Corte di Cassazione, sezione terza penale, sentenza 9 gennaio 2018, n. 273. Esterovestizione in tema di mancato pagamento Iva nel settore auto.


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Si tratta quindi di disposizione, quella evocata dal ricorrente, che, applicabile a far data dal 3 dicembre 2007, come da provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate del 25 ottobre 2007, emanato in base alle attribuzioni conferite dal Decreto Legge n. 262 del 2006, articolo 1, comma 11 – subordina l’immatricolazione, ovvero la successiva voltura, di autoveicoli, motoveicoli e loro rimorchi, anche nuovi, oggetto di acquisto intracomunitario a titolo oneroso ovvero di importazione, all’allegazione alla relativa richiesta, rispettivamente, della copia del Modello “F24 Auto UE”, recante per ciascun mezzo di trasporto l’indicazione del numero di telaio e l’ammontare dell’imposta assolta in occasione della prima cessione interna, ovvero della certificazione doganale attestante l’assolvimento dell’imposta “e contenente il riferimento all’eventuale utilizzazione, da parte dell’importatore, della facolta’ prevista dal Decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, articolo 8, comma 2, nei limiti ivi stabiliti”.
Ma di tale documentazione, come correttamente esposto dal tribunale del riesame, non v’e’ traccia, dunque restando del tutto prive di pregio le obiezioni difensive sul punto, ivi incluse quelle secondo cui, nella specie non sussisterebbe alcuna compressione dell’imponibile IVA sugli autoveicoli importati in Italia, in quanto la presenza o meno dell’IVA nelle fatture di (OMISSIS) non importerebbe alcuna distorsione sul piano del prezzo degli autoveicoli, poiche’ laddove esistente, a parita’ di prezzo, i cessionari l’avrebbero detratta in quanto per essi neutrale, cosi’ parificandosi tale situazione a quella riscontrata dall’autorita’ inquirente, nella quale i cessionari di (OMISSIS) hanno applicato l’IVA su di un imponibile perfino maggiore di quello contestato ad (OMISSIS), avendo tali cessionari applicato il giusto ricarico in sede di rivendita ed avendo cosi’ versato all’Erario l’IVA fatta pagare ai propri clienti.
Difettando la prova documentale come sottolineato dal tribunale del riesame, quindi, le predette deduzioni sono fini a se’ stesse e non incidono sulla correttezza del provvedimento impugnato.
8. Ne’ del resto, puo’ sindacarsi l’ordinanza impugnata perche’ non avrebbe esaminato tutte le argomentazioni difensive a sostegno della richiesta di riesame.
Pacifico, infatti, e’ che II tribunale del riesame deve limitare il suo sindacato alle deduzioni difensive che abbiano una oggettiva incidenza sul “fumus commissi delicti” senza pronunciarsi su qualsiasi allegazione che si risolva in una mera negazione degli addebiti o in una diversa lettura degli elementi probatori gia’ acquisiti (Sez. 3, n. 13038 del 28/02/2013 – dep. 21/03/2013, P.M. in proc. Lapadula e altro, Rv. 255114). E, nel caso in esame, i giudici del riesame, richiamando le argomentazioni del primo giudice e gli elementi investigativi risultanti dagli atti hanno ritenuto che si versasse in una fattispecie di esterovestizione e che gli elementi offerti dalla difesa fossero inidonei ad escludere sulla diversa prospettazione difensiva, confutando le deduzioni difensive ritenute maggiormente incidenti sulla prospettazione accusatoria, dovendosi evidentemente ritenere rigettati per implicito gli ulteriori argomenti di contorno esposti dalla difesa. Trattasi di operazione del tutto legittima, come del resto piu’ volte riconosciuto da questa Corte che ha infatti sul punto affermato che il giudice di merito non ha l’obbligo di soffermarsi a dare conto di ogni singolo elemento indiziario o probatorio acquisito in atti, potendo egli invece limitarsi a porre in luce quelli che, in base al giudizio effettuato, risultano gli elementi essenziali ai fini del decidere, purche’ tale valutazione risulti logicamente coerente. Sotto tale profilo, dunque, la censura di non aver preso in esame tutti i singoli elementi risultanti in atti, costituisce una censura del merito della decisione, in quanto tende, implicitamente, a far valere una differente interpretazione del quadro indiziario, sulla base di una diversa valorizzazione di alcuni elementi rispetto ad altri (Sez. 5, n. 2459 del 17/04/2000 – dep. 08/06/2000, PM in proc. Garasto L, Rv. 216367).
9. Quanto, poi, alla mancata valutazione dell’elemento psicologico del reato, che sarebbe stato da escludere in presenza di una societa’ che avrebbe regolarmente pagato ogni imposta in Slovenia, trattasi di censura manifestamente infondata, atteso che in tema di misure cautelari reali, la giustificazione della misura deriva dalla pericolosita’ sociale della cosa e non dalla colpevolezza di colui che ne abbia la disponibilita’, cosi’ che il sequestro preventivo, di cui all’articolo 321 c.p.p., pur se condizionato alla sussistenza di una ipotesi di reato, prescinde dalla individuazione del suo autore e dall’indagine sulla colpevolezza di questi (In applicazione di tale principio la Corte ha annullato con rinvio la decisione del tribunale del riesame di revoca di un sequestro preventivo fondata sull’indagine sull’elemento psicologico del reato, sottratta, secondo la Corte, alla cognizione limitata del giudice di riesame, in quanto devoluta alla pienezza dei poteri conoscitivi e decisori del giudice del successivo giudizio: Sez. 3, n. 11290 del 13/02/2002 – dep. 20/03/2002, P.M. in proc. Di Falco M, Rv. 221268).
A cio’ va aggiunto che la pretesa violazione del combinato disposto dell’articolo 165 TUIR e Decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972, articolo 19, quanto alla quantificazione del profitto del reato (nel senso che il tribunale del riesame non avrebbe tenuto conto dei prospetti relativi ai versamenti delle imposte effettuati in Slovenia per gli anni del 2010 al 2015) e’ censura priva di pregio, avendola infatti il tribunale del riesame affrontata indirettamente quando si riferisce al tema della soglia di punibilita’ per il reato contestato, osservando come dall’esame degli atti, tenuto conto dell’ammontare del profitto non dichiarato, sarebbe plausibile il suo superamento in relazione ai periodi di imposta presi in esame, dovendo comunque essere qui ricordato che e’ legittimo il sequestro preventivo, finalizzato alla confisca per equivalente, dell’importo corrispondente all’imposta evasa nella sua totalita’ e non alla sola parte che eccede la soglia di punibilita’ prevista dalla legge, in quanto il profitto del reato di omessa dichiarazione e’ costituito dal risparmio economico da cui consegue l’effettiva sottrazione degli importi evasi alla loro destinazione fiscale, di cui certamente beneficia il reo (Sez. 3, n. 1199 del 02/12/2011 – dep. 16/01/2012, Galiffo, Rv. 251893). Le eventuali questioni afferenti dunque alla mancata deduzione IVA in violazione del combinato disposto dell’articolo 165 TUIR e Decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972, articolo 19, non hanno pertanto pregio e non incidono sulla valutazione incidentale del tribunale del riesame.
10. Ad analogo approdo deve pervenirsi quanto al secondo motivo, con cui si contesta in relazione al capo a) della rubrica (dichiarazione (OMISSIS) a fini IRES anno 2014), il mancato raggiungimento della soglia di punibilita’, in quanto l’Agenzia delle Entrate di Trento avrebbe determinato per tale anno la maggiore imposta in poco piu’ di 16.000 Euro, al di sotto della soglia di punibilita’.
Il profilo, indubbiamente, suggestivo, non determina pero’ l’illegittimita’ del provvedimento, in base al rilievo che – anzitutto, non risponde alla realta’, l’affermazione secondo cui vi sarebbe stata omessa motivazione perche’ i giudici avrebbero deciso solo sui capi da b) ad f) della rubrica, in quanto a pag. 2 dell’ordinanza il riferimento e’ chiaramente relativo ai capi da a) ad f) – ma soprattutto laddove si consideri quanto segue.
A prima vista sembrerebbe logico ritenere definitivamente accertata, anche ai fini penali, se inferiore alla soglia, l’imposta cristallizzata in un accertamento dell’Ufficio divenuto definitivo, per mancata impugnazione, per adesione o in seguito ad una conciliazione giudiziale, oppure in esito all’esercizio del potere di autotutela (annullamento d’ufficio). Nei casi in cui la stessa Amministrazione finanziaria ha determinato un’imposta evasa inferiore alla soglia penalmente rilevante, sarebbe irragionevole ipotizzare un intervento del giudice penale il quale rideterminasse l’imposta evasa in misura superiore rispetto a quella accertata dall’Ufficio, tale cosi’ da configurare un’ipotesi delittuosa. Tuttavia, i rapporti tra il processo penale e il processo tributario, rimangono saldamente ancorati al principio dell’autonomia e del tendenziale parallelismo.
Il giudice pena

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