersi della impossibilita’ di beneficiare della oblazione, ove – in ipotesi di derubricazione della originaria fattispecie in altra per la quale e’ possibile l’oblazione – non abbia tempestivamente sollecitato la piu’ favorevole qualificazione giuridica del fatto con la contestuale richiesta del beneficio (Sez. 1, n. 14944 del 21/02/2008, Scarano, Rv. 240135; Sez. 1, n. 2610 del 30/11/2004, Amadiaze, Rv. 230953; Sez. 1, n. 216275 del 12/05/2000, Monetto, Rv. 216275; Sez. 1, n. 8780 del 05/05/1999, Orfeo, Rv. 214646; Sez. 1, n. 13278 del 10/11/1998, Mangione, Rv. 211868).
1.2. Secondo un diverso orientamento, rimasto peraltro isolato, si e’ affermato che l’imputato possa essere ammesso al beneficio nei gradi successivi di giudizio, mediante impugnazione della sentenza. Qualora, infatti, all’esito del giudizio di primo grado, l’imputato venga riconosciuto responsabile di un reato che, a differenza di quello originariamente contestato, renda possibile l’estinzione mediante oblazione, si e’ ritenuto ammissibile che la relativa domanda possa essere avanzata in sede di appello, trovando in tal caso applicazione analogica la disciplina prevista dall’articolo 604 c.p.p., comma 7, per il caso in cui il giudice d’appello riconosca erronea la reiezione della domanda di oblazione da parte del giudice di primo grado (Sez. 3, n. 10634 del 26/06/1999, Stacchini, Rv. 214038).
La tesi, che, peraltro, come si e’ detto, non e’ stata piu’ riproposta nella giurisprudenza di legittimita’, ha il difetto di configurare una sorta di “diritto d’appello” non in presenza di un difetto della sentenza impugnata ma in forza ed a causa di un evento del tutto fisiologico ed espressamente riservato al giudice all’atto della pronuncia della sentenza, quale e’ quello di dare al fatto, a norma dell’articolo 521 c.p.p., comma 1, una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione il che, finirebbe ineluttabilmente per generare una non consentita estensione di cio’ che puo’ formare oggetto di devoluzione all’organo del gravame – posto che, per definizione, l’oblazione e’, ove non richiesta, un punto del tutto estraneo all’oggetto della decisione adottata in primo grado – con correlativo inammissibile superamento del regime di tassativita’ che regola la materia delle impugnazioni.
D’altra parte, il riferimento all’articolo 604 c.p.p., comma 7, evocato nella pronuncia che qui si critica, funge proprio da limite “inverso” rispetto alla tesi della rinviabilita’ all’appello del tema e della richiesta di oblazione: considerato, infatti, che, in base a quella previsione, al giudice di appello e’ devolvibile esclusivamente il punto concernente la reiezione della domanda di oblazione da parte del giudice di primo grado, ne deriva che, ove nessuna richiesta di oblazione abbia investito il primo giudice, il suo silenzio su tale punto e’ evidentemente eccentrico rispetto al perimetro della appellabilita’. Per altro verso, la tesi che vorrebbe affidare al giudice dell’appello un potere di riammissione dell’imputato al diritto di chiedere l’oblazione, ove il primo giudice abbia riqualificato il fatto come reato oblabile, si scontra con l’obiezione che le sentenze di condanna per le quali sia stata applicata la sola pena dell’ammenda non sono appellabili, a norma dell’articolo 593 c.p.p., comma 3, con la conseguenza che, in una ipotesi siffatta, verrebbe ad essere chiamato in causa – come impropria sede “restitutoria” – il giudizio di legittimita’, in evidente antitesi sistematica con le funzioni e le caratteristiche proprie di quel giudizio, ed in carenza, per di piu’, di uno specifico vizio della sentenza impugnata.
1.3. Secondo un terzo orientamento, avallato da pronunce adottate anche in tempi recenti, per consentire all’imputato l’esercizio del diritto di richiedere l’oblazione nella ipotesi in cui la derubricazione del reato in una fattispecie oblabile sia intervenuta direttamente con la decisione conclusiva del giudizio, si e’ ritenuto di far leva sulla adozione di una “sentenza condizionata”, la quale, restituendo d’ufficio l’imputato nel termine per proporre la richiesta, contenga, oltre alla statuizione di condanna, anche l’ammissione al beneficio, con fissazione di termini e modalita’ di pagamento della somma prevista dalla legge per ottenere tempestivamente l’effetto estintivo del reato.
Secondo tale indirizzo, infatti, “qualora l’estinzione del reato per oblazione divenga possibile solo in seguito alla modifica dell’originaria imputazione disposta con la sentenza pronunciata all’esito del dibattimento, mediante la quale venga inflitta la pena per il reato in essa ritenuto, il giudice, con la stessa sentenza, e’ tenuto d’ufficio ad ammettere l’imputato, che non ne abbia fatto preventiva richiesta, all’oblazione, fissandone le modalita’ e subordinando l’efficacia della condanna al mancato adempimento nel termine non superiore a dieci giorni dal passaggio in giudicato della sentenza; sicche’ ove il pagamento intervenga entro il termine stabilito, il reato deve essere dichiarato estinto dal giudice dell’esecuzione; altrimenti la condanna diviene efficace ed eseguibile”.
A meno che non si voglia pervenire ad una interpretazione sostanzialmente abrogativa della norma che consente l’oblazione, con evidenti ricadute sul piano della conformita’ ai principi di uguaglianza e ragionevolezza, nella ipotesi considerata, si e’ infatti puntualizzato, l’impasse sarebbe superabile mutuando dal processo civile l’istituto della “sentenza condizionata”, la quale “consiste nel subordinare l’efficacia della condanna al verificarsi di determinati eventi futuri ed incerti, allo scadere del termine, all’adempimento di una prestazione, ed e’ ammissibile se circoscritta ai casi in cui l’accertamento dell’avverarsi della condizione non comporti un nuovo giudizio di cognizione, ma possa essere fatto valere in sede esecutiva” (Sez. 2, n. 40509 del 22/10/2001, Elidrissi, Rv. 220861; Sez. 2, n. 33420 del 10/09/2002, Bonavoglia, Rv. 222384; Sez. 3, n. 28682 del 06/04/2004, Bertalli, Rv. 229422; Sez. 3, n. 35113 del 05/05/2004, Barletta, Rv. 229553; Sez. 2, n. 9921 del 20/10/2004, El Anoualy, Rv. 230919).
Posizioni analoghe sono state assunte, come si e’ accennato, anche in un recente arresto, nel quale, pur prestandosi formalmente ossequio alla decisione delle Sezioni Unite Autolitano, si e’ tuttavia rilevato come i relativi principi si attagliassero a fattispecie diversa da quella oggetto dello scrutinio in quella occasione devoluto alla Corte, in quanto, mentre nel caso affrontato dalle Sezioni Unite non era stata formulata alcuna richiesta di oblazione, in quello oggetto di esame la domanda di oblazione era stata formulata e pertanto alla stessa doveva essere data risposta. Si e’ cosi’ affermato che qualora la proponibilita’ della richiesta di oblazione divenga possibile solo in seguito alla modifica della originaria e preclusiva imputazione, disposta con la sentenza che definisce il giudizio, il giudice, oltre ad irrogare la corrispondente sanzione, e’ tenuto, con la stessa sentenza e previa richiesta dell’imputato, a rimettere quest’ultimo in termini per proporre la richiesta di oblazione, subordinando l’efficacia della condanna al perfezionamento del relativo iter procedimentale. Precisandosi, al riguardo, che, se il pagamento avviene nel termine stabilito, il reato si estingue e la relativa declaratoria e’ pronunciata, ad istanza di parte, dal giudice dell’esecuzione; altrimenti, la sentenza di condanna diviene efficace ed eseguibile (Sez. 2, n. 40037 del 14/10/2011, Mosole, Rv. 251546).
Anche questo orientamento non puo’ essere condiviso. La categoria delle “sentenze condizionate” o di condanna condizionale, per la verita’ non poco discussa anche in sede di dottrina processualcivilistica, nasce, infatti, dalla varieta’ delle azioni esperibili nel processo civile e che sono ad esso intimamente coese; senza, dunque, una reale possibilita’ di “esportare” quella categoria in altri settori dell’ordinamento. Le cosiddette sentenze di condanna condizionate, infatti, si iscrivono, come e’ d’altra parte ovvio, nell’ambito di previsioni tutte tipizzate dalla pertinente disciplina codicistica, in funzione della peculiare natura dei diritti sostanziali coinvolti e dei petita che contraddistinguono le posizioni processuali delle parti nel giudizio civile. Una tematica, come e’ evidente, del tutto eccentrica rispetto alla azione penale, pubblica, obbligatoria ed a schema rigorosamente predefinito, cosi’ come altrettanto scandite dall’ordinamento positivo si rivelano le alternative decisorie che sono offerte al giudice. La assenza, dunque, di qualsiasi base normativa per poter configurare, non soltanto una generale categoria di sentenze penali sub condicione, quanto, nello specifico, una condanna “condizionata” alla eventuale, futura, domanda di oblazione, rende impraticabile la strada ermeneutica additata nelle richiamate pronunce; non senza rilevare, d’altra parte, come siano proprio gli esempi che vengono evocati a sostegno di quella tesi a dimostrarne la sostanziale impraticabilita’. Si richiamano, infatti, le ipotesi della sospensione condizionale della pena o della concessione dell’amnistia o dell’indulto subordinati all’adempimento di obblighi.
Ma e’ agevole osservare come gli istituti richiamati, specie la sospensione condizionale della pena, dimostrino la tassativita’ delle relative previsioni, in se’ derogatorie rispetto al principio della immediata esecutivita’ della sentenza di condanna irrevocabile, anche se a contenuto “parziale”: al punto che, come e’ noto, si ammette la immediata proponibilita’ del ricorso straordinario di cui all’articolo 625 bis c.p.p., anche da parte della persona condannata nei confronti della quale sia stata pronunciata sentenza di annullamento con rinvio limitatamente a profili che attengono alla determinazione del trattamento sanzionatorio (Sez. U., n. 28717 del 21/06/2012, Brunetto, ove si rievoca la nota tematica del giudicato cosiddetto progressivo) o da parte del condannato al solo risarcimento dei danni in favore della parte civile (Sez. U., n. 28719 del 21/06/2012, Marani).
Del pari, risulta inconferente equiparare la procedura oblativa a quella prevista per l’amnistia impropria o per l’indulto, nelle ipotesi in cui tali provvedimenti impongano adempimenti comportamentali, dal momento che quegli istituti, a differenza della oblazione che estingue il reato, operano come cause estintive della pena, presupponendo, dunque, per necessita’ di cose, un accertamento di colpevolezza.
Per altro verso, poiche’ la pronuncia modificativa del nomen iuris, ancorche’ “condizionata” quanto alla esecuzione, sarebbe pur sempre una sentenza di condanna, ove l’accertamento dei presupposti per la declaratoria di estinzione del reato fosse riservata al giudice della esecuzione, come le pronunce in questione suggeriscono, a quest’ultimo sarebbe affidato il compito di modificare la natura stessa della sentenza, dopo che questa e’ divenuta irrevocabile. Evenienza, questa, non soltanto non prevista e dunque non consentita, in quanto derogatoria rispetto alla ordinaria distribuzione delle attribuzioni tra giudizio di cognizione e fase esecutiva, ma che appare porsi al di fuori anche di una logica di economia processuale, imponendo una duplicazione di attivita’ – condanna e procedimento di oblazione – l’una antitetica rispetto all’altra. Cosicche’, e paradossalmente, un meccanismo di celere definizione della regiudicanda, quale l’oblazione, volta idealmente ad evitare il giudizio, finirebbe irrazionalmente per presupporlo.
2. L’orientamento privilegiato dalle Sezioni Unite nella richiamata sentenza Autolitano deve pertanto essere riaffermato, pur se con talune puntualizzazioni.
Merita, infatti di essere preliminarmente sottolineata la circostanza che lo specifico problema che viene qui in discorso finisce per iscriversi nel piu’ ampio e delicato contesto rappresentato dalle interferenze che scaturiscono dalle modifiche che puo’ subire l’imputazione nel corso del giudizio, rispetto alle scelte difensive: prime fra tutte quelle che, appunto, si collegano con le opzioni per i riti alternativi, fra i quali non puo’ non essere annoverato proprio il procedimento per oblazione.
Il tema ha, come e’ noto, rappresentato uno dei settori del nuovo processo sui quali si e’ maggiormente concentrata l’attenzione della giurisprudenza costituzionale, la quale, snodatasi attraverso percorsi evolutivi sempre piu’ attenti al soddisfacimento delle garanzie sostanziali, e’ giunta fino in tempi recentissimi (l’ultima pronuncia, in ordine di tempo, e’ la sentenza n. 184 del 2014, depositata il 25 giugno 2014) a colmare quelle lacune che il sistema – anche alla luce delle profonde modifiche subite nel tempo dal giudizio abbreviato – era venuto via via a profilare.
In via di prima approssimazione, puo’ infatti subito osservarsi come, per opinione corrente, uno degli aspetti che ha maggiormente caratterizzato il modello processuale adottato dal codice del 1988 e’ rappresentato proprio dalla relativa fluidita’ della imputazione, in stretta dipendenza con il radicale mutamento del rapporto tra fase dibattimentale e la fase delle indagini. Assegnata, infatti, alle indagini la semplice funzione preparatoria di consentire al pubblico ministero di assumere le proprie determinazioni in ordine all’esercizio della azione penale, ne e’ derivato che soltanto al dibattimento, come sede elettiva di formazione della prova, puo’ essere riservata la prerogativa di momento destinato alla progressiva configurazione degli esatti contorni del thema decidendum e di effettiva cristallizzazione della accusa. Se, dunque, e’ certamente presente nel sistema la necessita’ che con l’atto di esercizio della azione penale venga enunciata una precisa definizione della imputazione, dal momento che il diritto di difesa puo’ essere concretamente esercitato (anche in riferimento alle opzioni per i riti alternativi) soltanto se l’imputato sia messo in condizione di conoscere, in modo puntuale, gli addebiti che gli vengono mossi, e’ pero’ altrettanto vero che l’emersione in dibattimento di elementi modificativi dell’accusa originaria rappresenta, nel sistema vigente, una evenienza tutt’altro che eccezionale.
Mentre, dunque, il codice del 1930 – coerentemente con la scelta del consolidamento della accusa con la translatio iudicii – stabiliva uno sbarramento, in tema di mutatio libelli, con gli articoli 445 e 477, evocando epiloghi regressivi che invece il nuovo codice ha teso a scongiurare attraverso il meccanismo delle nuove contestazioni, le possibilita’ di “trasformazione” dibattimentale della accusa hanno finito per subire, nel sistema delineato dagli articoli 516 e seguenti, un sensibile incremento. Accanto, infatti, alla “contestazione sostitutiva,” con la quale l’imputazione viene modificata ove il fatto risulti diverso da quello contestato nel provvedimento che dispone il giudizio (articolo 516), si mantiene la possibilita’ della “contestazione suppletiva,” afferente il reato connesso o la circostanza aggravante (articolo 517) e si aggiunge, infine, la possibilita’ di operare – sia pure previo consenso dell’imputato – una “contestazione aggiuntiva,” ove a carico del medesimo risulti un fatto nuovo (articolo 518).
Tuttavia, a fronte di una cosi’ ampliata platea di situazioni legittimanti la modifica della imputazione nel corso del giudizio, la disciplina dettata dal vigente codice di rito non ha affatto preso in considerazione un forte elemento di torsione interna al sistema, costituita proprio dalle ricadute, in senso preclusivo, che dalle nuove contestazioni dibattimentali venivano a scaturire sul versante tanto dei riti alternativi a contenuto premiale, come il giudizio abbreviato e l’applicazione di pena su richiesta delle parti, quanto, ancor piu’, dei meccanismi di definizione anticipata del procedimento, come, appunto, l’oblazione. Riti e meccanismi che la stessa giurisprudenza costituzionale ha reiteratamente affermato costituire modalita’ di esercizio – e tra le piu’ qualificanti – del diritto di difesa (ex plurimis, Corte cost. sentenze n. 219 del 2004; n. 148 del 2004; n. 70 del 1996; n. 497 del 1995).
Da qui il contrapporsi di esigenze antitetiche, che naturalmente hanno influenzato le stesse soluzioni adottate dal giudice delle leggi: per un verso, quella di considerare rigidi e comunque non superabili i limiti di stadio processuale stabiliti per la formulazione della richiesta dei riti alternativi, ai fini della valorizzazione al massimo grado delle esigenze di economia processuale e di deflazione del carico dibattimentale, che costituiscono – come e’ noto – la ragion d’essere dei riti alternativi e dei benefici che, sul piano sanzionatorio, derivano dalla loro adozione; all’inverso, quella di modulare quei limiti in modo tale da consentire il possibile recupero di quelle forme speciali di giudizio, nella specifica ipotesi di modifica dibattimentale della imputazione, cosi’ da bilanciare le esigenze di economia processuale con quelle connesse al diritto di difesa, non sacrificabile unilateralmente sull’altare della deflazione.
Ebbene, il percorso seguito dalla giurisprudenza costituzionale, fu, come e’ noto, contrassegnato da una sorta di progressione verso la garanzia difensiva, attraverso ampliamenti sempre piu’ sensibili alla prospettiva di assicurare il possibile recupero “postumo” dei procedimenti speciali, in presenza di nuove contestazioni.
In una prima fase, infatti, la Corte costituzionale si era attestata su posizioni di netta chiusura, che privilegiavano le esigenze di economia processuale, tracciando un nesso di inscindibile collegamento tra il profilo della premialita’ dei riti con quello della deflazione. Si reputava, dunque, che l’interesse dell’imputato ai riti alternativi trovasse tutela solo in quanto la sua condotta consentisse la effettiva adozione della sequenza procedimentale che, evitando il dibattimento, permettesse di raggiungere l’obiettivo di una rapida definizione del processo (v., tra le altre, le sentenze n. 593 del 1990; n. 316 del 1992; n. 129 del 1993). La variazione della imputazione – come si e’ gia’ posto in luce – e’ infatti una eventualita’ non infrequente in un sistema processuale imperniato sulla formazione della prova in dibattimento, cosicche’ la stessa mutatio libelli costituisce un accidente non imprevedibile, con la conseguenza che il rischio della nuova contestazione in dibattimento rappresenta nulla piu’ che un elemento che rientra “naturalmente nel calcolo in base al quale l’imputato si determina a chiedere o meno tale rito, onde egli non ha che addebitare a se’ medesimo le conseguenze della propria scelta” (v. le gia’ citate sentenze n. 316 del 1992 e 129 del 1993).
Il rito alternativo finiva, quindi, in tale prospettiva, per costituire anche una garanzia di “cristallizzazione” della accusa, non piu’ emendabile (secondo la disciplina dell’epoca) dopo l’opzione per uno dei procedimenti a base premiale.
Un simile rigore ha pero’ poi ceduto il passo, dapprima ad un orientamento intermedio, teso a privilegiare i connotati “patologici” della contestazione dibattimentale, ove gli elementi relativi alla nuova contestazione fossero gia’ presenti negli atti delle indagini, e quindi la modifica della imputazione rappresentasse una ipotesi di contestazione “tardiva” frutto degli errori dello stesso pubblico ministero (v. le sentenze n. 265 del 1994 e n. 184 del 2014 in tema di patteggiamento e la sentenza n. 333 del 2009 in tema di giudizio abbreviato); fino a pervenire, successivamente, ad un diverso approdo ricostruttivo, teso a valorizzare il diritto ai riti alternativi attraverso il superamento del limite della “patologia”, nella consapevole constatazione per la quale “l’imputato che subisce una contestazione suppletiva dibattimentale viene a trovarsi in posizione diversa e deteriore – quanto alla facolta’ di accesso ai riti alternativi e alla fruizione della correlata diminuzione di pena – rispetto a chi, della stessa imputazione, fosse chiamato a rispondere fin dall’inizio”, (v. la sentenza n. 237 del 2012).
Una logica sostanzialmente autonoma (si veda, al riguardo, lo specifico distinguo operato nella citata sentenza n. 237 del 2012) ha invece ispirato l’unica pronuncia soffermatasi sul tema dei rapporti tra la modifica della imputazione e il procedimento di oblazione, vale a dire la sentenza n. 530 del 1995. Nel frangente, infatti, la Corte cost. ebbe a dichiarare la illegittimita’ costituzionale degli articoli 516 e 517 c.p.p., nella parte in cui non prevedevano la facolta’ dell’imputato di proporre domanda di oblazione relativamente al fatto diverso ed al reato concorrente: vale a dire – e tale aspetto assume risalto ineludibile agli effetti della odierna decisione – in riferimento ad una “novazione” totale del fatto oggetto del giudizio, essendo quello scaturito dalla contestazione dibattimentale diverso o nuovo rispetto al fatto dedotto nella originaria imputazione. Nella circostanza, la Corte sottolineo’ come l’istituto della oblazione si fondasse “sia sull’interesse dello Stato di definire con economia di tempo e di spese i procedimenti relativi ai reati di minore importanza, sia sull’interesse del contravventore di evitare l’ulteriore corso del procedimento e la eventuale condanna, con tutte le conseguenze di essa”. “Effetto tipico di tale forma di definizione anticipata del procedimento e’, infatti, la estinzione del reato, per cui appare del tutto evidente come la domanda di ammissione all’oblazione esprima una modalita’ di esercizio del diritto di difesa”. Nella ipotesi di specie, dunque, la preclusione dell’accesso all’oblazione risultava lesiva del diritto di difesa, perche’ priva di razionale giustificazione: l’avvenuto superamento del limite temporale previsto per la proposizione della domanda di oblazione, vale a dire l’apertura del dibattimento, non poteva infatti dirsi riconducibile ad una libera scelta dell’imputato, e cioe’ ad una inerzia allo stesso addebitabile, dal momento che la facolta’ di proporre quella domanda “non puo’ che sorgere nel momento in cui il reato stesso e’ oggetto di contestazione”. Ne’, d’altra parte – soggiunse la Corte – sussistevano ostacoli di ordine sistematico alla ammissione della oblazione nel corso del dibattimento, dal momento che lo stesso articolo 162 bis c.p., prevede, in riferimento alla oblazione speciale, che la domanda, gia’ rigettata, possa essere riproposta sino all’inizio della discussione finale del dibattimento di primo grado.
I dieta della Corte – che prescindevano da qualsiasi riferimento alla natura “fisiologica” o “patologica” delle nuove contestazioni – vennero, poi, come e’ noto recepiti dal legislatore con la Legge n. 479 del 1999, la quale ha aggiunto all’articolo 141 disp. att. c.p.p., il comma 4 bis, in forza del quale “in caso di modifica della originaria imputazione in altra per la quale sia ammissibile l’oblazione, l’imputato e’ rimesso in termini per chiedere la medesima”.
3. Ma se e’ ben vero che l’imputato “subisce” la modifica della imputazione, secondo le cadenze tracciate dall’articolo 516 e ss., in dipendenza da una scelta, per cosi’ dire “monologante,” del pubblico ministero, la quale, per di piu’, puo’ indifferentemente trarre origine da circostanze nuove emerse soltanto in dibattimento oppure dalla semplice rivalutazione delle emergenze gia’ scaturite dalle indagini (Sez. U., n. 4 del 28/10/1998, Barbagallo, Rv. 212757, nonche’, piu’ di recente, Sez. 6, n. 44980 del 22/09/2009, Naso, Rv. 245284), con la conseguenza che – al lume dei richiamati principi di rango costituzionale (e, come si dira’, anche convenzionale) – l’imputato stesso non puo’ non essere “restituito nel termine” per l’esercizio del diritto di chiedere l’oblazione in rapporto alla imputazione modificata, la situazione si presenta evidentemente diversa, ove il mutamento non coinvolga il fatto oggetto del giudizio, ma semplicemente la sua qualificazione giuridica, posto che tale ultimo profilo non e’ “patrimonio” del munus contestativo del pubblico ministero, ma tema di diritto, sul quale le parti – e il giudice – sono chiamati a misurarsi, nell’ambito e nel quadro di una prospettiva eminentemente dialettica.
Va infatti rammentato, al riguardo, che gia’ l’articolo 477, comma 1, del codice di rito del 1930, conferiva al giudice il compito di qualificare, senza vincoli di sorta, il fatto ricostruito durante il dibattimento, anche applicando una norma di diritto sostanziale diversa rispetto a quella indicata nella imputazione e mai prospettata all’imputato quale tema del giudizio, purche’ la sopravvenuta configurazione del titolo di reato non imponesse una declaratoria di incompetenza per materia o di difetto di giurisdizione: conferendo al giudice il potere di trarre, dal diverso nomen iuris, tutte le conseguenze del caso, ivi compresa quella di “infliggere le pene corrispondenti, quantunque piu’ gravi, e applicare le misure di sicurezza”.
Ebbene, tale scelta e’ stata, come e’ noto, mantenuta nel nuovo codice, ove si e’ dunque esclusa – come si puntualizza nella Relazione al Progetto preliminare – la necessita’ di “una correlazione obbligatoria fra la decisione sul tema giuridico dell’accusa e le conclusioni del pubblico ministero”; non senza, tuttavia, un esplicito riferimento ai possibili riflessi in tema di contraddittorio e di diritto di difesa. Nel corso dei lavori preparatori del codice, infatti, si rilevo’ come lo fus variandi in punto di qualificazione giuridica del fatto, potesse incidere in qualche misura con le esigenze della difesa, specie nelle ipotesi in cui la diversa qualificazione avesse comportato una pena piu’ grave. Si ritenne, pero’, di “confermare la regola tradizionale, considerato che le richieste del pubblico ministero, anche nel nuovo sistema, non sono vincolanti per il giudice, che puo’ pronunciare extra petita. In tale contesto’ – si osservo’ – le alternative avrebbero potuto essere una disciplina costruita in modo analogo a quella concernente la contestazione del fatto diverso (iniziativa del pubblico ministero, termine a difesa, eventuale trasmissione degli atti), ovvero la previsione di un dovere del giudice di rendere nota preventivamente la decisione di modificare la qualificazione giuridica, consentendo la discussione sul punto. Entrambi le soluzioni – si concluse nella circostanza – avrebbero pero’ comportato un dispendio di attivita’ probabilmente eccessivo, e il rischio, in pratica, di indurre il giudice a conformarsi in ogni caso al nomen iuris contestato” (v. la Relazione al progetto preliminare, p. 119).
La scelta del legislatore, come si osservera’, parzialmente da correggere alla luce della giurisprudenza della CEDU soffermatasi sul punto, e’ stata dunque quella di affidare al giudice il potere-dovere di verificare la correttezza della qualificazione giuridica del fatto contestato, nella logica consapevolezza, d’altra parte, che ove cosi’ non fosse stato, non potendosi concepire l’esercizio di un funzione giurisdizionale condizionata al mantenimento della “scelta” contestativa formulata dal pubblico ministero, l’unica alternativa possibile era quella di imporre un epilogo regressivo dell’intero procedimento, ove il giudice avesse ritenuto di dover qualificare il fatto diversamente da come enunciato nella translatio iudicii.
La garanzia del (circoscritto) perimetro applicativo del potere “qualificatorio” del giudice e’ comunque assicurata dal permanere della identita’ del fatto contestato rispetto a quello ritenuto in sentenza. Anche qui, per la verita’, le opzioni del legislatore si sono espresse per il mantenimento di una linea ispirata alla tradizione. La legge-delega n. 81 del 1987, infatti, pur avendo dedicato la direttiva 2/78 ai mutamenti del tema decisorio in dibattimento, conferendo al pubblico ministero il potere di “procedere alla modifica dell’imputazione” e di “formulare nuove contestazioni inerenti ai fatti oggetto del giudizio”, non si era fatta carico di fornire al legislatore delegato indicazioni esplicite relativamente alla attuazione del principio di necessaria correlazione tra la imputazione elevata e la sentenza. Un silenzio, questo, che ha consentito la reintroduzione della disciplina prevista dall’articolo 477, comma 2, del codice previgente, inserita, senza innovazioni sostanziali, sotto il titolo “correlazione tra accusa contestata e sentenza”, nell’articolo 521, comma 2, all’esplicito scopo di scongiurare il pericolo che, di fronte alla diversita’ del fatto, il giudice fosse costretto ad emettere una sentenza di proscioglimento, idonea a divenire irrevocabile e, in quanto tale, fonte di possibili preclusioni (v. la Relazione, cit.).
Il nucleo del potere di riqualificazione dell’addebito sta, dunque, tutto nella individuazione del fatto-storico che forma oggetto del thema decidendum, giacche’ e’ soltanto all’interno di quello stesso thema che puo’ estendersi la variazione del titolo di reato; pena, altrimenti, il superamento dell’invalicabile limite rappresentato dalla necessaria corrispondenza tra il “deciso” ed il “contestato”.
Ebbene, e’ noto, al riguardo, come la giurisprudenza delle Sezioni Unite abbia avuto modo di sottolineare, con riferimento al principio di correlazione fra imputazione contestata e sentenza, che, per aversi mutamento del fatto, occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo tale da pervenire ad una incertezza sull’oggetto della imputazione e da cui scaturisce un reale pregiudizio dei diritti della difesa. Consegue da cio’ che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio di cui si e’ detto, non va esaurita nel pedissequo e mero confronto letterale fra la contestazione e la sentenza, perche’, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione e’ del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione (Sez. U., n. 366551 del 15/07/2010, Carelli, Rv. 248051; Sez. U., n. 16 del 19/06/1996, Di Francesco, Rv. 205619; piu’ di recente e nel medesimo senso, Sez. 2, n. 34969 del 10/05/2013, Caterino, Rv. 257782; Sez. 6, n. 6346 del 09/11/2012, Domizi, Rv. 254888; Sez. 6, n. 29114, del 30/03/2012, Lorusso, Rv. 253225).
In tale prospettiva assume, quindi, portata dirimente un approccio “sostanzialistico” che tenga conto dell’analisi funzionale delle disposizioni coinvolte. Poiche’, dunque, le norme che disciplinano le nuove contestazioni, la modifica dell’imputazione e la correlazione tra imputazione contestata e sentenza hanno lo scopo di consentire la necessaria fluidita’ della accusa assicurando al tempo stesso il contraddittorio sul contenuto dell’accusa e, pertanto, il pieno esercizio del diritto di difesa dell’imputato, le stesse devono necessariamente essere interpretate in stretta aderenza alle finalita’ che nel sistema sono chiamate a perseguire, con la conseguenza che non possono ritenersi violate da qualsiasi modifica rispetto alla imputazione originaria, ma soltanto nel caso in cui la modifica dell’addebito pregiudichi la possibilita’ di difesa dell’imputato. In altri termini – si e’ sottolineato – poiche’ la notazione strutturale di “fatto”, contenuta nell’enunciato normativo, va coniugata con quella funzionale, fondata sull’esigenza di reprimere solo le effettive lesioni del diritto di difesa, il principio di necessaria correlazione tra accusa contestata – oggetto di un potere del pubblico ministero – e decisione giurisdizionale – oggetto del potere del giudice – risponde alla esigenza (ed in tal senso va commisurato) di evitare che l’imputato sia condannato per un fatto, inteso come episodio della vita, rispetto al quale non abbia potuto difendersi (Sez. 4, n. 41663 del 25/10/2005, Cannizzo, Rv. 232423).
4. A proposito, peraltro, dei rapporti (e delle possibili frizioni) che ineluttabilmente vengono a stabilirsi tra contestazione e diritto di difesa – rappresentando la prima il fisiologico “oggetto” del secondo – non puo’ non sottolinearsi come le modalita’ attraverso le quali puo’ esprimersi quel diritto sono indubbiamente le piu’ varie, e tra queste, come si e’ dianzi piu’ volte sottolineato, va annoverata anche la scelta dei riti alternativi, e, per quanto qui rileva, anche la possibilita’ di beneficiare del procedimento di oblazione. Ma si tratta di un diritto che, ferma restando la identificazione del fatto storico che viene addebitato – nella specie, e per quel che risulta dallo stesso capo di imputazione, aver realizzato un balcone, un vano ed una veranda in totale difformita’ del permesso di costruire – non puo’ non formare oggetto di una disamina “critica,” proprio in vista della correttezza o meno del nomen iuris a quel fatto attribuito dal pubblico ministero. Alla difesa come diritto, infatti, deve necessariamente riconnettersi anche – proprio sul versante dell’indispensabile contraddittorio fra le parti ed ai fini dei petita da rivolgere al giudice – uno specifico onere di interlocuzione su tutti i punti che costituiscono oggetto della devoluzione; e cio’ al fine di scongiurare l’insorgere di effetti preclusivi che il sistema e’ fisiologicamente chiamato a predisporre a salvaguardia dello stesso ordo iudiciorum.
In una prospettiva siffatta, nella ipotesi in cui l’imputato, a fronte di una contestazione “in forma chiara e precisa, del fatto, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare l’applicazione di misure di sicurezza, con l’indicazione dei relativi articoli di legge” (articolo 429 c.p.p., comma 1, lettera c), il tutto corroborato – ad ulteriore specificazione – dalla “indicazione delle fonti di prova e dei fatti cui esse si riferiscono” (lettera d della disposizione sopra richiamata), ometta di contestare la non pertinenza del nomen iuris alla fattispecie dedotta in rubrica, assumendo una posizione di nolo contendere su tale qualificante punto della futura decisione, nessun tipo di doglianza potra’ essere formulata – circa le preclusioni che ne possono essere derivate per i riti alternativi – ove il giudice, in sede di decisione, abbia ritenuto di dare a quel fatto una diversa qualificazione giuridica.
Va infatti condiviso l’orientamento secondo il quale la garanzia del contraddittorio in ordine alla diversa definizione giuridica del fatto deve ritenersi assicurata quando l’imputato abbia avuto modo di interloquire sul tema in una delle fasi del procedimento, qualunque sia la modalita’ con cui il contraddittorio e’ stato preservato (Sez. 2, n. 44615 del 12/07/2013, Paladini, Rv. n. 257750; nonche’, in senso analogo, Sez. 6, n. 49820 del 05/12/2013, Billizzi, Rv. 258138, e, in tema di misure di prevenzione, Sez. 6, n. 10148 del 04/10/2012, Pilato, Rv. 254409).
Al riguardo, non puo’ d’altra parte trascurarsi la circostanza che tra il diritto di interlocuzione delle parti, da un lato, e il potere decisorio del giudice, dall’altro, si stabilisce, agli effetti che qui interessano, un nesso di naturale interdipendenza del secondo dal primo, nel senso che se il giudice e’ libero di assegnare al fatto, ex officio, la qualificazione giuridica che ritenga corretta, lo stesso giudice e’ tenuto a scrutinare motivatamente la richiesta delle parti di procedere a nuova qualificazione del fatto. Il che sta quindi a significare che, ove le parti nulla abbiano domandato o eccepito in punto di nomen iuris, il diritto di difesa che quel tema coinvolge – e con esso il relativo (potenziale) contraddittorio sul punto – puo’ dirsi integralmente soddisfatto, con tutto cio’ che ne consegue sul piano dei diritti il cui esercizio si fondi proprio sulla correttezza di quella qualificazione.
Ove, quindi, la qualificazione del fatto integri un reato la cui pena edittale non consenta il procedimento per oblazione, e’ onere dell’imputato sindacare la correttezza della qualificazione stessa, investendo il giudice di una richiesta specifica con la quale formuli istanza di oblazione in riferimento alla qualificazione giuridica del fatto che ritenga corretta: in modo tale da permettere, all’esito del necessario contraddittorio, una decisione altrettanto specifica sul punto, con gli evidenti, naturali riverberi in sede di impugnazione.
Solo in presenza di una effettiva domanda di oblazione e’ infatti possibile soddisfare l’esigenza del contraddittorio e del rispetto delle regole sancite dal procedimento scandito dell’articolo 141 disp. att. c.p.p., con la conseguenza di permettere al pubblico ministero di interloquire e, al tempo stesso, investire formalmente il giudice della questione.
5. In tale cornice, risulta dunque non condivisibile l’assunto della Sezione rimettente secondo la quale, ove si dovesse accedere alla impostazione data alla questione dalla sentenza Autolitano, verrebbe “rimessa alla sola parte processuale pubblica una decisione che risulta decisiva per l’esperibilita’ della procedura di oblazione e che, in caso di mancata modifica della contestazione, verra’ successivamente smentita dal giudice”. L’unica preclusione che infatti sorgeva, in riferimento alla oblazione, a seguito della modifica della imputazione contestata in dibattimento dal pubblico ministero, e’ stata, come si e’ detto, rimossa, dapprima ad opera della sentenza n. 530 del 1995 della Corte cost. e, poi, dalla introduzione dell’articolo 141 disp. att. c.p.p., comma 4 bis. La diversa qualificazione giuridica del fatto, invece, e’, come gia’ si e’ osservato, fenomeno processuale profondamente diverso da quello (questo si’ devoluto alle scelte del pubblico ministero) della contestazione del fatto diverso, del reato concorrente o della circostanza aggravante o del fatto nuovo in dibattimento, giacche’ nulla impedisce alle parti di chiedere al giudice di procedere ad una diversa designazione del nomen iuris, senza che sia affidato al pubblico ministero alcun potere autonomamente modificativo, con effetti, per di piu’, preclusivi, come ipotizza la Sezione rimettente.
Ne’, allo stesso modo, pare corretto l’ulteriore assunto secondo il quale, sempre a parere della Sezione rimettente, non sarebbe legittimo “pretendere che l’imputato e la sua difesa tecnica prendano preventivamente in esame tutte le possibili qualificazioni del fatto diverse da quella oggetto della formale contestazione e avanzino prima delle conclusioni del pubblico ministero una richiesta di oblazione “condizionata” alla eventuale decisione”. Qui non si tratta, infatti, di “antevedere” le possibili scelte del giudice in ordine ad una eventuale riqualificazione del fatto: si tratta, piu’ semplicemente, di esercitare il proprio diritto ad una qualificazione giuridica corretta, con le conseguenze che da cio’ possono derivare proprio sul terreno della oblabilita’ del reato; un diritto che, come si e’ detto, rappresenta al tempo stesso un onere che, se non adempiuto, ben puo’ far insorgere la preclusione temporale connessa alla procedura di oblazione, quale istituto idealmente teso ad evitare, e non a seguire, gli esiti del dibattimento. Ove cosi’ non fosse, infatti, in presenza di una scorretta qualificazione giuridica del fatto, emergente gia’ all’atto del rinvio a giudizio e tale da precludergli formalmente l’accesso all’oblazione, l’imputato finirebbe paradossalmente per fruire di un singolare meccanismo di restituzione nel termine, che gli consentirebbe di beneficiare di tutto il dibattimento e regolarsi, all’esito delle sue risultanze, se domandare l’oblazione previa derubricazione del fatto.
Non risulta, infine, pertinente neppure l’ulteriore rilievo posto a fondamento della ordinanza di rimessione, secondo cui l’interpretazione fatta propria dalla sentenza Autolitano risulterebbe dissonante rispetto ai principi della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo per come interpretati dalla Corte EDU e, in particolare, con i principi dettati dall’articolo 6 della Convenzione, fissati con la sentenza 11/12/2007, Drassich c. Italia. In tale pronuncia, infatti, la Corte di Strasburgo ravviso’ la violazione dell’articolo 6, p. 1 e 3, lettera a) e c), della Convenzione, con riferimento ad una pronuncia della Corte di cassazione che, riqualificando direttamente in sentenza alcuni dei fatti ascritti all’imputato – ridefiniti da corruzione in corruzione in atti giudiziari -, aveva confermato la condanna pronunciata dal giudice di appello, invece di dichiarare la estinzione del reato per prescrizione. La Corte, in particolare, sottolineo’ come, al lume anche della propria giurisprudenza, ove i giudici di merito dispongano della possibilita’ di riqualificare i fatti per i quali sono stati regolarmente aditi, essi devono assicurarsi che gli imputati abbiano avuto l’opportunita’ di esercitare i loro diritti di difesa su questo punto in maniera concreta ed effettiva. Il che implica, soggiunse la Corte, “che essi vengano informati in tempo utile non solo del motivo dell’accusa, cioe’ dei fatti materiali che vengono loro attribuiti e sui quali si fonda l’accusa, ma anche, e in maniera dettagliata, della qualificazione giuridica data a tali fatti”.
Posto dunque che, nel frangente, la riqualificazione dei fatti non poteva dirsi “sufficientemente prevedibile”, e poiche’ la modifica dell’accusa aveva “influenzato la determinazione della pena pronunciata nei confronti del ricorrente”, la cui eccezione di prescrizione era stata rigettata proprio in ragione della nuova e piu’ severa qualificazione giuridica dei fatti, doveva reputarsi sussistente “una violazione del diritto del ricorrente ad essere informato in maniera dettagliata della natura e dei motivi dell’accusa formulata nei suoi confronti”.
Cio’ che dunque risalta nella decisione della Corte EDU, cosi’ come in altre occasioni in cui la medesima Corte ebbe ad affrontare il tema della modifica della imputazione (v. fra le altre, le sentenze 01/03/2001, Dallos c. Ungheria; 20/04/2006, I.H. c. Austria; 03/07/2006, Vesque c. Francia) e’ che la diversa qualificazione dei fatti ha assunto specifici connotati agli effetti del rispetto dei principi del giusto processo e della conoscenza della accusa, in tutti i casi in cui lo ius variandi riconosciuto da vari ordinamenti ai giudici si accompagni a modifiche le quali, per la loro natura, siano in grado di influire in peius sul trattamento dell’imputato. In tal modo coinvolgendo direttamente le facolta’ difensive, compromesse “inopinatamente” da un aggravamento del quadro dell’accusa.
Una prospettiva, dunque, del tutto diversa dalla ipotesi che viene qui in risalto, per la quale, vertendosi in tema di emendatici libelli migliorativa, la stessa poteva (e doveva) formare oggetto di una domanda – ai fini della attivazione del procedimento di oblazione – che l’imputato stesso – e la sua difesa tecnica – erano in grado di devolvere al giudice, senza la necessita’ di chiamare in causa una ipotetica “sufficiente prevedibilita’” della diversa qualificazione giuridica assegnata al fatto dal giudice nella sentenza di condanna.
6. Deve dunque conclusivamente enunciarsi il seguente principio di diritto: “Ove la contestazione elevata nei confronti dell’imputato faccia riferimento ad un reato per il quale non e’ consentita ne’ l’oblazione ordinaria di cui all’articolo 162 c.p., ne’ quella speciale di cui all’articolo 162 bis c.p., qualora l’imputato ritenga non corretta la relativa qualificazione giuridica del fatto e intenda sollecitare una diversa qualificazione che ammetta il procedimento di oblazione di cui all’articolo 141 disp. att. c.p.p., e’ onere dell’imputato stesso formulare istanza di ammissione all’oblazione in rapporto alla diversa qualificazione che contestualmente solleciti al giudice di definire, con la conseguenza che – in mancanza di tale richiesta – il diritto a fruire della oblazione stessa resta precluso ove il giudice provveda di ufficio, a norma dell’articolo 521 c.p.p., comma 1, ad assegnare al fatto la diversa qualificazione che consentirebbe l’applicazione del beneficio, con la sentenza che definisce il giudizio”.
7. Venendo all’esame del ricorso, va rilevato come lo stesso si limiti, in concreto, a sollecitare null’altro che una pronuncia “di mero principio”, dal momento che l’oggetto delle doglianze si concentra esclusivamente sulla mancata previsione di un meccanismo che consenta all’imputato di fruire della oblazione, ove a seguito di diversa qualificazione giuridica del fatto, il reato ritenuto in sentenza ammetta astrattamente la proponibilita’ della domanda di oblazione. Si tratta, quindi, di una censura meramente ipotetica, rispetto alla quale difetta qualsiasi concreto interesse, dal momento che in nessuna sede l’imputato ha formulato la relativa richiesta ne’ ha manifestato l’intenzione di avanzare la pertinente domanda. Con l’ovvia conseguenza che la pronuncia rescindente di questa Corte – che pure il ricorrente sollecita – risulterebbe nella specie priva di qualunque contenuto, dal momento che l’alternativa alla sentenza di condanna, vale a dire l’oblazione, non e’ neppure astrattamente ipotizzabile, proprio per l’assenza del relativo presupposto essenziale, rappresentato, appunto, dalla istanza dell’imputato.
8. Alla declaratoria di inammissibilita’ del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento alla cassa delle ammende di una somma che si stima equo determinare in mille euro, alla luce dei principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di euro mille in favore della cassa delle ammende.

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