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La massima

In tema  di ricettazione, al di fuori dei casi di dimostrazione della specifica consapevolezza della provenienza delittuosa, colui che riceve beni nell’ambito di un rapporto familiare o nell’ambito di rapporti obbligazionari (anche da obbligazioni naturali tutelate ai sensi dell’art. 2034 cod. civ.) con la consapevolezza non della illecita provenienza dei beni ma solo della qualità criminale del suo congiunto – debitore, che ne abbia il possesso, per ciò solo non può versare nella condizione di dolo eventuale di ricettazione. Ne consegue che laddove ricorra, difatti, una condizione di mero sospetto della provenienza delittuosa dei beni è escluso il dolo di ricettazione.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE VI

SENTENZA 30 luglio 2013, n. 33131

Ritenuto in fatto

1. La Corte di Appello di Milano, con sentenza del 29 maggio 2012, nel decidere sull’appello proposto da M.P. , V.M. , T.I. , S.L. , D.F.M. , Ca.Cl. , G.E. , Ba.Um. , B.G. e C.O. avverso la sentenza di condanna del 27 maggio 2011 del Tribunale di Milano, dichiarava prescritti parte dei reati contestati a B. e C. , confermando la loro condanna per il resto e rideterminando in conseguenza la pena, e confermava integralmente la condanna per tutti gli altri.

2. V. , S. , T. , D.F. venivano condannati per la importazione di un quantitativo complessivo di 15 kg di cocaina, di cui dovevano ricevere quote parte. Le prove a carico risultavano dalla attività di intercettazione e dalle connesse attività sul territorio con le quali veniva seguita l’operazione di acquisto e trasporto della droga dalla Spagna in Italia.

3. G. veniva condannato per aver commissionato al M. , uno degli organizzatori della citata operazione di importazione di droga, l’acquisto di una partita di g. 300 di cocaina. La prova nei suoi confronti risultava essenzialmente dalle conversazioni con il fornitore.

4. B. veniva condannato per una contestazione di riciclaggio continuato in quanto aveva collaborato con Ba.Um. ad occultare, mediante la attività economica di quest’ultimo, il provento del traffico di droga dei fratelli M. e, inoltre, effettuato attività di riciclaggio dei medesimi proventi attraverso l’esercizio abusivo del credito. Questi fatti erano accertati sulla base del tracciamento del flusso del denaro proveniente dai M. , in parte impiegato per prestiti anche a carattere usurario.

5. C. veniva condannata per ricettazione avendo ricevuto somme provento del traffico di droga in questione, in denaro liquido e titoli di credito, anche in questo caso con prova offerta dai movimenti finanziari in assenza di diverse disponibilità lecite. Il conto corrente utilizzato dalla donna risultava aperto dopo l’inizio della sua frequentazione con M.P. . Inoltre nei confronti della C. era disposta la confisca di vari beni in ragione della assenza di prova della disponibilità di adeguati redditi.

6. Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso V.M. , T.I. , D.F.M. , Ca.Cl. , G.E. , Ba.Um. , B.G. e C.O. .

7. Ricorso C.O. .

1. Con primo motivo deduce il vizio di motivazione per non essere stati adeguatamente valutati i motivi di appello con cui indicava nell’attività di prostituzione una adeguata fonte di reddito per giustificare la disponibilità di denaro e la esistenza di fondi già nel 1997, da ritenere di provenienza illecita in quanto versati sul conto corrente bancario. Si tratta, in particolare, di motivazione apparente mancando la confutazione delle prove offerte dalla difesa.

2. Con secondo motivo deduce la carenza di motivazione in ordine alla determinazione della pena, ricalcolata in sede di appello dopo la declaratorie di prescrizione di parte dei reati per i quali era intervenuta condanna |in primo grado, e comunque la violazione dell’articolo 597 comma 3 cod. proc. pen. per non essere stata diminuita la pena applicando le attenuanti generiche già riconosciute in primo grado.

3. Con terzo motivo chiede dichiararsi l’estinzione del reato contestato al capo M per la prescrizione maturata dopo la sentenza di appello.

4. Con quarto motivo deduce la mancanza di motivazione in ordine ai motivi di appello riferiti alla illegittimità della confisca. La Corte, in particolare, oltre a non valutare le prove indicate dalla ricorrente per dimostrare la fruizione di reddito, non ha spiegato perché ha confiscato anche dei beni relativi a reati dichiarati prescritti. La motivazione, difatti, consiste essenzialmente nella mera trascrizione della decisione di primo grado, senza alcuna vantazione critica.

8. Ricorso V.M. .

1. Con primo motivo deduce la violazione di legge penale ed il vizio di motivazione in quanto la sentenza, consistente nella mera adesione al contenuto della sentenza di primo grado, non ha adeguatamente motivato sulle contestazioni della difesa quanto alla consumazione del reato ascritto, non essendovi realizzate le condizioni minime di accordo con i presunti complici su quantità, qualità e prezzo della droga per ritenere la consumazione del reato pur senza effettiva cessione di alcuna sostanza.

2. Con secondo motivo deduce il vizio di motivazione in ordine agli elementi probatori a carico del V. . A tale fine espone le vantazioni delle prove di cui ai propri motivi di appello per giustificarne una lettura alternativa a quella data dalla Corte.

3. Con terzo motivo deduce il vizio di motivazione avendo erroneamente la Corte, pur in assenza di certezza sulla quantità di droga, escluso la ricorrenza dell’attenuante di cui all’art. 73 5 comma dpr 309/90 che, invece, doveva essere applicata in ragione del principio di favor rei.

4. Con quarto motivo deduce il vizio di motivazione in ordine alla applicazione della recidiva facoltativa e della negazione delle attenuanti generiche, esponendo gli errori di valutazione della Corte.

9. Ricorso S.L. .

1. Con primo motivo deduce il vizio di motivazione; richiamati i propri motivi di appello rileva la cattiva valutazione delle prove nella sentenza impugnata.

2. Con secondo motivo deduce il vizio di motivazione quanto alla sussistenza della aggravante della ingente quantità di droga attesa la assenza dj prova certa sulla qualità e quantità della sostanza e la erronea applicazione dei criteri giurisprudenziali per ritenere integrata l’aggravante.

10. Ricorso G.E. .

1. Con primo motivo eccepisce la violazione di legge ed il vizio di motivazione quanto al rigetto della richiesta di riapertura del dibattimento per ascoltare due imputati in reato connesso la cui dichiarazione appariva decisiva per confermare se vi fosse stato scambio di stupefacente con il G. .

2. Con secondo motivo rileva il vizio di motivazione non avendo la sentenza, essenzialmente motivata con il richiamo a quella di primo grado, risposto adeguatamente alla lettura alternativa degli elementi probatori prospettata con l’atto di appello, dando erroneamente per scontata la destinazione della droga ad uso di terzi omettendo quindi di individuare le necessarie prove al riguardo e senza valutare che, pur se fosse fondata la tesi per l’accordo per l’acquisto di droga, pagata ma non consegnata, sussisterebbe solo il tentativo del reato contestato.

11. Ricorso D.F.M. .

1. Con primo motivo deduce la illogicità della motivazione che ha ritenuto contraddittoria la tesi della difesa rispetto al materiale fotografico prodotto per dimostrare lo stato dei luoghi in cui sarebbe stato effettuato uno scambio di droga, stato incompatibile con la ricostruzione in fatto della sentenza di condanna.

2. Con secondo motivo deduce il vizio di motivazione quanto alla responsabilità del D.F. con riguardo alla compravendita di stupefacente conclusa da S. e T. con M. , rilevando la assenza di valutazione degli argomenti dell’appello che deducevano l’inadeguatezza della ricostruzione della responsabilità del ricorrente.

3. Con terzo motivo deduce il vizio di motivazione per essere stata ritenuta sussistere l’aggravante della ingente quantità pur in assenza di prova sulla quantità e qualità della sostanza, non individuata e sequestrata.

12. Ricorso B.G. .

1. Con unico motivo deduce la violazione di legge per non avere la Corte, nel rideterminare la pena dopo avere rilevato la prescrizione di parte delle contestazioni per le quali vi era stata condanna, motivato perché, esclusa la recidiva, avesse determinato la pena base in anni quattro e mesi otto di reclusione e non in anni quattro. Rileva, inoltre, la inadeguatezza della motivazione per giustificare la determinazione della pena.

13. Ricorso Ba.Um. .

1. con primo motivo deduce la violazione di legge per assenza dei decreti autorizzativi e di proroga delle intercettazioni telefoniche.

2. Con seconda motivo deduce il vizio di motivazione non essendovi stata adeguata risposta alle contestazioni contenute nei motivi di appello sia quanto alla interpretazione delle intercettazioni che quanto alla omessa vantazione delle interpretazioni alternative indicate dalla difesa.

3.Con terzo motivo deduce la violazione di legge per aver la Corte ritenuto la consapevolezza del ricorrente della provenienza delittuosa dei soldi ricevuti dal M. atteso che le modalità con le quali Ba. movimentava il denaro non erano compatibili con una attività finalizzata ad ostacolare l’individuazione della provenienza delittuosa.

14. Ricorso T.I. .

1. Con un unico motivo deduce la carenza e l’illogicità della motivazione e l’erronea applicazione della recidiva, ritenendo inadeguata la risposta ai motivi di appello; quindi ripercorre ampiamente il materiale probatorio per dimostrare varie incongruenze della tesi accusatoria.

2. Rileva in particolare l’errore nel ritenere conclusi gli accordi per l’acquisto di stupefacente in cui era coinvolto T. , nel ritenere la recidiva ai sensi dell’articolo 99 4 comma cod. pen. nonostante non vi fosse stata una precedente declaratoria di recidiva semplice e che, comunque, la recidiva non poteva ritenersi infraquinquennale; inoltre era erronea la applicazione della aggravante dell’ingente quantità di stupefacente, non potendosi attribuire al ricorrente la responsabilità per l’intera partita di 10 kg di droga ma, se del caso, solo per il terzo di tale quantità, corrispondente a quanto a lui destinato. Infine, rileva che manca una adeguata valutazione delle circostanze di fatto per la determinazione della pena e per escludere la ricorrenza della attenuante di cui all’articolo 114 codice penale.

Ritenuto in diritto

15. il ricorso di C.O. è fondato, il ricorso di B.G. deve essere accolto in punto di determinazione la pena, gli altri ricorsi sono infondati.

16. Il ricorso di C.O. è fondato.

17. Rileva difatti questa Corte che il fatto come accertato non costituisca reato. Il giudice di legittimità, può, difatti, anche di ufficio mutare la qualificazione giuridica del fatto traendone le conseguenze (Sez. 5, n. 23672 del 15/04/2004 – dep. 20/05/2004, Ribatti, Rv. 229033).

18. Le sentente di merito accertano, in fatto, quanto segue a carico della C. :

1.Secondo la contestazione, la ricorrente, tra il 1998 ed il 2004, “… riceveva continuativamente denaro e titoli di credito che sapeva essere proventi di…” riciclaggio e narcotraffico per una cifra non inferiore a Euro 188.000 circa.

2. La C. , in quel periodo, aveva una relazione sentimentale stabile con il trafficante di droga M. .

3. La C. aveva due conti correnti i cui flussi di denaro, relativamente ai titoli di credito, sono risultati provenire principalmente da B. – secondo i giudici di merito quest’ultimo era il gestore del patrimonio di M. – e Ba. ; quanto al denaro, vi era un rilevante bonifico iniziale che non poteva che provenire dal M. , atteso che la C. non aveva redditi propri.

4. La C. , utilizzando anche tale denaro, aveva effettuato investimenti immobiliari, in particolare comprando la propria abitazione. Risulta dalla sentenza impugnata che si trattava di un acquisto deciso dal M. .

19. Sulla base di tali circostanze, entrambe le sentenze di merito ritengono pacifico che la ricorrente fosse consapevole della provenienza delittuosa del denaro e perciò ricorresse il dolo del reato di ricettazione; ma, poiché non vi è motivazione specifica sul dolo, si comprende come l’elemento soggettivo sia stato ritenuto evidente poiché la donna ben sapeva chi fosse, nel contesto criminale, il suo compagno.

20. Ai fini della decisione non sarà oggetto di valutazione la deduzione della C. laddove sostiene l’errore dei giudici di merito che non hanno tenuto conto che la stessa svolgeva attività di prostituzione prima del periodo in esame e che così aveva creato la provvista di denaro poi bonificata da altro conto su uno dei nuovi conti correnti a lei intestati, oggetto di indagine. Anche laddove tale circostanza fosse fondata, poiché comunque non potrebbe giustificare la disponibilità dell’intera somma transitata sui conti correnti, in ogni caso il reato sussisterebbe seppure per una cifra minore. Pertanto è prevalente l’argomento sulla qualificazione della condotta accertata.

21. Così chiarita la ricostruzione della vicenda, dando quindi atto che non vi è una specifica (motivazione sulla) prova della reale consapevolezza della ricorrente della provenienza del denaro, essendosi ritenuta prova sufficiente della ricettazione il semplice fatto che il denaro provenisse dal compagno, narcotrafficante, i problemi che si pongono, e la cui soluzione fa escludere la configurabilità del reato contestato, sono i seguenti:

22. il primo riguarda la sussistenza di un dolo eventuale di ricettazione; in assenza di prova diretta della consapevolezza e, comunque, in presenza di flussi di denaro – e non di oggetti specifici provento di reato la cui stessa apparenza possa già dimostrare la probabile provenienza delittuosa – evidentemente le sentenze hanno implicitamente ritenuto che si trattasse, appunto, di tale forma di dolo (anche se, si ripete, nelle sentenze non si fa alcun riferimento specifico, cosa peraltro comprensibile alla luce dell’impostazione data dai giudici di merito).

23. Il secondo riguarda come possa configurarsi – al di fuori dei casi di effettiva consapevolezza e quindi di dolo intenzionale di ricettazione – la condotta di chi riceve nell’ambito di un rapporto (anche se di fatto) familiare beni che rappresentano il profitto di reati quando tale stessa condotta, nel contempo, consista anche nel ricevere una prestazione dovutagli nell’ambito degli obblighi di assistenza reciproca. Difatti, nel caso della C. , il flusso di denaro dall’uno all’altro soggetto della coppia appare corrispondere alla messa a disposizione di quanto necessario alla convivenza della famiglia; e che la donna fosse l’esclusiva titolare dei conti è ipotesi assolutamente ordinaria nella comune gestione dei beni familiari. Anche l’acquisto dell’abitazione a nome della C. , ma con provvista fornita dal convivente, alla stregua della ricostruzione in fatto dei giudici di merito, trova la sua causa in una donazione indiretta nel contesto di un nucleo familiare (o assimilabile).

24. Questo secondo tema è posto in modo ben evidente da una non recente decisione che, in termini generali, poneva il problema della cessione di cose, soprattutto denaro, di illecita provenienza nell’ambito di qualsiasi rapporto di obbligazione, sia esso civile che naturale, comunque riconosciuto e tutelato dall’ordinamento; la cessione di beni, difatti, in questi casi rappresenta (anche e soprattutto) l’adempimento di tali obbligazioni;

25. La sussistenza del delitto di ricettazione, di cui all’art. 648 cod. pen., deve essere esclusa nell’ipotesi della persona convivente more uxorio – o che abbia rapporti intimi continuati – la quale riceva dal reo il denaro o la cosa. Ciò perché tale fatto costituisce una donazione che trova la sua causa nei rapporti erotico-sentimentali tra i due, non diversamente da quanto accade nei rapporti di coniugi o familiari ed in ogni altro caso in cui la dazione costituisca una controprestazione per l’adempimento di obbligazioni giuridiche e naturali. In tale ipotesi manca il dolo specifico del delitto di ricettazione, in quanto il recettore del denaro o delle cose di provenienza delittuosa non riceve le stesse per procurare a sé un profitto, ma quale corrispettivo giustificato dalle sue qualità personali o da rapporti interpersonali con il reo in relazione a prestazioni d’opera, di servizi o di beni di consumo a favore del reo stesso, (ad esempio coniuge e figli dell’affiliato alla mafia, alla camorra ecc.; avvocati difensori di imputati inequivocabilmente dediti solo al delitto; fornitori degli stessi individui per le merci loro consegnate). Sez. VI, Sent. 177 del 27/9/1984 (dep. 10/01/1985) Rv. 167313 – Tana.

26. La soluzione adottata, si legge, era quella di escludere che l’azione che abbia una sua causa specifica e tutelata (l’adempimento cui si ha diritto) possa nel contempo avere una causa illecita consistente nella finalità di trarre profitto dalla provenienza delittuosa della cosa.

27. Si anticipa, per una più chiara comprensione dello svolgimento degli argomenti che seguono, che, ai fini di definire la posizione della C. , si ritiene di poter giungere ad una soluzione sostanzialmente conforme alla sentenza ora richiamata, individuando l’ambito nel quale il comportamento di chi riceve una prestazione nel contesto di un lecito rapporto obbligazionario, con mezzi (in particolare denaro liquido o valori equivalenti) regolari, non possa costituire il reato di ricettazione.

28. A questa conclusione si giunge con due diversi passaggi: innanzitutto valutando la consapevolezza o meno della provenienza illecita di quanto corrisposto, nel primo caso non ponendosi alcun problema a configurare il reato di ricettazione; e, poi, individuando le condizioni in cui, al di fuori della piena consapevolezza, la sussistenza di una causa lecita della prestazione escluda la possibilità di configurare il fine di profitto di cui all’art. 648 cod. pen..

29. Vanno quindi subito chiarite le ragioni per le quali non vi è alcuna difficoltà a configurare quale reato l’ipotesi in cui la parte abbia la chiara conoscenza della provenienza delittuosa del bene.

30. Anche in questo caso è possibile valutare una remota decisione:

31. La sussistenza del reato di ricettazione non è esclusa dalla circostanza che l’agente abbia ricevuto il denaro o la cosa, di cui conosce la provenienza delittuosa, a titolo di prestazione o controprestazione nell’ambito di un rapporto giuridico sinallagmatico. (la cassazione ha, a tal fine, chiarito che la previsione normativa del reato di ricettazione non richiede – a differenza di quella del reato di truffa – che il profitto perseguito dall’agente sia ingiusto). Sez. 1, Sentenza n. 6695 del 7/3/1979 (dep. 20/07/1979 ) Rv. 142633 – Ledita.

32. Laddove vi sia adempimento di una obbligazione mediante consegna di cosa di cui è ben chiara al ricevente la provenienza delittuosa, ricorre il reato di ricettazione; il fatto che la cessione del bene venga fatta in occasione di un adempimento dell’obbligazione, e che il creditore abbia di mira l’ottenere ciò che gli spetta, non ha certo efficacia scriminante e ricorre comunque il dolo intenzionale di trarre profitto dalla provenienza delittuosa – ancorché l’azione sia finalizzata anche al ricevere la prestazione dovuta. In questi termini, non vi è contrasto tra le due decisioni che risultano, anzi, complementari.

33. Del resto, anche a fronte di un lecito rapporto fonte di obbligazioni (che sia il rapporto tra i congiunti o un contratto di prestazione d’opera o di vendita, come è il caso del difensore o del commerciante), in caso di consapevolezza della provenienza delittuosa, la consegna del bene non avrà effetto di regolare adempimento; vi si oppone l’art. 1153 cod. civ., che non consente il regolare passaggio del possesso quando chi riceve sa che chi consegna non è il titolare del diritto e, peraltro, la prestazione, pur nell’ambito di un rapporto lecito, sarebbe caratterizzata da una causa illecita comune ad entrambe le parti. Tali affermazioni, poi, sono valide fondamentalmente solo per la piena consapevolezza della provenienza illecita atteso che la previsione dell’art. 1147 cod. civ., che prevede la presunzione di buona fede da parte di chi acquista a non domino, fa diversamente opinare nei casi di cui appresso, di mero sospetto e dubbio sulla provenienza; anche in quest’ultimo caso, qualificabile sul piano civilistico quale colpa grave (che esclude la buona fede), vale comunque la necessità di dimostrare che vi sia stata mala fede, potendosi superare la citata presunzione solo con elementi positivi.

34. Questa, quindi, è la soluzione del caso di piena consapevolezza della provenienza delittuosa, sul quale non si tornerà non riguardando il caso in esame.

35. Venendo invece al caso qui di interesse, il primo profilo da valutare riguarda come si atteggi nel reato di ricettazione il dolo eventuale. La questione, oggetto in passato di decisioni di diverso segno, ha avuto un definitivo chiarimento con la sentenza Sez. U, n. 12433 del 26/11/2009 – dep. 30/03/2010, Nocera, che affrontava espressamente il tema della configurabilità del dolo eventuale nel reato di ricettazione. Le SS.UU., nel ritenere che fosse pacificamente configurabile l’ipotesi del dolo eventuale, chiarivano però che andava distinto il caso in cui il soggetto agente si sia comunque rappresentata la possibile provenienza delittuosa dal caso nel quale, invece, abbia un mero sospetto.

36. La affermazione, pur se è in parte collegata più in particolare al tema della distinzione del delitto di ricettazione dalla contravvenzione di cui all’articolo 712 cod. pen., è certamente valida in termini generali:

37. “Occorrono per la ricettazione circostanze più consistenti di quelle che danno semplicemente motivo di sospettare che la cosa provenga da delitto, sicché un ragionevole convincimento che l’agente ha consapevolmente accettato il rischio della provenienza delittuosa può trarsi solo dalla presenza di dati di fatto inequivoci, che rendano palese la concreta possibilità di una tale provenienza. In termini soggettivi ciò vuoi dire che il dolo eventuale nella ricettazione richiede un atteggiamento psicologico che, pur non attingendo il livello della certezza, si colloca su un gradino immediatamente più alto di quello del mero sospetto, configurandosi in termini di rappresentazione da parte dell’agente della concreta possibilità della provenienza della cosa da delitto.

38. Insomma perché possa ravvisarsi il dolo eventuale si richiede più di un semplice motivo di sospetto, rispetto al quale l’agente potrebbe avere un atteggiamento psicologico di disattenzione, di noncuranza o di mero disinteresse; è necessaria una situazione fattuale di significato inequivoco, che impone all’agente una scelta consapevole tra l’agire, accettando l’eventualità di commettere una ricettazione, e il non agire, perciò, richiamando un criterio elaborato in dottrina per descrivere il dolo eventuale, può ragionevolmente concludersi che questo rispetto alla ricettazione è ravvisabile quando l’agente, rappresentandosi l’eventualità della provenienza delittuosa della cosa, non avrebbe agito diversamente anche se di tale provenienza avesse avuta la certezza”.

39. Quello che è ben chiaro laddove si pone il più semplice caso del singolo bene, chiaramente individuato e non fungibile, direttamente provento di reato (può il bene stesso, nella sua apparenza o in relazione alle condizioni personali di chi lo detiene, essere un chiaro segno per chi lo riceve della provenienza irregolare), è ancora più chiaro laddove si discuta di denaro. In questo ultimo caso, difatti, non potrà essere la cosa in sé a giustificare un serio dubbio di provenienza delittuosa ed è certamente più difficile distinguere tra il caso del semplice sospetto e quello in cui la parte abbia consapevolmente e ragionevolmente ritenuto probabile la provenienza delittuosa.

40. Invero anche in questo caso vi sono alcune ipotesi tipiche in cui la parte ha la certa consapevolezza della provenienza del denaro. Nella casistica giudiziaria ricorre l’ipotesi in cui la organizzazione criminale fornisca una retribuzione a soggetti diversi dagli affiliati, ad esempio i congiunti dell’affiliato detenuto o, come nel caso che segue, l’ex associato detenuto: Integra il delitto di ricettazione aggravata dalla finalità di agevolazione dell’associazione di tipo mafioso la percezione, da parte di ex associato in stato di detenzione, di un assegno mensile da parte del sodalizio criminale, al quale apparteneva, contribuendo tale condotta a rafforzarne la vitalità e a favorirne il perseguimento degli scopi illeciti. (Fattispecie in tema di procedimento “de libertate”, nella quale il ricorrente aveva lamentato la contraddittorietà della decisione impugnata, in quanto da un lato aveva escluso la permanenza del vincolo associativo e dall’altro aveva ritenuto tale esclusione compatibile con l’aggravante mafiosa). Conf, sez. I, 18 febbraio 2009 n. 13578, Autiero, non massimata (Sez. 1, n. 17524 del 26/02/2009 – dep. 24/04/2009, Mezzero, Rv. 243558). In un caso del genere non vi è un problema di dolo eventuale in quanto la parte sa di ricevere una quota dei proventi della attività dell’associazione criminale. Ma, in realtà, tale ipotesi è comunque al di fuori del tema in esame perché appare difficile configurare il rapporto indicato nella massima come valida obbligazione, dovendo invece affermarsi che la stessa abbia una causa illecita comune ad entrambe le parti; non vi è motivo di ulteriore approfondimento di una tale situazione, essendo un caso al di fuori di quanto di interesse in questa sede (lo si cita, però, per escludere confusione trattandosi di una ipotesi ricorrente nella casistica giudiziaria) anche perché, nel caso di “trattamento previdenziale” in favore della famiglia dell’affiliato detenuto, il soggetto che fornisce la prestazione non è affatto colui che ha una obbligazione civile o, comunque, naturale nei confronti di chi riceve la prestazione.

41. Restando invece nell’ambito qui di interesse, dai principi affermati dalle Sezioni Unite consegue che non è sufficiente affermare che il soggetto che riceve una prestazione da parte di chi sa essere stabilmente dedito ad attività criminali – e di questo viva – debba essere ritenuto consapevole, quantomeno a titolo di dolo eventuale, di commettere ricettazione.

42. Deve, invece, esservi certezza che non vi sia da parte sua solo un mero e generico sospetto ma che sia consapevole di una seria possibilità di provenienza delittuosa ponendosi in conseguenza davanti alla scelta tra accettare il bene, in tal caso potendo rispondere di ricettazione, o rinunciare.

43. A tal punto si possono calare queste regole nella certamente non infrequente ipotesi in cui il soggetto che riceve il provento di attività delittuose lo riceve a titolo di adempimento di una valida obbligazione.

44. I casi di interesse sono proprio quelli citati dalla sentenza 177/1984: il caso della cessione di beni di provenienza delittuosa nell’ambito ed a causa dei rapporti tra familiari, la cessione di bene di illecita provenienza a soggetti con i quali il soggetto criminale abbia comuni scambi di prestazioni per acquisto di beni o servizi, tra cui- caso di facile prospettazione, proprio perché si discute di soggetti stabilmente dediti ad attività criminale – i rapporti con il difensore. In quest’ultimo caso,) difatti, come per il coniuge/convivente, non si porrebbe neanche il problema di accertare la consapevolezza del creditore che il suo debitore vive di attività illecite.

45. Ma, proprio in riferimento al caso del rapporto economico tra soggetto sottoposto a processo penale ed il suo difensore, vi è un riferimento normativo che dimostra come non sia affatto sostenibile la regola per la quale colui che riceve pagamenti da parte di un soggetto che è notoriamente dedito al crimine sia per ciò solo, per tale inevitabile sospetto, responsabile di ricettazione commessa con dolo eventuale.

46. La disposizione utile è nel T.U. spese di giustizia che prevede l’ammissione al patrocinio anche per soggetti che siano responsabili di reati di criminalità organizzata (e quindi anche ai criminali per unica “professione”), disponendo, però, un più attento esame della loro effettiva impossidenza. E questo proprio perché, indiscutibilmente, la norma ipotizza la disponibilità di redditi di provenienza illecita che la parte può e deve utilizzare per la propria difesa. La regola è ancor più chiara nelle concrete applicazioni della giurisprudenza di legittimità che ritiene che vadano computati, nel definire la disponibilità di reddito, anche quei redditi che derivino da reati. “In tema di gratuito patrocinio, ai fini dell’accertamento dei redditi derivanti da attività illecite, è legittimo il ricorso agli ordinari mezzi di prova – ivi comprese le presunzioni disciplinate dall’art. 2729 cod. civ. – tra le quali rientrano il tenore di vita dell’interessato e dei familiari conviventi, come pure qualunque altro fatto che riveli la percezione, lecita o illecita, di reddito. (Nella fattispecie la Corte ha dato rilievo alla partecipazione, accertata con sentenza definitiva, dell’istante ad un’associazione criminale dedita al commercio di stupefacenti). (Sez. 4, n. 25044 del 11/04/2007 – dep. 28/06/2007, Salvemini e altri, Rv. 237008)”.

47. La disposizione, insomma, prevede che il soggetto che disponga di reddito adeguato, seppure di provenienza illecita, debba utilizzarlo per pagarsi la difesa. È ovvio che in questo modo la norma esclude che il solo ragionevole sospetto della provenienza illecita delle disponibilità economiche del soggetto criminale faccia ritenere integrato il reato di ricettazione da parte del difensore che riceve in pagamento somme che da tali disponibilità provengano; in caso contrario la disposizione in questione avrebbe dovuto essere ben diversamente formulata, sul presupposto che proprio il soggetto con disponibilità illecite non sia in grado di pagare il difensore con denaro di provenienza lecita e debba, quindi, fruire del patrocinio gratuito.

48. Quanto affermato ovviamente vale anche negli altri citati rapporti (tra cui quello tra C. e M. ) nei quali vi sia un soggetto che riceve denaro od altra utilità nell’ambito di un rapporto di obbligazione, in particolare i familiari o, per i soggetti di notoria caratura criminale nella propria area territoriale, perfino i fornitori etc.. A ritenere diversamente, si avrebbero casi grotteschi; tra gli altri, il commerciante che conosce genericamente la caratura criminale e la fonte di reddito (presumibilmente illecita) di un suo cliente dovrebbe rifiutare di vendergli i beni, ma non avrebbe una oggettiva giustificazione perché, quale pubblico esercizio, possa rifiutare una transazione commerciale (non potrebbe certamente addurre la generica notorietà criminale del cliente).

49. La conclusione si trae dal fatto che nel delitto di ricettazione il dolo eventuale deve essere inteso come ritenuto dalle Sezioni Unite, ovvero vi deve essere una seria prospettazione della provenienza delittuosa dei beni, ben potendo esservi invece un ambito, non punibile quale ricettazione, in cui il soggetto possa avere un mero sospetto.

50. In due modi, quindi, va esclusa la configurabilità, senza la prova della consapevolezza piena, della ricettazione quando i beni vengano ricevuti dal soggetto che può vantare un diritto ad una prestazione.

51. Innanzitutto la circostanza che, soprattutto quando si tratti di denaro, la possibile ragione di sospetto non derivi dalla cosa in sé bensì dalla qualità soggettiva di chi lo possiede, dimostra che si è in presenza di un mero sospetto. Il fatto che un soggetto disponga di beni non corrispondenti alle sue attività illecite non è il reato in sé ma è la possibile, e tipica, prova del dato tipo di reato.

52. A ben vedere, quindi, ciò che si afferma nei confronti del soggetto che riceve a titolo di obbligazione beni o pagamenti da chi gli è noto quale dedito a traffici criminali, non è che costui non possa non ritenere la provenienza delittuosa della cosa; si afferma, invece, che egli sappia che il debitore/congiunto sia dedito a traffici illeciti e, in conseguenza, si rappresenti come questa condizione soggettiva sia prova indiziaria che i beni di cui il debitore dispone siano di provenienza, diretta o mediata, illecita.

53. Quindi in un tale caso la “eventualità” del dolo non avrebbe tanto riferimento alla ricettazione in sé, riguardando la possibile provenienza del bene da delitto o meno; avrebbe invece riferimento alla possibilità che il soggetto criminale per professione possa essersi procacciato i beni che usa per adempiere alle sue obbligazioni con l’attività delittuosa o in via lecita.

54. Perché, quindi, si possa giungere a affermare che il soggetto non avesse soltanto il sospetto ma si fosse rappresentato la ragionevole probabilità della provenienza illecita del denaro corrispostogli, (a parte il caso della acquisizione di diverse e dirette prove di tale consapevolezza) si dovrebbe ritenere che egli abbia specificatamente valutato la situazione. Il che, nell’ambito del tipo di rapporti di cui si discute, significherebbe porre una sorta di obbligo di controllo sul familiare-cliente etc..

55. E solo ritenuto che un tale controllo vi sia stato, si potrà affermare che vi sia un apprezzabile grado di consapevolezza della provenienza delittuosa e che l’azione del soggetto non fosse mirata alla ricezione della prestazione cui si aveva diritto bensì al conseguimento del profitto illecito in ragione della provenienza delittuosa del bene.

56. Ma le circostanze complessive di tali rapporti rendono insostenibile una tesi per cui ai soggetti in questione sia imposto una sorta di inesigibile obbligo di controllo positivo sulla provenienza dei beni di cui dispone il proprio congiunto/cliente etc..

57. Si può in conclusione affermare che, al di fuori dei casi di dimostrazione della specifica consapevolezza della provenienza delittuosa, colui che riceve beni nell’ambito di un rapporto familiare o nell’ambito di rapporti obbligazionari (anche da obbligazioni naturali tutelate ai sensi dell’art. 2034 cod. civ.) con la consapevolezza non della illecita provenienza dei beni ma solo della qualità criminale del suo congiunto – debitore che ne abbia il possesso, per ciò solo non possa versare nella condizione di dolo eventuale di ricettazione. Ricorre, difatti, una condizione di mero sospetto che esclude il dolo di ricettazione secondo la giurisprudenza sopra richiamata.

58. Una volta distinte le due situazioni consistenti l’una nella piena consapevolezza della provenienza illecita e, quindi, nel dolo diretto della ricettazione, e l’altra nel dubbio su tale provenienza e, quindi, nel dolo eventuale alle condizioni indicate dalla citata sentenza delle SS.UU., va affrontato il tema ulteriore del dolo specifico di trarre profitto dal ricevimento della cosa proveniente da reato. In un caso nel quale la ricezione della cosa (e, soprattutto, laddove si tratti di denaro) rappresenti per il creditore la prestazione in suo favore che gli è dovuta, in presenza di una causa legittima dell’adempimento non appare sostenibile la configurabilità di un dolo specifico di profitto.

59. Tale affermazione è conseguenza del fatto che in tali rapporti il soggetto ha un giusto titolo per la ricezione della prestazione in denaro ad altri beni e su questa ricezione è mirata la volontarietà della sua azione; in assenza di circostanze significative, non è ravvisarle il dolo, neanche indiretto, di trarre profitto dalla cosa in ragione della sua provenienza illecita.

60. Per chiarire questo punto va brevemente approfondito il tema del dolo specifico in relazione al fine di profitto.

61. Innanzitutto non è rilevante distinguere se si discuta di profitto giusto od ingiusto perché quest’ultimo, quando previsto, è condizione che deriva dalla condotta costituente reato (si pensi alla distinzione tra estorsione ovvero esercizio arbitrario delle proprie ragioni, ove i rapporti tra le parti, nel secondo caso, caratterizzano oggettivamente la fattispecie) e non certo da rapporti personali tra le due parti di un reato di ricettazione laddove tali rapporti sono solo un’evenienza casuale.

62. Nel reato di ricettazione il profitto è stato indicato quale essenzialmente “patrimoniale”; in tale modo si è individuato proprio nel profitto, piuttosto che nella natura del reato presupposto, la ragione di inserimento della ricettazione nell’ambito dei delitti contro il patrimonio: si legge nel testo di Sez. U, Sentenza n. 23427 del 2001 (…. il legislatore, nel sanzionare ex art. 648 c.p. l’acquisto o la ricezione di cose “provenienti da qualsiasi delitto” ovvero l’intromissione in simili attività, ha inteso colpire ogni acquisizione patrimoniale consapevolmente ottenuta o procurata in virtù di beni aventi origine delittuosa; in codesta visione e considerato altresì il fine di profitto nel quale si concreta il richiesto dolo specifico (“fine di procurare a se o ad altri un profitto”), trova spiegazione l’inserimento della figura tra i reati contro il patrimonio, dovendosi al contempo riconoscere che la condotta tipica è idonea a rafforzare l’offesa arrecata con il fatto criminoso presupposto). Il tema in tale sentenza non era, comunque, particolarmente approfondito non costituendo il punto centrale della decisione.

63. È allora utile far riferimento ad altri casi in cui la giurisprudenza di questa Corte è giunta ad affermare una nozione non solo strettamente patrimoniale di profitto:

64. Ai fini della sussistenza del delitto di ricettazione, la ricezione, che ne è l’elemento materiale, è comprensiva di qualsiasi conseguimento di possesso della cosa proveniente da reato e, quindi, vi rientra anche il possesso per “mero titolo di compiacenza”. Quanto al profitto, è sufficiente qualsiasi utilità o vantaggio derivante dal possesso della cosa (nella specie possibilità di utilizzare una patente di guida falsificata), né si esige che l’agente abbia effettivamente conseguito il profitto avuto di mira, poiché l’incriminazione in esame tende ad impedire che soggetti diversi da coloro che hanno commesso un delitto appaiano interessati alle cose provenienti da esso, al fine di trame un vantaggio anche temporaneo. Ciò per evitare la dispersione delle cose di provenienza delittuosa e la conseguente difficoltà di recupero, che rappresentano maggiori pregiudizi per la vittima del reato. (Conf mass n 150866; (Conf mass n. 140228; (Conf mass n 113288). (Sez. 1, n. 8245 dei 11/05/1987 – dep. 08/07/1987, PIGA, Rv. 176392).

65. Ai fini della configurabilità del reato di furto (art. 624 cod. pen.) il fine di profitto – nel quale si concreta il dolo specifico – non ha necessario riferimento alla volontà di trarre un’utilità patrimoniale dal bene sottratto, ma può anche consistere nel soddisfacimento di un bisogno psichico e rispondere quindi a una finalità di dispetto, ritorsione o vendetta. (Sez. 5, n. 19882 del 16/02/2012 – dep. 24/05/2012, Aglietta, Rv. 252679).

66. Per la configurabilità del delitto di furto e quindi del delitto di rapina, di cui il furto costituisce una componente essenziale, non si richiede lo scopo dell’agente di procurare a se o ad altri un profitto di natura economica, ma e al contrario sufficiente che il colpevole abbia operato per il soddisfacimento di qualsiasi fine o bisogno, anche di carattere psichico, e quindi pure per uno scopo di ritorsione o di vendetta, (fattispecie in cui nel ricorso si era prospettata la tesi che si trattasse di violenza privata e non di rapina, avendo i colpevoli agito a scopo di rappresaglia). (Conf mass n. 139694; (Conf mass n 131671; (Conf mass n. 118106; (Conf mass n. 110981). (Sez. 1, n. 10270 del 25/06/1980 – dep. 09/10/1980, Lucchetti, Rv. 146166).

67. Quindi il reato di ricettazione si caratterizza per una condotta motivata dal dolo specifico di trarre profitto dalla cosa provento di reato, laddove si deve fare riferimento ad una nozione ampia di profitto, corrispondente ad una qualsiasi utilità per la parte.

68. Invece, quando la parte si limita a ricevere la prestazione cui ha diritto nell’ambito di un ordinario rapporto rilevante sul piano civilistico e la finalità della sua azione è esattamente ricevere quanto gli spetta, la sua condotta non è affatto caratterizzata dal dolo specifico di ricettazione. Questo, si ripete, vale solo al di fuori delle ipotesi di piena consapevolezza della provenienza delittuosa del bene, caso nel quale, invece, vi è di fatto una doppia condotta, da un lato la consapevole e volontaria ricezione del provento di un reato e, dall’altra, la accettazione della prestazione dovuta con tale mezzo di pagamento “anomalo” (prestazione, peraltro, come già detto, nulla sul piano civilistico.

69. La conclusione, quindi, vista sotto il profilo del dolo specifico, è ancora più netta nel senso di cui alla citata sentenza Sez. VI, Sent. 177 del 27/9/1984 (dep. 10/01/1985) Rv. 167313 – Tana: laddove vi sia una causa lecita della ricezione della prestazione, al di fuori della piena consapevolezza della provenienza illecita del bene ricevuto in pagamento, non si può ritenere che la parte agisca in vista del profitto che potrebbe provenire da reato ma agisce, quindi senza fine di profitto, per ottenere l’adempimento che gli è dovuto per un’obbligazione lecita.

70. Considerando, sulla base di tali principi, il caso di specie, in base alla ricostruzione in fatto della sentenza impugnata non vi è alcuna dimostrazione che vi sia stata una situazione diversa da quella di un “normale” flusso di denaro tra conviventi; non vi è alcuna prova che la ricorrente avesse specifica consapevolezza delle attività criminali da cui proveniva il denaro che le veniva attribuito in via diretta od indiretta (attraverso l’acquisto in suo favore degli immobili da utilizzare per la famiglia), potendo solo ragionevolmente ritenersi che fosse a conoscenza detto svolgimento di attività criminali da parte del M. .

71. Pertanto, in ragione di quanto detto, mancando qualsiasi prova diretta delle intenzioni della C. ed escluso che le spettasse una sorta di obbligo di controllo della provenienza del denaro, non si può affermare che vi fosse null’altro che un suo mero sospetto della provenienza e che quanto si prospettava, e voleva, la C. era “semplicemente” la ricezione della prestazione che le era dovuta e non il trarre un profitto per la provenienza illecita del denaro.

72. A fronte di tale conclusione, la assenza strutturale (nella data tipica situazione di rapporti tra creditore e debitore) del dolo specifico di trarre profitto, dimostra che il fatto non costituisce reato essendo la condotta di ricezione motivata e giustificata dalla specifica finalità di ottenere l’adempimento delle obbligazioni in proprio favore.

73. Ne consegue, per la C. , l’annullamento senza rinvio della sentenza in quanto, a fronte della completezza degli accertamenti in fatto, non risulta possibile alcun altro sviluppo non potendosi ottenere ulteriori elementi indicativi della consapevolezza o meno della ricorrente. E, secondo la giurisprudenza di questa Corte, laddove diventi impossibile una diversa conclusione, si impone l’annullamento senza rinvio (Sez. 6, n. 37098 del 19/07/2012 – dep. 26/09/2012, Conti, Rv. 253380).

74. Il ricorso di V.M. è infondato.

75. Con il primo motivo fondamentalmente si sostiene che, pur non negandosi una conversazione tra M. e V. avente ad oggetto una possibile fornitura di droga, non si sia realizzato alcun accordo che consentisse di ritenere integrato il reato; prova ne sarebbe, secondo la difesa, il fatto che la conversazione non fa riferimento ad una quantità specifica, condizioni per ritenere concluso l’accordo, ma parla genericamente dell’interesse ad avere “due o tre” (ove ogni unità è stata ritenuta corrisponde ad 1 kg di stupefacente). Ma, senza necessità di valutare i lunghi argomenti tesi ad affermare che senza una specificità di accordo su quantità, qualità e prezzo della sostanza non possa ritenersi perfezionato il reato di acquisto di stupefacente, è sufficiente osservare che il ricorrente, nel dolersi sulla mancata risposta specifica ai suoi motivi sul tema in questione ripropone le proprie osservazioni in tema di perfezionamento del reato già fatte in sede di appello, non considerando però come tale telefonata sia stata collocata dai giudici di merito (sentenza di primo grado cui fa rinvio per relationem la sentenza impugnata) nel contesto di continui rapporti tra le parti interessate; la conversazione dimostrava che si era giunti alla fase conclusiva dell’acquisto della partita di stupefacente, ovvero alla fase di consegna, dovendosi solo stabilire, al momento del riparto della partita di droga fra i soggetti interessati, quanta ne potesse ricevere ciascuno. Pertanto, rilevata la adeguata e logica motivazione, gli argomenti difensivi, essendo limitati come si è detto, non consentono di individuare vizi della sentenza.

76. Il secondo motivo è manifestamente infondato laddove la parte intende porre questioni merito chiedendo di fatto una nuova valutazione del materiale probatorio, attività che è fuori dal ambito del giudizio di legittimità.

77. Il terzo motivo è manifestamente infondato in quanto i giudici di merito hanno ben valutato che si è in presenza di una cessione di rilevante quantità di stupefacente che, pur non potendo certamente consentire di ritener integrata la aggravante del quantitativo ingente, ha ben giustificato l’esclusione della ipotesi attenuata; la sentenza, difatti, chiarisce come si sia in presenza di traffici di rilevante quantità.

78. Anche il quarto motivo è inammissibile laddove invoca l’esercizio di poteri di merito sibila applicazione di attenuanti e sulla determinazione della pena, attività preclusa in sede di legittimità.

79. Il ricorso di S.L. è infondato.

80. Il primo motivo è assolutamente generico e, comunque, pone questioni di mero fatto.

81. Il secondo motivo è infondato. I generici argomenti svolti non sono in grado di consentire di ritenere erronea la valutazione dei giudici di merito nella determinazione della quantità di stupefacente emergente dalla attività di indagine, indicato in 10 kg. Inoltre, tale quantità, nonostante la generica doglianza della ricorso, rientra pacificamente nell’ambito della ingente quantità atteso il “valore soglia” determinato, per la cocaina, in grammi 0.75 (quindi la soglia della aggravante è pari ad 1,5 kg).

82. Il ricorso di G.E. è infondato.

83. Il primo motivo pone una questione di merito in ordine al mancato accoglimento della richiesta di riapertura del dibattimento; rilevato che la parte non individua alcuna delle situazioni in cui la ammissione di prova nel giudizio di appello rappresenti un diritto e che, per il resto, si limita a contestare l’esercizio della attività di apprezzamento da parte della Corte di Appello, senza individuare alcuna carenza motivazionale, è chiaramente infondato.

84. Infondato è anche il secondo motivo che invoca una nuova valutazione in merito sulla base una lettura alternativa degli elementi di prova, anche in riferimento allo stato di realizzazione dell’azione, invocando l’esercizio di poteri di fatto non esercitagli in sede di legittimità.

85. Il ricorso di D.F.M. è infondato.

86. Quanto al |primo motivo, la sentenza impugnata, con vantazione di merito congrua ed immune da apparenti vizi logici, ha dato atto della irrilevanza del mezzo di prova costituito dal deposito di documentazione attestante lo stato dei luoghi giustificando, con apprezzamento di merito insindacabile, la possibilità che i fatti si siano svolti come dichiarato dalla polizia giudiziaria. Non si può, quindi, affermare che fosse impossibile, per la mera difficoltà pratica, che le autovetture si fossero posizionate come ritenuto dalla Corte.

87. Infondato è anche il secondo motivo che di fatto ripropone i temi di merito dell’atto di appello, rispetto ai quali risulta esaustiva la decisione della Corte di merito, che non può essere sostituita da un nuovo ed alternativo apprezzamento di fatto in questa sede.

88. Il terzo motivo è infondato in quanto il complesso della motivazione delle sentenze di merito dimostra con certezza che si è in presenza di un ingente quantitativo di droga che, avendo ampiamente superato il valore limite dell’ingente quantitativo, integra sicuramente la aggravante. Nulla deduce la difesa se non la generica affermazione della assenza di sequestro della droga, condizione che certamente non rende inadeguata la motivazione.

89. Il ricorso di B.G. è, invece, fondato.

90. Il giudice di primo grado, applicate le attenuanti generiche con giudizio di equivalenza rispetto alla recidiva, determinava la pena base per il reato di riciclaggio in anni sette di reclusione ed Euro 2800 di multa. Per ognuno dei reati di usura applicava un aumento pari a mesi otto di reclusione ed Euro 400 di multa. La pena finale appare ad anni nove di reclusione ed Euro 4000 di multa.

91. La Corte di Appello ha, invece, escluso la recidiva e quindi ritenuto prescritti i reati di usura, confermando quindi la sua condanna per riciclaggio.

92. Ha così determinato la pena in anni quattro e mesi otto di reclusione ed Euro 1800 di multa.

93. Il ricorrente lamenta che, una volta esclusa la rilevanza della recidiva, ed in ragione delle altre circostanze, non vi era ragione di non applicare la pena nel minimo edittale con la ulteriore diminuzione per le attenuanti generiche.

94. Essendosi la Corte ampiamente discostata dal minimo edittale, anche sotto il profilo della applicazione della diminuzione di pena per le attenuanti generiche aveva un obbligo di motivazione specifica sulla ragione della scelta (In tema di determinazione della pena, quanto più il giudice intenda discostarsi dal minimo edittale, tanto più ha il dovere di dare ragione del corretto esercizio del proprio potere discrezionale, indicando specificamente, fra i criteri oggettivi e soggettivi enunciati dall’art. 133 cod. pen., quelli ritenuti rilevanti ai fini di tale giudizio. (Fattispecie in cui la pena base detentiva, fissata dal giudice del gravame prima della riduzione per il rito abbreviato, corrispondeva al massimo edittale previsto per l’ipotesi attenuata di cui all’art. 73, comma quinto, d.P.R. n. 309 del 1990). (Sez. 6, n. 35346 del 12/06/2008 – dep. 15/09/2008, Bonarrigo e altri, Rv. 241189)). Una tale motivazione è, però, evidentemente assente. Ciò comporta che sussiste il vizio denunziato e quindi va disposto annullamento con rinvio per la nuova determinazione della pena che motivi sui criteri di scelta laddove apprezzabilmente superiore al minimo edittale.

95. il ricorso di Ba.Um. è infondato.

96. Il primo motivo è manifestamente infondato. Il ricorrente non formula eccezioni specifiche ma afferma semplicemente di non aver trovato, allo stato, gli atti relativi alle intercettazioni, che non indica in modo analitico; ma non ne afferma la assenza bensì il non esser riuscito ancora a trovarli attesa la mole del fascicolo. La totale inconsistenza del motivo è assolutamente palese.

97. Il secondo motivo ed il terzo motivo richiedono entrambi valutazioni di specifico apprezzamento del contenuto delle prove, attività di competenza esclusiva del giudice di merito che risulta averne dato conto con motivazione congrua ed immune; da specifici vizi logici, peraltro non segnalati nel ricorso.

98. Il ricorso di T.V. è infondato.

99. Il primo motivo ripropone questioni di merito non di competenza del giudice di legittimità; la doglianza riferita alle risposte date dalla sentenza impugnata ai motivi di appello non attiene alla carenza / contraddittorietà / illogicità della motivazione ma tocca, appunto, questioni relative alla interpretazione del materiale probatorio. Si tratta quindi di un motivo che si pone al di fuori di quelli consentiti.

100. Il secondo motivo è infondato laddove pone questioni in tema di determinazione della recidiva senza che risultino errori da parte del giudice di merito. Quanto alla deduzione in ordine alla non configurabilità della responsabilità per l’intera partita di droga, a parte che anche laddove si accogliesse la richiesta della parte di ritenere la responsabilità per un terzo dei 10 kg si supererebbe comunque la soglia dell’aggravante dell’ingente quantità, la affermazione fatta non tiene conto che la ricostruzione in fatto da parte della Corte di merito è nel senso che il ricorrente era complice nella complessiva importazione di stupefacente, pur riservando per sé una parte della sostanza acquistata.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di C.O. perché il fatto non costituisce reato.

Annulla la medesima sentenza nei confronti di B.G. limitatamente alla determinazione della pena e rinvia per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di Appello di Milano. Rigetta nel resto il ricorso del B. .

Rigetta gli altri ricorsi e condanna i relativi ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

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