Corte di Cassazione, sezione terza penale, sentenza 9 gennaio 2018, n. 273. Esterovestizione in tema di mancato pagamento Iva nel settore auto.


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4. La inammissibilita’ emerge alla luce della semplice lettura dell’ordinanza impugnata che motiva adeguatamente in ordine a tutti i profili di doglianza esposti dal ricorrente. In particolare, dalla ordinanza emergono i seguenti punti: a) quanto ai capi da a) ad f), oggetto dell’articolato primo motivo di ricorso, i giudici del riesame evidenziano, anzitutto, che non possa frasi riferimento al principio della liberta’ dei contribuenti all’adozione di soluzioni meno onerose sotto il profilo fiscale ai fini della scelta del luogo di stabilimento, in quanto nel caso in esame la soluzione adottata ha comportato anche un’alterazione della verita’, in quanto la sostanza dell’operazione e’ solo quella di creare all’estero una facciata di impresa, e cioe’ la sua dimensione operativa, con violazione della realta’ dei fatti, perche’ tutti i luoghi di decisione e dell’amministrazione dell’attivita’ sociale erano invece in Italia (sul punto, si legge nell’ordinanza, se tutte le decisioni erano prese, tutti i conti tenuti, tutti i contatti stipulati, tutti i crediti almeno in valuta Euro incassati, esclusivamente in Italia, di questo non puo’ che prendersi atto); b) a sostegno di tale esito valutativo, in diritto, l’ordinanza richiama alcune decisioni di questa Corte rese in casi di “esterovestizione”, confutando peraltro le argomentazioni difensive secondo cui in Italia farebbe difetto sia la stabile organizzazione che la gestione amministrativa di cui al modello OCSE in punto di doppia imposizione, e cio’ attraverso il richiamo ai principi affermati da questa stessa Sezione nel caso esaminato con la sentenza n. 7080/2012 nonche’ nel noto caso (OMISSIS) di cui alla sentenza n. 43809/2015, osservando che la difesa, pur prendendo atto di tale giurisprudenza, aveva allegato la considerazione che, anche in presenza di omissione di dichiarazione, non vi sarebbe profitto, o meglio danno, perche’ le somme dovute a titolo IVA sono state comunque saldate nel passaggio successivo, quello della immatricolazione, da parte dell’acquirente finale che, cosi’ facendo ha in qualche modo compensato l’inadempimento da parte della societa’ che appariva importatrice ed invece nella logica accusatoria doveva considerarsi italiana e, quindi, avrebbe dovuto provvedere alla dichiarazione e poi al pagamento; c) orbene, in relazione a tale punto, dopo aver richiamato la produzione documentale difensiva costituita dall’ordinanza di sospensione dell’avviso di accertamento della CTP di Trento, i giudici del riesame, dopo aver escluso la rilevanza nel presente giudizio penale del medesimo in quanto atto a contenuto cautelare (affermazione del tutto corretta, osserva il Collegio, attesa l’autonomia del giudizio penale da quello tributario ex Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 20), rigettano nel merito l’obiezione difensiva in quanto, da un lato, evidenziano che dei predetti pagamenti nulla e’ dato sapere in quanto sarebbero stati solo ipotizzati come risultato di obblighi di legge ma non documentati, dall’altro, che l’assenza di danno non eliminerebbe l’assenza di profitto in capo alla AVTO che comunque lo avrebbe conseguito per l’assenza di pagamento dovuti da parte sua e, infine, perche’ una volta non assolto il pagamento IVA da parte della venditrice, costituisce dato notorio che il prezzo della vendita viene ridotto percentualmente, e quindi vi sarebbe un danno anche per l’Erario e che, anche se lo stesso si dimensiona diversamente dalla cifra indicata nell’imputazione, avrebbe comunque rilievo e sarebbe significativo in quanto tale differenza costituisce esattamente la cifra corrispondente al danno per l’Erario ed al risparmio di imposta, ed e’ la ragione, per il tribunale, di un elevato numero di reati realizzati in materia di importazione tramite cartiera o di fittizia importazione; d) per tale ragione, prosegue il tribunale, il tema e’ quello della determinazione del profitto nel quantum e non della sua esistenza, con la conseguenza che il collocamento della soglia di punibilita’ sul valore basso di 50.000 e fa ritenere che nella sede cautelare la plausibilita’ del suo superamento, e quindi dell’integrazione della fattispecie penale, con rimessione alla sede di merito dell’esatta determinazione del quantum da sequestrare in vista della confisca; e) quanto, poi, alla contestazione sub g), relativa alla (OMISSIS), il tribunale richiama il contenuto della pag. 7 della richiesta del PM ricordando le ragioni esposte per le quali la societa’ in questione e’ considerata di puro schermo del patrimonio dell’indagato, il quale e’ amministratore e a cui appartiene la sua casa di abitazione; sul punto, i giudici ritengono che quanto esposto dal Pm sia attendibile nella ricostruzione e che non avrebbe rilievo il fatto che non vi sia ancora dispiegamento di prova definitiva, con la conseguenza che la dichiarazione del reddito per imposta diretta avrebbe dovuto riguardare tutto l’attivo o il profitto e, sul punto, la difesa non avrebbe svolto alcun argomento a contrasto o almeno di interesse nella sede cautelare; f) il tribunale confuta poi l’argomentazione difensiva svolta al riguardo e relativa al mancato superamento della soglia di legge, non solo evidenziando che la stessa sarebbe stata abbondantemente superata rispetto ai 50.000 Euro di evasione, indicando anche l’ammontare di 3.000.000,00 di Euro di elementi attivi taciuti; sul punto, infatti, nel richiamare i dati di bilancio attestati dalla societa’ di revisione (OMISSIS) che nella prospettiva della difesa smentirebbero quelli dell’accusa, il tribunale sottolinea come in sede cautelare la valutazione della societa’ di revisione non possa ritenersi avere un peso maggiore rispetto ai dati frutto dell’accertamento svolto dall’Agenzia delle Entrate, richiamando a tal proposito le risultanze dell’accertamento induttivo per poi sottolineare come compito del tribunale sia quello di verificare se sussista nel caso concreto il requisito dell’esistenza degli indizi e, tal riguardo, ribadisce il tribunale, la notizia di reato non sarebbe perplessa ma spenderebbe argomenti corretti quantomeno sul profilo formale come indicato in un preciso sistema di valutazione “Key financial”; e, in relazione a quanto sopra, ricordano i giudici del riesame che anche la presunzioni tributarie, o meglio i dati di fatto che le sottendono, hanno valore indiziario gia’ ai fini del fumus del reato per quanto concerne l’ammontare della pretesa, esame che del resto e’ unico in caso di reato con previsione di una soglia di punibilita’, concludendo con l’affermare che per la verifica dell’esistenza di apprezzabili indizi di reato, quel che conta e’ la presa in considerazione dei fati storici che giustificano quella scelta di accertamento induttivo.
5. Orbene, osserva il Collegio, al cospetto di tale apparato argomentativo, le doglianze difensive, sotto l’apparente censura di vizi di violazione di legge, in realta’ tradiscono il malcelato tentativo di criticare la ricostruzione dei fatti e la valutazione degli elementi indiziari operata dal tribunale del riesame, prospettando quindi all’evidenza un articolato “dissenso” rispetto agli approdi valutativi del tribunale del riesame (e evidentemente del GIP che aveva emesso l’originario sequestro preventivo e della tesi accusatoria basata sulla contestata CNR), dissenso che non si traduce nemmeno (e non potrebbe del resto esserlo in questa sede incidentale cautelare, attesi i ristretti limiti imposti dall’articolo 325 c.p.p., che restringe i vizi deducibili nella sola violazione di legge: per tutte, v. Sez. U, n. 5876 del 28/01/2004 – dep. 13/02/2004, P.C. Ferazzi in proc.Bevilacqua, Rv. 226710) nella prospettazione di vizi motivazionali.

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