Contratti agrari ed il diritto di prelazione e di riscatto

Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|10 ottobre 2024| n. 26401.

Contratti agrari ed il diritto di prelazione e di riscatto

Massima: Il giudice del merito è tenuto alla verifica della sussistenza di tutte le condizioni prescritte dalla legge per l’accoglimento della domanda di prelazione e riscatto agrario, sicché rientra nei suoi doveri il rilievo d’ufficio dell’assenza del requisito della contiguità fisica dei fondi.

 

Ordinanza|10 ottobre 2024| n. 26401. Contratti agrari ed il diritto di prelazione e di riscatto

Data udienza 2 maggio 2024

Integrale

Tag/parola chiave: Contratti agrari – Diritto di prelazione e di riscatto – Prelazione prelazione – Retratto – Presupposti – Contiguità dei fondi – Assenza – Rilevabilità d’ufficio.

REPUBBLICA ITALIANA

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente

Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente
ORDINANZA

sul ricorso 13899 – 2021 proposto da:

Ma.Gr., elettivamente domiciliata in Roma, viale An.38., presso lo studio dell’Avvocato Vi.SI., che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

Pa.Gi., elettivamente domiciliato in Roma, largo Ug.Ba., presso lo studio dell’Avvocato Gi.FL., che lo rappresenta e difende unitamente all’Avvocato Lo.LA.;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

nonché contro

Ga.Ne., Me.Ti., Me.Si., quali eredi di Me.Br., elettivamente domiciliate in Roma, piazza Di.Vi., presso lo studio dell’Avvocata Ma.GR., che le rappresenta e difende unitamente all’Avvocato St.FI.;

– controricorrenti e ricorrenti incidentale –

e contro

Pa.An.;

– intimata –

Avverso la sentenza n. 320/2021 della Corte d’Appello di Ancona, depositata in data 18/03/2021;

udita la relazione della causa svolta nell’adunanza camerale in data 02/05/2024 dal Consigliere Dott. Stefano Giaime GUIZZI.

Contratti agrari ed il diritto di prelazione e di riscatto

FATTI DI CAUSA

1. Ma.Gr. ricorre, sulla base di tre motivi, per la cassazione della sentenza n. 320/21, del 18 marzo 2021, della Corte d’Appello di Ancona, che – respingendone il gravame avverso la sentenza n. 177/17, del 14 febbraio 2017, del Tribunale di Macerata (dichiarando, invece, assorbito quello incidentale condizionato di Me.Br.) – ha rigettato la domanda di retratto agrario dalla stessa proposta nei confronti del predetto Me.Br. e di Pa.Di., in relazione ai contratti del 6 dicembre 2012 con i quali essi avevano acquistato, rispettivamente, due porzioni di uno stesso terreno, a dire della Ma.Gr. unitario, da tale Ch.Fa.

2. Riferisce, in punto di fatto, l’odierna ricorrente di aver convenuto in giudizio il Me.Br. e il Pa.Gi., sul presupposto di essere coltivatrice diretta e proprietaria di un terreno confinante con quello già di proprietà del Ch.Fa., essendo, pertanto, in possesso dei requisiti per esercitare la prelazione, ai sensi dell’art. 7 della legge 14 agosto 1971, n. 817 e dell’art. 8 della legge 26 maggio 1965, n. 590. Non avendo, infatti, ricevuto alcuna proposta di alienazione da parte del Ch.Fa., ella intendeva esercitare il diritto di retratto, ritenendo che l’alienante avesse frazionato il proprio unitario terreno al solo fine di vanificare il suo diritto di prelazione, tanto da aver alienato al Me.Br. la porzione più piccola del fondo – quella confinante con il terreno di sua proprietà – di Ha 05.17.10, al prezzo, ritenuto irrisorio, di Euro 4.834,65 l’ettaro, “interponendola” a quella maggiore di Ha 27.39.70, alienata, invece, al Pa.Gi. al prezzo di Euro 33.301,35 l’ettaro, e ciò nonostante si trattasse di porzioni aventi le medesime caratteristiche fisiche e la stessa destinazione di fondi rustici con vocazione agricola.

Analogo giudizio, peraltro, veniva radicato – sempre innanzi al Tribunale maceratese – anche dal Me.Br. nei confronti del Pa.Gi., ritenendo che il Ch.Fa., nell’alienare al Pa.Gi. la maggior porzione del terreno di cui era proprietario, avesse violato il suo diritto di prelazione.

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Peraltro, il Me.Br. proponeva – in via di riconvenzione -identica domanda di retratto agrario nei confronti del Pa.Gi. anche nel giudizio radicato dalla Ma.Gr., alla cui domanda, pertanto, resisteva.

Resisteva alla domanda dell’odierna ricorrente anche il Pa.Gi., chiedendo che nell’ipotesi di accoglimento della stessa gli venissero rimborsati, unitamente al prezzo del riscatto, i costi sopportati in relazione ai lavori effettuati sul fondo acquistato e alle migliorie ad esso apportate.

Infine, assumendo anch’ella di essere in possesso dei requisiti soggettivi e oggettivi previsti “ex lege” per l’esercizio del diritto di retratto agrario, pure tale Pa.An. radicava – sempre presso il Tribunale di Macerata – un ulteriore giudizio nei confronti del Me.Br. e del Pa.Gi.

Disposta la riunione delle tre cause, espletata consulenza tecnica d’ufficio, dopo il deposito della stessa (e, per l’esattezza, in occasione della convocazione a chiarimenti dell’ausiliario, affinché fornisse delucidazioni, però, soltanto sulla differenza dei prezzi di acquisto corrisposti dal Me.Br. e dal Pa.Gi.), il Pa.Gi. depositava una “perizia tecnica”, a firma di tale Geometra Pa., mai nominato consulente tecnico di parte, dalla quale risultava che il canale denominato “(omissis)”, che separa il terreno già di proprietà del Ch.Fa. (poi trasferito al Me.Br.), da quello della Ma.Gr., presenta natura pubblica, così interponendosi tra gli stessi, escludendone la contiguità.

Orbene, proprio valorizzando tale circostanza il giudice di prime cure rigettava – per quanto qui di interesse – la domanda di retratto della Ma.Gr. e del Me.Br. Esperito gravame, in via di principalità, dalla Ma.Gr., nonché in via incidentale condizionata dal Me.Br. (il quale, per l’ipotesi di accoglimento dell’appello principale, chiedeva il riconoscimento del proprio diritto di prelazione sul fondo trasferitogli dal Ch.Fa., nonché – in caso di riconoscimento della natura unitaria del fondo già di proprietà del suo dante causa – il suo diritto di prelazione e riscatto sul fondo da costui trasferito al Pa.Gi.), il giudice di seconde cure, nella contumacia della Pa.An., respingeva l’uno e dichiarava assorbito l’altro.

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3. Avverso la sentenza della Corte dorica ha proposto ricorso per cassazione la Ma.Gr., sulla base – come detto – di tre motivi, non senza riproporre, dopo la loro illustrazione, il motivo di appello, ritenuto assorbito dalla pronuncia oggi impugnata, relativo all’artato frazionamento, da parte del Ch.Fa., del terreno oggetto di separate alienazioni in favore del Me.Br. e del Pa.Gi.

3.1. Il primo motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 4), cod. proc. civ. – nullità della sentenza o del procedimento per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115, 116, 180, 183, 184, 194, 195 e 201 cod. proc. civ., con conseguente violazione degli artt. 101 cod. proc. civ., nonché degli artt. 24 e 111 Cost.

Si censura la sentenza impugnata per avere posto a fondamento della decisione le deduzioni e produzioni documentali del convenuto Pa.Gi., relative alla natura pubblica del “(omissis)”, sebbene inammissibili e inutilizzabili, in quanto effettuate, per la prima volta, solo con la perizia tecnica del Geom. Pa. e con i relativi allegati, depositata il 19 ottobre 2011, successivamente al verificarsi delle preclusioni processuali di cui agli artt. 180, 183 e 184 cod. proc. civ., e dopo che, espletata la consulenza tecnica d’ufficio, si era anche esaurito il contraddittorio tra le parti e i rispettivi tecnici.

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Né, d’altronde, potrebbe valere a giustificare la decisione della Corte marchigiana l’affermazione della stessa secondo cui la constatazione della contiguità, o meno, dei fondi si pone come elemento costitutivo del diritto di retratto che, in quanto tale, forma oggetto di mera difesa. Rileva, sul punto, la ricorrente che con le mere difese la parte convenuta “si limita a negare la sussistenza o fondatezza dei fatti costituitivi della domanda attrice, mentre con le eccezioni viene dedotto un fatto diverso, non compreso tra quelli allegati dalla controparte”. Nella specie, allegato da essa attrice l’elemento della contiguità era onere del convenuto “dedurre e provare nel rispetto dei termini del codice di rito, quale fatto impeditivo dell’altrui pretesa (diritto di prelazione e riscatto agrario), la presenza e la presunta natura e funzione pubblica del suddetto fosso, tale da escludere la già allegata e provata contiguità dei fondi”.

Inoltre, essendo la deduzione di tale fatto avvenuta in occasione della chiamata a chiarimenti del CTU solo in relazione al profilo della divergenza dei prezzi di acquisto dei due terreni, la difesa attorea sarebbe stata impossibilitata a contraddire adeguatamente su di esso, con vulnus recato al diritto di difesa e con violazione del principio del giusto processo.

Infine, si sottolinea l’inammissibilità e irrilevanza della documentazione allegata a supporto della perizia del Geom. Pa., trattandosi di certificazione del Consorzio di Bonifica del M, P, C, A e A (attestante l’esecuzione di un intervento manutentivo eseguito dal Consorzio sul predetto “(omissis)”), giacché risalente a più di trent’anni orsono, documento, peraltro, contraddetto dalla più recente nota n. 7437, del 18 agosto 2014, del Comune di M, con la quale essa Ma.Gr. veniva diffidata a “porre in essere la dovuta manutenzione di (omissis)”, in qualità di proprietaria frontista dello stesso; documento depositato nel presente giudizio e da ritenersi ammissibile, secondo la ricorrente, giacché prodotto a norma dell’art. 372 cod. proc. civ. per comprovare la denunciata nullità della sentenza.

3.2. Il secondo motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 4), cod. proc. civ. – nullità della sentenza o del procedimento per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., per omessa valutazione delle risultanze della CTU e per omessa motivazione al riguardo, in relazione alla dichiarata assenza di contiguità tra i fondi, per la ritenuta natura pubblica del mero fosso di raccolta delle acque di scolo dei fondi confinati, conclusione assunta in totale e non motivato dissenso dagli esiti della CTU.

3.3. Il terzo motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., nonché degli artt. 897, 2697, 2728 e 2729 cod. civ. e quindi dell’art. 7 della legge n. 817 del 1971, in relazione alla qualificazione giuridica della fattispecie per la dichiarata natura pubblica del mero fosso di raccolta delle acque di scolo dei fondi confinanti, idonea ad escludere il requisito della contiguità dei fondi, in violazione dei principi in materia di onere della prova e delle risultanze probatorie acquisite.

Si censura la sentenza perché, dopo aver correttamente richiamato il principio secondo cui “due fondi si considerano confinanti, anche se separati da un canale di scolo delle acque, quando in mancanza di prova contraria si presuma la comunanza dello stesso ai sensi dell’art. 897 cod. civ., mentre il rapporto di contiguità materiale viene meno allorché il canale sia pubblico per la funzione irrigua esercitata a servizio di una pluralità di fondi, idonea ad attribuirgli una vocazione pubblica incompatibile con quella di mera delimitazione del confine”, ha poi erroneamente escluso l’applicabilità alla fattispecie dell’art. 897 cod. civ. in mancanza di tempestiva e idonea prova contraria, suscettibile di vincere tale presunzione.

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Dal momento, infatti, che il Pa.Gi. ha dedotto tardivamente e irritualmente, attraverso la produzione della perizia redatta dal Geom. Pa., la pretesa natura pubblica del fosso in questione, ancorché non solo l’esistenza del “(omissis)”, ma pure la sua mera funzione di delimitazione del confine tra fondi limitrofi, non fosse mai stata contestata, sul punto si sarebbe determinato – a dire della ricorrente – l’effetto proprio della non contestazione, ex art. 115 cod. proc. civ., vale a dire la “relevatio ab onere probandi” per il deducente.

Si rileva, poi, che il “(omissis)” – in base a quanto risulta dalla comunicazione, in atti, n. 271514, del 30 marzo 2021, della Regione Marche – non è iscritto nell’elenco delle acque pubbliche della Provincia di M, né è identificabile come “corso d’acqua demaniale” dalla cartografia allegata a tale elenco, sicché, sebbene l’iscrizione in tale registro abbia solo valore meramente dichiarativo (e non costitutivo) della natura di acqua pubblica, a tali risultanze andava riconosciuto almeno valore indiziario della natura privata dello stesso.

Peraltro, come accertato dalla CTU ed emergente dalle fotografie ad essa allegate il fosso in questione, lungi dall’essere un corso d’acqua, “è un mero scavo di terra, di modeste dimensioni, ricoperto di vegetazione che cresce spontaneamente al centro e ai margini dello stesso, asciutto e privo d’acqua in assenza di piogge di una certa consistenza, funzionale esclusivamente al drenaggio delle acque di scolo dei fondi privati confinanti da esso delimitati”.

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4. Hanno resistito all’avversaria impugnazione, con controricorso, Me.Ti. e Me.Si., nonché Ga.Ne., tutte nella qualità di eredi di Me.Br., chiedendo che la stessa sia dichiarata inammissibile o, comunque, rigettata, nonché svolgendo ricorso incidentale condizionato, finalizzato a riproporre le stesse questioni oggetto dell’appello incidentale condizionato esperito dal loro dante causa e dichiarato assorbito dalla Corte dorica.

5. Ha resistito all’avversaria impugnazione, con controricorso, pure Pa.Gi., nella qualità di erede di Pa.Di., chiedendo che la stessa sia dichiarata inammissibile o, comunque, rigettata, nonché svolgendo ricorso incidentale, sulla base di un unico motivo.

5.1. Esso denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ., per avere la Corte territoriale liquidato le spese di lite in maniera del tutto arbitraria e completamente svincolata dai parametri dettati dal d.m. 10 marzo 2014, n. 55.

Si addebita alla Corte dorica di aver liquidato “complessivi Euro 3.100,00” a titolo di compensi, ovvero un importo non in linea con il valore della controversia, indicato dall’attrice – sulla base del prezzo delle compravendite – in Euro 912.357,00 e, dunque, compreso nello scaglione tra Euro 520.000,00 ed Euro 1.000.000,00.

Orbene, la sentenza impugnata ha non solo disatteso i parametri medi di liquidazione, in violazione del principio giurisprudenziale che impone di motivare lo scostamento da essi, ma ha pure omesso qualsiasi distinzione dei compensi per le singole fasi del processo.

Di conseguenza, sulla base dei parametri medi dello scaglione suddetto, la liquidazione dei compensi sarebbe dovuta ammontare a Euro 22.916,40, dei quali Euro 5.434,00 per la fase di studio, Euro 3.159,00 per la fase introduttiva, Euro 9.035,00 per la fase decisionale, più l’aumento del 30% ex art. 4, comma 2, del d.m. n. 55 del 2014, per un importo ulteriore di Euro 5.288,40.

6. È rimasta solo intimata Pa.An.

7. La trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380-bis 1 cod. proc. civ.

8. La ricorrente principale, tramite nuovo difensore, ha depositato memoria, al pari delle controricorrenti Me.Br. e Ga.Ne.

9. Non consta, invece, la presentazione di requisitoria scritta da parte del Procuratore Generale presso questa Corte.

RAGIONI DELLA DECISIONE

9. In via preliminare, deve dichiararsi l’inammissibilità di tutte le questioni, aventi carattere di novità (in relazione alla natura delle acque del bacino che separa i fondi oggetto di giudizio) prospettate dalla ricorrente principale nella memoria depositata in vista dell’adunanza camerale, giacché tale memoria – al pari di quelle previste sia dall’art. 378, che dall’originario testo dell’art. 380-bis cod. proc. civ – ha solo funzione illustrativa di censure già proposte (cfr., tra le molte, Cass. Sez. 6 – 3, ord. 27 agosto 2020, n. 17893, Rv. 658757 – 01)

10. Ciò detto, il ricorso principale va rigettato.

10.1. Il suo primo motivo non è fondato.

10.1.1. È, infatti, corretta l’affermazione della Corte dorica secondo cui l’accertamento della natura pubblica del “(omissis)” non le era precluso, trattandosi di circostanza rilevante ai fini della verifica della sussistenza – o meno – del requisito legale per l’esercizio del diritto di prelazione (e retratto), ex artt. 7 della legge 14 agosto 1971, n. 817 e 8 della legge 26 maggio 1965, n. 590, costituito dalla contiguità dei fondi.

Sul punto, invero, deve ribadirsi che “in tema di prelazione e riscatto agrario, il giudice del merito è tenuto, comunque, “ex officio”, alla verifica della sussistenza in concreto di tutte le molteplici condizioni volute dalla legge per l’accoglimento della domanda” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 6 giugno 2002, n. 8213, Rv. 554920 – 01), neppure esclusa, dunque, quella costituita dalla contiguità dei fondi.

Né, in senso contrario, può valere il rilievo – formulato dalla ricorrente – secondo cui la natura pubblica del fosso che delimitava i due fondi si poneva alla stregua di fatto impeditivo del diritto azionato, come tale, dunque, da introdurre in giudizio solo attraverso un’eccezione in senso stretto.

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Al contrario, che non si tratti di eccezione in senso stretto, è quanto risulta confermato alla luce della nozione che, di essa, ha dato questa Corte, secondo cui l’eccezione siffatta ha ad oggetto “quei fatti che senza escludere la sussistenza del rapporto implicato dalla domanda, sono tuttavia tali che, in loro presenza, risulti accordato al convenuto e disciplinato dal diritto sostanziale un potere rivolto ad impugnandum jus, ossia una potestà esercitabile al fine di fare venir meno il diritto dell’avversario”; essendosi ulteriormente precisato che, in simili casi, si è in presenza del “compimento di un apposito atto di manifestazione di volontà” che si atteggia “non diversamente da quanto accadrebbe qualora la parte, in luogo dell’esercizio in via di eccezione della potestà conferitagli dalla legge, vi provvedesse in via di azione” (Cass. Sez. Un., sent. 3 febbraio 1998, n. 1099, Rv. 512186 – 01). Sicché, in definitiva, “le eccezioni in senso stretto, cioè rilevabili soltanto a istanza di parte, si identificano o in quelle per le quali la legge espressamente riservi il potere di rilevazione alla parte o in quelle in cui il fatto integratore dell’eccezione corrisponde all’esercizio di un diritto potestativo azionabile in giudizio da parte del titolare” (Cass. Sez. Un., sent. 27 luglio 2005, n. 15661, Rv. 583491 – 01; analogamente, da ultimo, in motivazione, Cass. Sez. 3, ord. 6 maggio 2020, n. 8525, Rv. 657810 – 01).

Il tutto, peraltro, non senza rilevare – ciò che lo stesso giudice d’appello avrebbe dovuto fare (e che risulta consentito a questa Corte, non essendosi formato un giudicato interno contrario) – che la Ma.Gr., né illustrando il presente motivo, né esponendo i fatti di causa (pagg. 5 – 6 del ricorso principale), riferisce se, di fronte alla produzione dell’elaborato predisposto dal Pa. all’udienza del 19 ottobre 2011, ebbe ad eccepire la violazione del regime delle preclusioni nel corso dello svolgimento processuale e fino all’udienza di rimessione in decisione (ed eventualmente nella comparsa conclusionale o nella memoria di replica) e, dunque, fino a quando il giudice di primo grado avrebbe potuto a, sua volta, esercitare il potere officioso di rilevare l’ipotetica violazione delle norme sulle preclusioni.

In mancanza, pertanto, di una simile iniziativa. il giudice di appello – secondo l’orientamento affermato da questa Corte (Cass. Sez. 3, sent. 30 agosto 2018, n. 21381, Rv. 650325 – 01), nonché ribadito specificamente a proposito della violazione delle preclusioni istruttorie (Cass. Sez. 3, sent. 27 luglio 2021, n. 21529, Rv. 662196 – 01) – avrebbe dovuto rilevare l’inammissibilità del motivo di appello con cui si eccepiva, per la prima volta, l’inosservanza delle preclusioni.

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10.2. Il secondo motivo del ricorso principale è in parte inammissibile (là dove denuncia la omessa valutazione delle risultanze della CTU a norma degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ.) e in parte non fondato.

10.2.1. Inammissibile è, infatti, la censura di violazione dell’art. 115 cod. proc. civ. – norma che sancisce il principio secondo cui il giudice decide “iuxta alligata et probata partium” – giacché essa “può essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli” (Cass. Sez. 3, sent. 10 giugno 2016, n. 11892, Rv. 640192 – 01, in senso conforme Cass. Sez. Un., sent. 30 settembre 2020, n. 20867, Rv. 659037 – 01).

Inammissibile, del pari, è la censura di violazione dell’art. 116 cod. proc. civ., norma che sancisce il principio della libera valutazione delle prove, salva diversa previsione legale, essendo la stessa ravvisabile solo quando “il giudice di merito disattenda tale principio in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero, all’opposto, valuti secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime” (Cass. Sez. 3, sent. 10 giugno 2016, n. 11892, Rv. 640193 – 01, nello stesso, più di recente, in motivazione, Cass. Sez. 6 – 2, ord. 18 marzo 2019, n. 7618, non massimata sul punto, nonché Cass. Sez. 6 – 3, ord. 31 agosto 2020, n. 18092, Rv. 658840 – 02), mentre “ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, comma 1, n. 5), cod. proc. civ., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione” (Cass. Sez. Un., sent. 30 settembre 2020, n. 20867, Rv. 659037 – 02), ovvero evidenziando la presenza, nella motivazione, di profili di “irriducibile contraddittorietà” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940, Rv. 645828 – 01; Cass. Sez. 6 – 3, ord. 25 settembre 2018, n. 22598, Rv. 650880 – 01) o di inconciliabilità logica (da ultimo, Cass. Sez. 6 – Lav., ord. 25 giugno 2018, n. 16111, Rv. 649628 – 01), tali da rendere le sue “argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento” (Cass. Sez. Un., sent. 3 novembre 2016, n. 22232, Rv. 641526 – 01, nonché, più di recente, Cass. Sez. 6 – 5, ord. 23 maggio 2019, n. 13977, Rv. 654145 – 01).

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10.2.2. Non fondata, invece, è la censura relativa alla omessa motivazione delle ragioni di dissenso rispetto alla CTU, e ciò per la semplice ragione che essa si limita ad affermare che il fondo della Ma.Gr. e quello alienato al Me.Br. risultano separati dal “(omissis)”, senza prendere posizione sulla natura dello stesso; sicché la qualificazione dello stesso come pubblico non contrasta con le conclusioni raggiunte dall’ausiliario, non richiedendo alcuna motivazione specifica che illustrasse le ragioni per le quali esse erano state disattese.

10.3. Infine, il terzo motivo del ricorso principale è inammissibile.

10.3.1. La sentenza impugnata è censurata perché – si assume – ha ritenuto di poter superare la presunzione di cui all’art. 897 cod. civ. pur in difetto di idonea prova contraria. Senonché le censure formulate si risolvono, nuovamente, nella deduzione della tardività del rilievo della natura pubblica del “(omissis)” (censura la cui inammissibilità si è già evidenziata, nello scrutinare il primo motivo di ricorso), oppure nella deduzione di una condotta di “non contestazione” – con conseguente “relevatio ab onere probandi” – che, però, non ha mai riguardato la natura del fosso, bensì la sua presenza a delimitazione dei due fondi.

Quanto, poi, alla pretesa di mettere in discussione le risultanze del certificato del Consorzio di Bonifica, valorizzato dalla sentenza impugnata a conforto della tesi della natura pubblica del fosso, deve dichiararsi l’inammissibilità della produzione documentale ex art. 372 cod. proc. civ., effettuata dalla ricorrente principale (e richiamata a pag. 21 del proprio atto d’impugnazione).

Va data, infatti, continuità al principio secondo cui “le nullità della sentenza, prese in considerazione dall’art. 372 cod. proc. civ., al fine di consentire la produzione di nuovi documenti in cassazione, non sono solo quelle derivanti da vizi propri della sentenza, cioè dalla mancanza dei requisiti essenziali di forma Data di sostanza della sentenza, ma anche quelle originate, in via riflessa, da vizi radicali del procedimento”, con la precisazione, però, che deve trattarsi di vizi attinenti “alla identificazione dei soggetti del rapporto processuale e dunque alla legittimità del contraddittorio”, così determinando “la nullità degli atti processuali compiuti, che può essere dedotta e provata per la prima volta in sede di legittimità con idonea produzione documentale” (così, in motivazione, Cass. Sez. 2, sent. 2 aprile 2014, n. 7739, non massimata; in senso conforme Cass. Sez. 3, sent. 20 ottobre 2023, n. 29221, Rv. 669025 – 01).

Peraltro, l’illustrazione del motivo si articola comunque sollecitando una rivalutazione di circostanze fattuali, estranea ai limiti del giudizio di legittimtà.

11. Il rigetto del ricorso principale comporta l’assorbimento del ricorso incidentale condizionato delle eredi di Me.Br.

12. L’unico motivo del ricorso incidentale del Pa.Gi. è, invece, fondato.

12.1. Le spese del grado di appello sono state liquidate contravvenendo, in primo luogo, al principio secondo cui “la liquidazione dei compensi in applicazione del d.m. n. 55 del 2014 deve essere effettuata per ciascuna fase del giudizio, in modo da consentire la verifica della correttezza dei parametri utilizzati ed il rispetto delle relative tabelle” (Cass. Sez. 6 – Lav., ord. 23 luglio 2018, n. 19482, Rv. 650096 – 01), essendo stati, per contro, i compensi liquidati, unitariamente, “in complessivi Euro 3.100,00”.

Inoltre, la liquidazione è avvenuta con uno scostamento dai valori medi dello scaglione di riferimento (quello compreso tra Euro 520.000,00 ed Euro 1.000.000,00) in difetto di specifica motivazione.

Di qui, allora, la necessità di dare seguito al principio secondo cui, nella liquidazione delle spese processuali ai sensi del d.m. n. 55 del 2014, “l’esercizio del potere discrezionale del giudice, contenuto tra il minimo e il massimo, non è soggetto a sindacato di legittimità, attenendo pur sempre a parametri fissati dalla tabella, mentre la motivazione è doverosa allorquando il giudice decida di aumentare o diminuire ulteriormente gli importi da riconoscere, essendo necessario, in tal caso, che siano controllabili le ragioni che giustificano lo scostamento e la misura di questo” (da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 13 luglio 2021, n. 19989, Rv. 661839 – 03).

La sentenza va cassata sul punto con rinvio alla corte dorica, perché provveda nuovamente rimediando agli errori qui riscontrati.

13. Al giudice del rinvio è rimesso di provvedere sulle spese del presente giudizio di legittimità.

14. A carico della ricorrente principale, stante il rigetto del ricorso, sussiste l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, se dovuto secondo un accertamento spettante all’amministrazione giudiziaria (Cass. Sez. Un., sent. 20 febbraio 2020, n. 4315, Rv. 657198 – 01), ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.

Contratti agrari ed il diritto di prelazione e di riscatto

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale, dichiara assorbito il ricorso incidentale condizionato e accoglie il ricorso incidentale; cassa in relazione la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte d’Appello di Ancona, in diversa sezione e composizione, che provvederà anche sulle spese di lite del presente giudizio di legittimità.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente principale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, all’esito dell’adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, svoltasi il 2 maggio 2024.

Depositata in Cancelleria il 10 ottobre 2024.

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