Corte di Cassazione, sezione sesta civile, ordinanza 15 febbraio 2018, n. 3767. L’uccisione di una persona fa presumere da sola, ex articolo 2727 c.c., una conseguente sofferenza morale in capo ai genitori, al coniuge, ai figli od ai fratelli della vittima

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L’evidente insostenibilita’ di tali conclusioni rende palese, in virtu’ del principio della reductio ad absurdum, l’inaccettabilita’ della premessa su cui esse si fondano: e cioe’ che la residenza della vittima incida sulla misura del risarcimento del danno.
1.6. L’argomento riassunto sub (b) al 5 1.4 che precede (ovvero il decisum di Corte di giustizia UE, con la sentenza 10.12.2015, in causa C350/14, Lazar) e’ irrilevante ai nostri fini.
Con la ricordata decisione la Corte di Lussemburgo ha stabilito quale debba essere la legge regolatrice del risarcimento del danno nel caso di fatti illeciti avvenuti in uno Stato membro, e consistiti nella morte d’una persona avente parenti in un altro Stato membro.
La Corte Europea, dunque, non s’e’ affatto occupata dei criteri di monetizzazione del risarcimento, ne’ del resto avrebbe potuto farlo, essendo quest’ultima materia riservata alla legislazione degli Stati membri, e sottratta alla competenza comunitaria.
1.7. L’argomento riassunto sub (c) al § 1.4 che precede (ovvero la preferibilita’ degli argomenti sostenuti da questa Corte nella sentenza n. 1637/00, cit., rispetto a quelli affermati dall’orientamento piu’ recente) non e’ pertinente ai nostri fini.
Con la sentenza appena ricordata questa Corte casso’, per difetto di motivazione ex articolo 360 c.p.c., n. 5, la decisione di merito che, liquidando 50 milioni di lire ad una donna per la perdita del figlio diciassettenne, aveva giustificato tale importo con riferimento alla “realta’ socioeconomica” dove viveva la danneggiata (cioe’ la citta’ di Chieti).
Questa Corte osservo’ in quel caso, nella motivazione della sentenza 1637/00, che la variazione del risarcimento in funzione della realta’ socioeconomica dove viva il danneggiato potrebbe teoricamente essere condivisibile per aumentare il risarcimento (e non per ridurlo), ma nel caso di specie il giudice di merito non aveva spiegato attraverso quale calcolo era pervenuto a determinare la misura base del risarcimento, e poi il suo aumento.
Ne segue che:
(a) il decisum di quella sentenza non consistette nell’affermazione d’un principio di diritto, ma nel rilievo d’un difetto di motivazione, e le argomentazioni giuridiche pur contenute nella sua motivazione costituiscono un mero obiter dictum;
(b) in quella decisione il richiamo al criterio della “realta’ socioeconomica” venne svolto per ampliare, invece che ridurre, il quantum del risarcimento;
(c) nelle occasioni in cui questa Corte e’ stata chiamata a stabilire in iure se il risarcimento possa variare in funzione della residenza della vittima, l’ha recisamente e costantemente negato.
Sicche’, da un lato, non sembra sussistere un vero e proprio contrasto, ove si ponga mente ai decisa di questa Corte e non alle massime che ne sono state estratte; dall’altro lato, anche ad ammettere che davvero sia esistito un contrasto, questo sarebbe ormai definitivamente superato, e cio’ rende superfluo sottoporre la questione di cui si discute alle Sezioni Unite.
1.8. Nell’argomento riassunto sub (d) al § 1.4 che precede (secondo cui il consolidato orientamento di questa Corte “costituirebbe una burla per gli italiani”, perche’ “si concede tutto agli stranieri e niente, nella condizione inversa, viene dato agli italiani”), infine, questa Corte non riesce a ravvisare alcunche’ di giuridico.
Sara’ dunque sufficiente ricordare come ogni ordinamento giuridico sia superiorem non recognoscens, sicche’ la misura del risarcimento da liquidare in Italia non puo’ farsi dipendere dal quantum liquidato, per il medesimo pregiudizio, in altri Paesi; e che il risarcimento dei danni derivanti dalla lesione di diritti fondamentali della persona non e’ soggetto alla condizione di reciprocita’ di cui all’articolo 16 preleggi (Sez. 3, Sentenza n. 8212 del 04/04/2013).
2. Il secondo motivo di ricorso.
2.1. Col secondo motivo i ricorrenti lamentano, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli articoli 1224, 1226 e 2056 c.c..
Sostengono che la Corte d’appello, dopo avere liquidato il danno in conto capitale, non ha provveduto ad accordar loro il danno da mora (c.d. interessi compensativi), cosi’ violando le norme sopra ricordate.

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