Consiglio di Stato, sezione VI, sentenza 18 luglio 2016, n. 3194

Il permesso in sanatoria ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 è ottenibile solo a condizione che l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento sia della realizzazione del manufatto e sia della presentazione della domanda, venendo viceversa in questione, con la “sanatoria giurisprudenziale”, un atto atipico con effetti provvedimentali che si colloca al di fuori di qualsiasi previsione normativa e che pertanto non può ritenersi ammesso nel nostro ordinamento, contrassegnato dal principio di legalità dell’azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dall’Amministrazione, alla stregua del principio di nominatività, poteri che non possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l’invasione di sfere di attribuzioni riservate all’Amministrazione

Consiglio di Stato

sezione VI

sentenza 18 luglio 2016, n. 3194

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale

Sezione Sesta

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 8825 del 2015, proposto da Da. Tr. e Ma. Al., rappresentati e difesi dagli avvocati Ma. Ba. e Fa. To., con domicilio eletto presso l’avv. Gi. Co. in Roma, Via (…);

contro

Comune di Milano, in persona del Sindaco in carica, rappresentato e difeso dagli avvocati Ra. Iz., An. Ma., Pa. Co., Ma. Lo. Bo. e Al. Mo., con domicilio eletto presso l’avv. Ra. Iz. in Roma, -Lungotevere (…);

per la riforma

della sentenza del T.A.R. LOMBARDIA -MILANO -SEZIONE II, n. 1885 del 2015, resa tra le parti, concernente diniego di permesso di costruire in sanatoria -ordine di demolizione;

Visto il ricorso in appello, con i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Milano;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del 5 maggio 2016 il cons. Marco Buricelli e uditi per le parti gli avvocati To., Ba., e Pa. per delega di Co.;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1.Appare opportuno riepilogare i passaggi salienti della vicenda amministrativa sulla quale s’innesta il giudizio odierno.

In data 24 febbraio 2014 i ricorrenti e odierni appellanti hanno presentato al Comune di Milano istanza ex art. 38 della l. reg. n. 12 del 2005 di permesso di costruire a parziale sanatoria con riferimento all’avvenuta realizzazione, in difformità dal permesso di costruire n. 4 del 21 gennaio 2006, di un sottotetto senza permanenza di persone con requisiti di agibilità e utilizzato ad abitazione nell’edificio sito in (omissis).

L’istanza e l’intervento s’inserivano nell’ambito di una ristrutturazione edilizia con demolizione e ricostruzione di un edificio industriale e realizzazione di un nuovo edificio residenziale di sei piani fuori terra oltre a un piano sottotetto s.p.p., assentita con il citato permesso di costruire n. 4/2006.

Nell’istanza del 24 febbraio 2014 si faceva riferimento a una “richiesta di permesso di costruire in parziale sanatoria con opere di completamento per intervento di recupero abitativo di piano sottotetto esistente. Opere già eseguite: suddivisione interna e allestimento di locali abitabili in sottotetto s.p.p. e ampliamento della superficie delle aperture, in parziale difformità al PDC n. 4 del 24.1.2006 e successive DIA in variante… Opere di completamento da eseguire: trasformazione di finestra in luce senza veduta, pavimentazione lastrico solare”. Seguiva l’indicazione in dettaglio delle opere eseguite a completamento.

All’istanza faceva seguito, in data 12 maggio 2014, da parte del Settore Sportello Unico per l’Edilizia (SUE), la comunicazione, ai sensi dell’art. 10 bis della l. n. 241 del 1990, dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza.

Il SUE, avendo riscontrato, a seguito di sopralluoghi eseguiti dalla Polizia locale il 18.1.2011 e il 19.6.2012, l’esecuzione di opere in difformità da quanto rappresentato sugli elaborati grafici progettuali, emetteva comunicazione di avvio del procedimento finalizzato alla demolizione del sottotetto con requisiti di agibilità: con riferimento alle unità immobiliari di proprietà dei ricorrenti, l’abuso riguardava la realizzazione di tavolati divisori interni e nuove aperture esterne per la trasformazione di quattro locali sottotetto senza permanenza di persone con altezza interna di mt. 2,35 in due unità immobiliari adibite ad abitazione con altezza interna di mt. 2,69. Come accennato sopra le difformità non si limitavano alla maggiore altezza interna ma riguardavano anche modifiche distributive interne e l’esecuzione di aperture non previste dal progetto. Come si ricava dall’avviso di avvio, dall’istruttoria tecnica redatta in data 8.4.2014 si evinceva che le opere a sanatoria riguardano modifiche distributive interne che hanno trasformato locali dichiarati s.p.p. in locali residenziali agibili, con una diversa altezza interna da mt. 2,35 a mt. 2,69, misurati all’intradosso di una controsoffittatura, con formazione di intercapedine per passaggio impianti e trasformazione di una finestra a portafinestra; le opere relative al completamento consistono nella parziale chiusura di una finestra, opere murarie sul lastrico solare e la relativa pavimentazione. Il progetto non è assentibile perché l’esecuzione delle opere senza titolo ha determinato un incremento volumetrico non ammissibile in quanto non è consentita la formazione di volumi s.p.p. con altezza superiore a mt. 2,40. Inoltre le opere già realizzate hanno comportato caratteristiche di agibilità che vanno oltre i requisiti previsti dalla normativa sul recupero di sottotetto (artt. 63, 64 e 65 della l. r. n. 12/2005) in particolare per quanto riguarda le altezze interne elevate che determinano il superamento dei limiti di ammissibilità dell’intervento edilizio in quanto sono comprensive delle porzioni soprastanti controsoffittature (al riguardo è richiamata la circolare n. 4/2001).

Con provvedimento del 31 luglio 2014 -pratica n. 3372/2014 il dirigente del SUE ha ritenuto che le osservazioni presentate dagli interessati non valessero a superare le motivazioni poste a base del pre -diniego.

In particolare, con riferimento alla pretesa al rilascio del permesso di costruire a parziale sanatoria, motivata con l’ammissibilità del recupero abitativo dei sottotetti in base agli articoli 63 e seguenti della l. r. n. 12 del 2005, il SUE richiama l’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 il quale subordina l’ottenimento del permesso in sanatoria alla verifica della conformità dell’intervento edilizio alla disciplina urbanistico -edilizia vigente sia al momento della sua esecuzione e sia al momento della richiesta di accertamento di conformità. L’intervento edilizio eseguito, consistente nella realizzazione di un sottotetto con requisiti di agibilità (altezza superiore a quella ammessa per i locali s.p.p. e rapporti aeroilluminanti soddisfatti) non risulta conforme alla disciplina urbanistico -edilizia vigente né al momento della esecuzione, né al momento della richiesta di accertamento di conformità. E infatti, come si legge nel provvedimento impugnato, “con riferimento al momento della sua esecuzione”, “l’immobile è stato realizzato in difformità dal titolo edilizio originario (permesso di costruire n. 4 del 24.1.2006…, tanto che, accertata la difformità, a seguito dei sopralluoghi della Polizia Locale in data 18.1.2011 e in data 19.06.2012, l’Ufficio scrivente avviava il procedimento volto alla demolizione dei sottotetti e all’annullamento del silenzio assenso formatosi sulla domanda di agibilità, con atti… del 26.11.2012 (il 15.12.2014 verrà emesso un provvedimento di dichiarazione di inagibilità parziale dell’immobile di Viale Premuda, 20, impugnato dalla società Friends s.r.l. con ricorso straordinario al Capo dello Stato, n. d. est.). Le difformità all’epoca contestate -prosegue il SUE- consistevano, per l’appunto, nell’avvenuta realizzazione di nn. 2 unità immobiliari adibite ad abitazione, con altezza interna pari a m. 2,69 in luogo dei previsti nn. 4 locali sottotetto s.p.p. con altezza pari a m. 2,35, a mezzo della realizzazione della soletta di copertura a una quota superiore rispetto a quella assentita e della realizzazione di divisori interni e nuove aperture finestrate”.

“Con riferimento al momento della richiesta di accertamento di conformità”, nell’atto impugnato si osserva che “l’altezza del sottotetto a suo tempo realizzato è superiore a quella stabilita dalle vigenti disposizioni regionali in materia di recupero abitativo dei sottotetti (art. 64 l. r. n. 12/2005) che ammette “modificazioni di altezze di colmo e di gronda e delle linee di pendenza delle falde, unicamente al fine di assicurare i parametri di cui all’art. 63, comma 6″, e cioè l’altezza media ponderale di mt. 2,40 per ogni singola unità immobiliare. Diversamente,…l’altezza del sottotetto a suo tempo realizzato è pari a mt. 2,69 misurata all’intradosso della controsoffittatura”. Nel caso in esame, soggiunge il SUE, non trova applicazione la circolare n. 4/2001 nella parte in cui ammette in ipotesi particolari altezze superiori a mt. 2,40: il sottotetto presenta una copertura piana e l’altezza di mt. 2,69 è computata all’intradosso della copertura.

Di qui, il diniego di permesso in sanatoria e l’ordine di “demolizione del sottotetto con requisiti di agibilità, realizzato in difformità dal titolo edilizio originario, e di ripristino dello stato legittimo” dei luoghi entro 90 giorni.

2.Gli interessati hanno impugnati gli atti in epigrafe dinanzi al Tar Lombardia.

In particolare, con ricorso per motivi aggiunti proposto nell’ottobre del 2014 è stato contestato sotto molteplici profili il diniego del 31 luglio 2014.

Con la sentenza in epigrafe, pronunciata nella resistenza del Comune di Milano, il Tar ha, per quanto qui più rileva, respinto i motivi aggiunti. In sintesi il giudice di primo grado:

-ha rilevato che i ricorrenti non hanno allegato alcun elemento utile a dimostrare la conformità dell’intervento alla disciplina di riferimento avendo riguardo al momento della realizzazione dell’opera nonostante l’Amministrazione comunale avesse motivato il preavviso di diniego, e il diniego finale, sulla base dell’assenza di conformità delle opere alla disciplina urbanistico -edilizia vigente sia al momento della realizzazione dell’intervento e sia al momento della domanda di sanatoria;

– ha osservato che gli interventi in difformità dal titolo del 24.1.2006 sono stati accertati con il sopralluogo del 18.1.2011 e che pertanto non poteva considerarsi decorso il termine di cinque anni, dal rilascio dell’originario titolo edilizio, e comunque dal conseguimento dell’agibilità, richiesto dall’art. 63, comma 5, della l. r. n. 12 del 2005 per il recupero a fini abitativi dei sottotetti;

– ha statuito, in relazione alla tesi dei ricorrenti sull’applicabilità della c. d. “sanatoria giurisprudenziale” e sull’esigenza, quindi, di verificare unicamente la conformità urbanistico -edilizia dell’intervento con riferimento alla presentazione della domanda del permesso di costruire in sanatoria, prescindendo dalla verifica della conformità “originaria” dell’opera, con riguardo cioè al momento della realizzazione del manufatto, che l’accertamento della c. d. doppia conformità, di cui all’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, è presupposto imprescindibile ai fini del rilascio della sanatoria di opere edilizie, e che in modo corretto il Comune ha inteso richiedere la suddetta “doppia conformità” in modo esplicito, motivando in senso sfavorevole ai privati sulla non conformità dell’intervento alla disciplina urbanistico -edilizia vigente sia al momento della esecuzione dell’intervento e sia al momento della presentazione della domanda;

– ha osservato che la contestazione del 18 gennaio 2011 circa la realizzazione di due unità abitative esclude la realizzazione a quella data di un intervento di recupero di sottotetto poiché a tal fine sarebbe stato necessario dimostrare la realizzazione di un sottotetto non abitabile e il decorso di cinque anni dal conseguimento dell’agibilità, sicché il provvedimento impugnato si basa non su una illegittimità formale dell’intervento, ma su un’illegittimità sostanziale;

– ha accertato la legittimità del provvedimento impugnato nella parte in cui viene negato l’accertamento di conformità richiesto dai ricorrenti, e ciò per la decisiva ragione che la non conformità originaria dell’intervento non solo non è stata confutata dai ricorrenti ma risulta anzi da loro sostanzialmente ammessa. Non a caso i ricorrenti stessi si appellano all’istituto della c. d. sanatoria giurisprudenziale;

– ha assorbito per carenza di interesse le censure articolate con il primo mezzo dei motivi aggiunti contro l’altra motivazione del diniego, posto che il diniego impugnato, “plurimotivato”, risulta comunque sorretto da una ragione idonea a sostenerlo;

– ha considerato legittimo il provvedimento impugnato nella parte in cui esso reca l’ordine di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi, in quanto l’omessa indicazione, nell’ordinanza di demolizione, dell’area che viene acquisita, di diritto e gratuitamente, al patrimonio comunale non costituisce ragione di illegittimità dell’ordinanza stessa.

3.L’appello interposto avverso la sentenza risulta suddiviso in due parti: sub A) (da pag. 7 a pag. 20 dell’atto d’appello) gli appellanti hanno contestato la sentenza nella sua interezza con quattro motivi. Sub B) (da pag. 21 a pag. 32 ric. app.), sono state riproposte in via devolutiva, ai sensi dell’art. 101, comma 2, del cod. proc. amm., le censure formulate nel ricorso di primo grado e con il ricorso per motivi aggiunti.

Sub A/I) gli appellanti, nel dedurre errata ricostruzione dei fatti di causa -non corretta valutazione degli elementi probatori forniti in giudizio, sostengono che la sentenza di primo grado avrebbe errato nel ritenere sussistente un’illegittimità originaria del manufatto, successivamente recuperato come sottotetto, per contrasto con il permesso di costruire n. 4/2006 e successive varianti. In particolare il Tar sarebbe pervenuto a questa conclusione erronea dando valore probatorio alle risultanze dei sopralluoghi effettuati rispettivamente il 18.1.2011 e il 19.6.2012 senza considerare che la dichiarazione di fine lavori è stata presentata in data 5.8.2008 e in assenza quindi di una prova certa dell’illegittimità originaria dei manufatti poi trasformati in sottotetti con permanenza di persone; i lavori contestati sarebbero stati realizzati dopo il 2008, data della dichiarazione fine lavori, e prima degli accertamenti del 2011 -2012. A conferma di tale ricostruzione l’appellante richiama la dichiarazione resa dal direttore dei lavori alla Polizia locale, con la quale si afferma che a fine lavori le opere sarebbero state conformi al permesso di costruire e che le modifiche sarebbero state realizzate successivamente. Il Tar ha preteso di dichiarare la non conformità originaria del sottotetto rispetto al permesso di costruire n. 4/2006 in assenza di una prova certa a questo riguardo, posto che i sopralluoghi sono di gran lunga posteriori (2001 -2012) alla data della fine lavori (2008).

La sentenza avrebbe altresì errato nel ritenere necessario ai fini del recupero del sottotetto la dimostrazione, a carico dei ricorrenti, dell’originaria conformità delle opere in quanto l’oggetto dell’accertamento sarebbe stato esclusivamente quello della conformità al momento della domanda del permesso di costruire in sanatoria.

Sub A/II) gli appellanti, nel formulare la censura di violazione dell’art. 112 c.p.c. -omessa pronuncia sui motivi di ricorso -violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato -violazione art. 63 della l. r. n. 12/2005 e travisamento dei presupposti, affermano che la sentenza di primo grado avrebbe omesso di pronunciarsi su una questione cruciale ai fini del decidere, attinente al criterio di calcolo dell’altezza media ponderale dei locali oggetto dell’intervento di recupero del sottotetto, con particolare riferimento al quesito se l’altezza di 2,40 m. di cui all’art. 63, comma 6, della l. r. n. 12 del 2005, ai fini del recupero abitativo dei sottotetti esistenti, debba essere intesa solo come altezza minima (ed è questa la tesi dei ricorrenti e odierni appellanti) o anche come altezza massima (come ritiene il Comune). Ad avviso degli appellanti detta censura sarebbe centrale ai fini di causa: nonostante ciò, il primo giudice non si è pronunciato sul motivo in argomento, in violazione dell’art. 112 c.p.c., avendo applicato la tecnica dell’assorbimento per ragioni di economia processuale.

Nell’atto di appello si evidenzia in particolare che in base a una lettura congiunta dei commi 5 e 6 dell’art. 63 della l. r. n. 12 del 2005 si ricava la possibilità di derogare al principio dell’altezza minima di mt. 2,70, facendo riferimento a un’altezza media ponderale di mt. 2,40 che, a differenza di quanto ritiene il Comune, non va intesa come limite di altezza massimo raggiungibile. La previsione della legge regionale non sarebbe indicativa di un’altezza massima, potendo quindi realizzarsi un sottotetto con un’altezza superiore ai 2,40 mt. Peraltro i locali sono stati realizzati senza alcuna modifica delle altezze di colmo dell’edificio atteso che, come emerge dagli atti, il sottotetto presenta una copertura piana. Si sostiene che non è stata apportata nessuna modifica all’altezza complessiva dell’edificio (che era, ed è rimasta, di mt. 23,65) con la realizzazione dell’intervento in questione.

Con il motivo di cui ad A/III) -ultrapetizione, gli appellanti rimarcano che la decisione di primo grado avrebbe errato nel pronunciarsi su aspetti della vicenda non indicati nel provvedimento comunale impugnato e quindi non censurati dai ricorrenti. Nell’atto di gravame si sottolinea in particolare che il Tar si è pronunciato sulla circostanza secondo la quale, quando l’intervento di recupero del sottotetto era stato posto in essere, non erano ad avviso del giudice trascorsi i cinque anni dall’ottenimento dell’agibilità, previsti dall’art. 63, comma 4, della l. r. cit., quale presupposto per la realizzazione degli interventi di recupero edilizio a fini abitativi dei sottotetti esistenti. Senonché, la questione della (presunta) assenza del requisito dei cinque anni dal conseguimento dell’agibilità ex art. 63 della l. r. n. 12 del 2005 è stata per la prima volta rilevata dal giudice senza che il tema avesse formato oggetto di trattazione nei provvedimenti impugnati e nel ricorso di primo grado. In ogni caso, è da ritenersi erronea l’affermazione giudiziale sulla (presunta) mancanza del decorso dei cinque anni tra la presentazione della dichiarazione di fine lavori (5.8.2008), e il conseguimento dell’agibilità anche per silenzio -assenso (4.10.2008), e l’istanza di permesso in sanatoria del 26.2.2014, essendo trascorsi al riguardo ben più di cinque anni.

Sub A/IV) – ultrapetizione sotto altro profilo – sanatoria giurisprudenziale, si sostiene che la sentenza di primo grado sarebbe incorsa in un’ultrapetizione ulteriore nel pronunciarsi sulla inammissibilità della sanatoria giurisprudenziale -e sulla necessaria doppia conformità ai fini dell’applicazione dell’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001- poiché le parti non avrebbero sollecitato una decisione del giudice sull’ammissibilità o meno della sanatoria giurisprudenziale. I ricorrenti e odierni appellanti, nell’istanza del febbraio 2014, avevano precisato che intendevano accedere alla c. d. “sanatoria giurisprudenziale”; l’Amministrazione comunale, nel provvedimento impugnato, non ha negato l’ammissibilità della suddetta forma peculiare di sanatoria. Nonostante ciò il Tar ha specificato, nella motivazione, che occorreva il requisito della c. d. “doppia conformità”, operando anche un richiamo giurisprudenziale a Cons. Stato, V, n. 2755 del 2014. Nel merito, le peculiarità del caso concreto sarebbero, ad avviso degli appellanti, idonee per consentire l’applicazione della “sanatoria giurisprudenziale” e ciò in quanto si fa questione di un intervento edilizio che oggi sarebbe consentito poiché conforme alla normativa di riferimento, dato che l’altezza ponderale può essere anche superiore ai 2,40 mt..

Quanto alla riproposizione in via devolutiva dei motivi formulati in primo grado: i ricorrenti avrebbero realizzato un intervento formalmente abusivo, in quanto eseguito senza il previsto rilascio del titolo edilizio, ma conforme nella sostanza alla disciplina urbanistica ed edilizia sul recupero dei sottotetti ed in ragione di ciò è stata domandata la sanatoria che il Comune avrebbe dovuto assentire riscontrandone la conformità sostanziale alla disciplina vigente; l’Amministrazione comunale avrebbe dovuto verificare che l’intervento fosse conforme alla disciplina sul recupero dei sottotetti e non limitarsi ad asserire che era stato realizzato un incremento volumetrico; la circolare del Comune di Milano n. 4/2001 recante “chiarimenti su recupero abitativo dei sottotetti: altezze ammissibili” è da ritenersi illegittima nella parte in cui introduce prescrizioni, quale quella dell’altezza massima di mt. 2,40, salve eccezioni inapplicabili al caso in esame, non previste dalla l. r. di riferimento.

Nel riproporre i motivi aggiunti dedotti in primo grado viene ribadito che l’altezza media ponderale di mt. 2,40 è un’altezza minima obbligatoria ma non massima e che il Comune avrebbe errato nel ritenere l’intervento non sanabile posto che l’altezza dell’unità immobiliare è superiore a 2,40 mt., anche se inferiore a 2,70 mt.; infine, il provvedimento impugnato sarebbe illegittimo per l’assenza dell’informativa circa l’acquisizione gratuita dell’opera edilizia al patrimonio comunale una volta decorso infruttuosamente il termine per la demolizione delle opere abusive.

L’Amministrazione comunale si è costituita per resistere.

Per l’appellata, l’intervento non rispetta la doppia conformità richiesta dall’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 per il rilascio del permesso in sanatoria. Nella specie difetta sia il requisito dei cinque anni dalla data del conseguimento dell’agibilità (fine lavori nel 2008 e accertamento dell’abuso nel 2011, questa la posizione del Comune) e sia il rispetto dell’altezza dei 2,40 mt. (da intendersi, secondo l’Amministrazione, anche come altezza massima qualora per la realizzazione dell’intervento occorra modificare le caratteristiche delle coperture).

L’intervento realizzato non sarebbe conforme né al titolo originariamente rilasciato, e neppure alla disciplina sul recupero dei sottotetti. In particolare, le affermazioni dei ricorrenti e odierni appellanti circa l’assenza di una prova certa sulla trasformazione del manufatto in sottotetto abitativo sin dal 2008 risulterebbero smentite dalla tipologia della struttura realizzata, che non avrebbe potuto essere modificata dopo la sua originaria realizzazione a meno di pesanti lavori di demolizione e di ricostruzione. Le opere difformi dal permesso di costruire sarebbero già state realizzate nel 2008. La difesa dell’Amministrazione rimarca poi che il Comune, accertate le difformità delle opere dal progetto assentito con il permesso di costruire n. 4/2006 e successive varianti, ha annullato il silenzio-assenso formatosi sulla domanda di agibilità. Va esclusa in ogni caso l’ammissibilità del recupero volumetrico a scopo residenziale.

La Sezione, con ordinanza n. 5260 del 2015, ha sospeso l’esecutività della sentenza impugnata.

In prossimità dell’udienza di discussione dell’appello nel merito gli appellanti hanno segnalato che il Tribunale ordinario di Milano, sezione II penale, ha assolto il ricorrente Al. dall’accusa di falsità in atti, in riferimento alla dichiarazione di fine lavori. L’A. G. non ha ritenuto raggiunta la prova del fatto che in data anteriore al sopralluogo del 2012 l’immobile fosse stato già modificato per renderlo abitabile.

Le parti hanno illustrato le rispettive posizioni con memorie conclusive.

All’udienza del 5 maggio 2016 il ricorso è stato discusso e quindi trattenuto in decisione.

4.L’appello va respinto, ma con le indispensabili integrazioni e precisazioni motivazionali che seguiranno.

4.1. In via preliminare va precisato come non assuma rilievo ai fini della decisione odierna lo stabilire se l’istanza di rilascio di permesso di costruire a sanatoria del febbraio 2014 dovesse essere qualificata come inerente all’ottenimento di una “sanatoria giurisprudenziale”, con la conseguenza che, ad avviso degli appellanti, il Comune e il Tar avrebbero dovuto pronunciarsi in via esclusiva sulla questione attinente all’esistenza, o meno, della c. d. “seconda conformità”; oppure se l’istanza ricadesse entro un procedimento amministrativo di sanatoria per dir così “ordinario”, finalizzato al rilascio di un permesso in sanatoria ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001.

Dall’esame degli atti, l’istanza in discussione non risulta qualificabile come diretta a ottenere un permesso di costruire in “sanatoria giurisprudenziale”.

La domanda del febbraio 2014 di permesso di costruire “in parziale sanatoria” fa riferimento in maniera generica all’art. 38 della l. reg. n. 12 del 2005 -procedimento per il rilascio del permesso di costruire.

In ogni caso, anche a voler classificare la richiesta del febbraio 2014 come diretta all’ottenimento di una “sanatoria in via giurisprudenziale”; anche a voler riconoscere che i ricorrenti e odierni appellanti abbiano domandato al Comune l’applicazione della c. d. “sanatoria giurisprudenziale”, in modo legittimo e corretto l’Amministrazione ha ritenuto di non aderire alla prospettazione degli interessati e ha valutato l’istanza “de qua” alla stregua di quanto prevede l’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, sull’accertamento di conformità, disposizione in base alla quale il permesso in sanatoria viene accordato se l’intervento risulta conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dell’opera e sia al momento della presentazione della domanda.

Sotto questo aspetto, come si è puntualizzato nella narrativa in fatto (v. sopra, p. 1.), con il provvedimento del 31.7.2014 il Comune, dopo avere fatto richiamo all’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, ha specificato che l’intervento edilizio eseguito non risulta conforme alla disciplina urbanistico -edilizia né con riferimento al momento della realizzazione dell’intervento e neppure avendo riguardo al momento della presentazione della domanda di permesso in sanatoria.

Il Comune ha vagliato in maniera legittima la rispondenza dell’intervento edilizio, della cui richiesta di assenso in sanatoria ex art. 36 cit. si faceva questione, avendo riguardo alla disciplina urbanistico -edilizia vigente sia al momento dell’esecuzione dell’intervento stesso e sia con riferimento al momento della presentazione della domanda.

E in maniera corretta la sentenza ha puntualizzato che, in base alla giurisprudenza amministrativa predominante, e qui condivisa, ai fini del rilascio della sanatoria ex art. 36 cit. non si può prescindere dall’accertamento positivo del possesso del requisito della c. d. doppia conformità.

A questo proposito questo Collegio ritiene di condividere e di poter fare rinvio, anche ai sensi degli articoli 74 e 88, comma 2, lett. d) del cod. proc. amm., alle argomentazioni e alle conclusioni delle sentenze di questo Consiglio di Stato nn. 2755 del 2014 e 2784 e 4552 del 2015 (si vedano anche i numerosi richiami giurisprudenziali operati da Cons. Stato n. 2755 del 2014), in base alle quali il permesso in sanatoria ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 è ottenibile solo a condizione che l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento sia della realizzazione del manufatto e sia della presentazione della domanda, venendo viceversa in questione, con la “sanatoria giurisprudenziale”, un atto atipico con effetti provvedimentali che si colloca al di fuori di qualsiasi previsione normativa e che pertanto non può ritenersi ammesso nel nostro ordinamento, contrassegnato dal principio di legalità dell’azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dall’Amministrazione, alla stregua del principio di nominatività, poteri che non possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l’invasione di sfere di attribuzioni riservate all’Amministrazione.

A questo riguardo pare poi il caso di rammentare che a favore della incompatibilità della c. d. sanatoria giurisprudenziale con il dettato normativo di cui all’art. 36 del t. u. n. 380 del 2001 militano argomenti interpretativi letterali e logico -sistematici, oltre che attinenti ai lavori preparatori.

Pertanto il motivo d’appello con il quale si deduce l’erroneità della sentenza per avere considerato inapplicabile la sanatoria giurisprudenziale e considerato invece necessario, ai fini del rilascio del permesso in sanatoria ex art. 36 cit., l’accertamento della doppia conformità dell’intervento, non può essere accolto.

4.2. Va poi rilevato che la sentenza, nel muovere dagli assunti in base ai quali il diniego di sanatoria del 31 luglio del 2014 doveva considerarsi un atto plurimotivato, e una delle giustificazioni sulle quali esso si reggeva, riferita alla non conformità dell’intervento rispetto alla disciplina urbanistico -edilizia vigente al momento della realizzazione dell’opera, doveva considerarsi legittima e corretta (su questo punto si tornerà più avanti, al p. 4.4.), ha considerato assorbito per carenza d’interesse il profilo di censura -che i ricorrenti e odierni appellanti considerano “cruciale” e “motivo cardine” del ricorso, sul quale il Tar ha omesso di pronunciarsi in asserita violazione dell’art.112 c.p.c.- articolato contro la motivazione del diniego di sanatoria basata sulla non conformità dell’intervento con riferimento al momento della richiesta dell’accertamento di conformità.

Si tratta del criterio di interpretazione e di calcolo dell’altezza media ponderale di mt. 2,40 per ogni singola unità abitativa ai fini del recupero dei sottotetti, di cui all’art. 63, comma 5, della l. reg. n. 12 della l. reg. n. 12 del 2005: se cioè si tratti di altezza minima, come ritengono gli appellanti, o di altezza massima, come ritiene il Comune.

Sotto questo aspetto, è affermazione talmente consolidata in giurisprudenza da non richiedere il sostegno di precedenti specifici quella per la quale in caso di provvedimento plurimotivato il rigetto della doglianza diretta a contestare una delle ragioni giustificatrici dell’atto lesivo comporta la carenza di interesse della parte ricorrente all’esame delle censure ulteriori volte a contestare le altre ragioni giustificatrici dell’atto medesimo, atteso che, seppur tali ulteriori censure si rivelassero fondate, il loro accoglimento non sarebbe comunque idoneo a soddisfare l’interesse del ricorrente a ottenere l’annullamento del provvedimento lesivo, che resterebbe supportato dall’autonomo motivo riconosciuto sussistente e legittimo.

E poiché, come si vedrà più avanti, l’attività edilizia compiuta è stata considerata in modo legittimo non conforme alla disciplina vigente con riguardo al momento della realizzazione dell’intervento, in maniera corretta il Tar ha considerato assorbiti i profili di censura sollevati avverso il capo di motivazione del diniego di sanatoria del 31 luglio 2014 riferito alla non conformità dell’intervento rispetto alla disciplina vigente al momento della realizzazione dell’opera.

Non viene dunque in questione una omessa pronuncia quanto invece una -ammissibile e corretta- declaratoria di carenza di interesse a pronunciarsi sulla censura.

4.3. In terzo luogo va rimarcato che la questione dei cinque anni, vale a dire la circostanza che nel caso in esame ad avviso del Tar mancava il requisito del decorso dei cinque anni dal conseguimento dell’agibilità, anche mediante silenzio assenso, perché potesse trovare applicazione la disciplina sul recupero dei sottotetti ai fini abitativi, non aveva formato oggetto di trattazione nel provvedimento impugnato in primo grado.

Sotto questa angolazione, in modo corretto gli appellanti, sub A/III), hanno dedotto una integrazione postuma della motivazione in sede giudiziale, in maniera coerente del resto con l’esistenza di un solido orientamento, anche di questa Sezione, che propende per la inammissibilità della motivazione postuma del provvedimento lesivo, addotta dall’Amministrazione emanante in sede giudiziale, e questo anche dopo che, con la legge n. 15 del 2005 che ha inserito l’art. 21 -octies nella legge n. 241 del 1990, si è assistito a una “dequotazione” dei vizi formali del provvedimento amministrativo e, segnatamente, del vizio di difetto di motivazione: sul punto v., “ex plurimis”, Cons. St., sez. VI, n. 5598 del 2011 e 4993 del 2009; conf., più di recente, sez. III, n. 2247 del 2014.

Il motivo di appello sub A/III), recante ultrapetizione, potrebbe quindi trovare accoglimento, almeno in astratto, e questo indipendentemente dalla verifica in ordine al decorso effettivo, o meno, dei cinque anni tra il conseguimento dell’agibilità e la presentazione della richiesta di applicazione della normativa sul recupero abitativo dei sottotetti, posto che la questione della (presunta) assenza del requisito dei cinque anni dal conseguimento dell’agibilità ex art. 63 della l. r. n. 12 del 2005 risulta essere stata rilevata dal giudice per la prima volta senza che il tema avesse formato oggetto di trattazione nei provvedimenti impugnati e nel ricorso di primo grado. Ricorso di primo grado che risulta imperniato “in toto” sulla tesi della sussistenza della “seconda conformità” dell’intervento di cui è chiesta la sanatoria, rispetto cioè alla disciplina vigente -al momento della presentazione della istanza ex art. 36 cit.- sulla materia del recupero abitativo dei sottotetti, dato che come si rileva in sentenza la non conformità originaria dell’intervento non solo non è stata confutata dai ricorrenti ma risulta da loro sostanzialmente ammessa.

Tuttavia, l’accoglimento del motivo non implicherebbe un sovvertimento dell’esito del giudizio di primo grado, dato che il dispositivo della decisione impugnata risulta corretto: di qui, pertanto, l’inammissibilità della censura per carenza di interesse, posto che la statuizione della sentenza, oggetto di critica, non assume rilievo ai fini della definizione della controversia.

Da ciò discende anche l’irrilevanza della richiesta di sospensione del giudizio per ragioni di pregiudizialità in relazione alla pendenza di un ricorso straordinario al Capo dello Stato avverso la dichiarazione di inagibilità sopravvenuta nel dicembre del 2014.

4.4. Sulla questione -sub A/I)- relativa alla “conformità originaria”, o meno, dell’intervento, in disparte il rilievo -che, pure, potrebbe essere decisivo per la reiezione del motivo e quindi dell’intero gravame- in base al quale la non conformità riferita al momento della realizzazione del manufatto non risulta confutata dai ricorrenti nel primo grado del giudizio (e anche nella memoria di replica del 14 aprile 2016 gli appellanti si dichiarano consapevoli dell’assenza della prima conformità e si limitano a chiedere il riconoscimento della c. d. sanatoria giurisprudenziale e una verifica, positiva, sulla sussistenza della “seconda conformità”); in disparte ciò, dagli atti risulta che:

-in esito ai sopralluoghi effettuati (si veda, in particolare, la relazione del Comune in data 19.9.2012), il Comune ha accertato che le opere di cui al permesso di costruire n. 4/2006 e sue varianti sono state eseguite con difformità evidenti rispetto a quanto indicato negli elaborati grafici e ciò sia per quanto riguarda l’altezza interna e sia per quanto concerne le modifiche distributive interne e l’esecuzione di aperture non previste nel progetto, venendo a esistenza una fusione di unità immobiliari con cambio di destinazione da “senza permanenza di persone a residenza”;

-per quanto attiene alla data della realizzazione delle opere difformi dal permesso di costruire n. 4/2006, gli appellanti pongono in risalto la sentenza di assoluzione del Tribunale ordinario di Milano -Sezione II penale, n. 5493 del 2015, “perché il fatto non sussiste”, pronunciata nei confronti dell’appellante.

A questo riguardo va rammentato in termini generali che nei rapporti tra giudizio penale e giudizio amministrativo la regola è quella dell’autonomia e della separatezza, fermo il disposto di cui all’art. 654 c.p.p..

Con riferimento alla peculiare situazione per cui è causa, va rimarcato, con il Comune, che la sentenza di assoluzione del Tribunale di Milano non accerta che l’attestazione di fine lavori rilasciata in data 5.8.2008 sia rispondente al vero, ma semplicemente statuisce che “Non si è… raggiunta la prova della falsità della dichiarazione di fine lavori nella parte in cui attesta la conformità al progetto delle opere realizzate” soggiungendo che alla data del 5.8.2008 “non si (poteva) escludere che l’intervento edilizio sull’immobile di viale Premuda corrispondesse esattamente alle tavole tecniche di cui al permesso di costruire e alle successive varianti”. Con tale motivazione gli imputati sono stati assolti dall’imputazione penale, “mancando o essendo comunque insufficiente la prova circa la sussistenza del fatto in contestazione oltre ogni ragionevole dubbio”. La sentenza dà conto delle risultanze istruttorie acquisite nel corso del procedimento penale; ma dalla lettura della pronuncia si desume che queste si sono limitate alla valutazione degli elementi emersi nel corso dei sopralluoghi compiuti nel 2011 e nel 2012, confermate dalle testimonianze rese in giudizio dagli agenti della vigilanza urbana.

L’accertamento compiuto dal giudice penale relativo alla responsabilità penale degli imputati per i reati loro attribuiti non limita affatto la possibilità di accertamento dei fatti rimessa al giudice amministrativo, al quale spetta la verifica di legittimità degli atti comunali impugnati. L’accertamento del giudice penale non incide sull’ambito del sindacato del giudice amministrativo chiamato a giudicare della legittimità degli atti amministrativi emessi dal Comune.

Sotto questa angolazione va sottolineato:

-che nel corso del sopralluogo del 19.6.2012 gli appellanti ebbero a dichiarare che le opere finalizzate all’uso abitativo erano state eseguite contestualmente ai lavori di edificazione dell’immobile e che il loro utilizzo risaliva alla data della presentazione della richiesta del certificato di agibilità (secondo semestre del 2008);

-che, come si ricava dalla relazione di collaudo depositata agli atti comunali in data 5.8.2008, l’intervento è consistito nella esecuzione di travi, pilastri, scale di collegamento in cemento armato e solette di copertura in latero cemento, descrizione che comporta che la struttura portante dell’edificio, fatta di pilastri e solette, era stata realizzata, sin dall’origine, con una gettata in opera di conglomerato cementizio armato: sicché l’ipotesi, prospettata dagli appellanti, secondo la quale la soletta di copertura in cemento armato sarebbe stata demolita e costruita in un momento successivo alla conclusione dei lavori e una quota superiore, appare chiaramente inattendibile, fino a lambire l’inverosimiglianza, dal punto di vista tecnico -edilizio ed economico, stante la notevole complessità delle lavorazioni richieste e gli elevati -e sproporzionati- costi di un intervento cosiffatto.

Risulta dunque attendibile e comunque plausibile la valutazione operata dal SUE di difformità dell’intervento rispetto al permesso di costruire “originario” n. 4/2006 e con riferimento alla disciplina urbanistico -edilizia vigente al momento della realizzazione dell’abuso (2008).

La non conformità originaria dell’intervento risulta quindi appurata e tanto basta per sorreggere il provvedimento del 31.7.2014.

4.5. In definitiva:

-una corretta applicazione dell’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 implica e presuppone l’accertamento in ordine alla “doppia conformità” dell’intervento, sicché la verifica di non conformità riferita al momento della realizzazione dell’intervento preclude il rilascio del permesso in sanatoria;

-nel caso in esame non poteva trovare applicazione la c. d. sanatoria giurisprudenziale: andava seguita -come il Tar bene ha ritenuto di fare- la giurisprudenza dominante che richiede la verifica della “doppia conformità”;

-nell’ipotesi di atto amministrativo plurimotivato, e ogni qual volta la legge condiziona la previsione di un beneficio all’esistenza di una pluralità di requisiti concomitanti, l’accertata fondatezza e legittimità di una delle ragioni poste a base dell’atto lesivo determina la carenza d’interesse a prendere in esame e a decidere il motivo ulteriore diretto a contestare le altre ragioni giustificatrici del provvedimento sfavorevole, sicché ben poteva il Tar esimersi -come ha fatto- dal prendere posizione sulla questione relativa al criterio di calcolo dell’altezza media ponderale dei locali oggetto dell’intervento di recupero del sottotetto, con particolare riferimento al quesito se l’altezza di 2,40 m. di cui all’art. 63, comma 6, della l. r. n. 12 del 2005, ai fini del recupero abitativo dei sottotetti esistenti, debba essere intesa solo come altezza minima (questa la tesi degli appellanti) o anche come altezza massima (come ha ritenuto il Comune). L’omessa verifica da parte del Tar circa l’esistenza, o meno, del requisito della “seconda conformità” non integra pertanto il vizio di omessa pronuncia, o di violazione della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, dedotto con l’appello;

-la “questione del decorso dei cinque anni” ex art. 63, comma 4, della l. r. n. 12 del 2005 esulava dalla motivazione sulla quale si fondava il diniego impugnato in primo grado, sicché la sentenza ha pronunciato “ultra petita” nel rilevare il mancato decorso dei cinque anni, dalla data del conseguimento dell’agibilità, prescritto dal citato art. 63, ai fini del recupero volumetrico del piano sottotetto a scopo abitativo. Si tratta, tuttavia, di una statuizione irrilevante in concreto ai fini della definizione dell’appello, come si è rilevato sopra, al p. 4.3.;

-in disparte la circostanza che la non conformità originaria dell’intervento non risulta essere stata contestata in modo specifico dai ricorrenti in primo grado, ma risulta sostanzialmente ammessa (conf. memoria di replica 14.4.2016 laddove gli appellanti si dichiarano consapevoli dell’assenza del requisito della “prima conformità” dell’intervento), l’accertamento di non conformità, con riguardo al momento della realizzazione del manufatto, compiuto dal SUE con il provvedimento impugnato in primo grado, risulta legittimo e sufficiente per sorreggere il provvedimento medesimo.

In conclusione l’appello va respinto e la sentenza confermata, con le integrazioni e le precisazioni motivazionali sopra riportate.

Taluni elementi di complessità della controversia giustificano in via eccezionale la compensazione integrale delle spese del grado di giudizio tra le parti.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge confermando, per l’effetto, la sentenza impugnata.

Spese del grado del giudizio compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 5 maggio 2016 con l’intervento dei magistrati:

Sergio Santoro – Presidente

Roberto Giovagnoli – Consigliere

Bernhard Lageder – Consigliere

Marco Buricelli – Consigliere, Estensore

Francesco Mele – Consigliere

Depositata in Segreteria il 18 luglio 2016.

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