Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 15 novembre 2017, n. 5270. In sede di rilascio del titolo abilitativo edilizio, il Comune non può esimersi dal verificare il rispetto, da parte dell’istante, dei limiti privatistici sull’intervento proposto

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In disparte le questioni circa la validità di tali delibere e l’effettivo rispetto (o meno) delle norme del codice civile richiamate, la cui cognizione spetta al Giudice Ordinario, deve in ogni caso convenirsi che alla luce del contesto fattuale innanzi descritto nel quale è maturato il provvedimento favorevole a De., non è ravvisabile alcuna violazione della norma di cui all’art. 11 D.P.R. 380/2002 e all’art. 34, comma 1, della L.R. n. 16/2008 in base ai quali: il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell’immobile o a chi abbia titolo per richiederlo.
Invero, conformemente al costante orientamento giurisprudenziale in materia, deve affermarsi che la P.A. non è tenuto a svolgere complessi accertamenti diretti a ricostruire le vicende riguardanti la titolarità dell’immobile, o a ricercare le limitazioni negoziali al diritto di costruire (cfr. Cons St., Sez. IV, 22 novembre 2013, n. 5563). In altre parole, non è concretamente esigibile un approfondimento da parte del Comune di ogni singolo aspetto privatistico relativo ai rapporti tra condomini e di vicinato astrattamente idoneo a riflettersi sulla legittimazione del richiedente il titolo edilizio. Nel caso in esame, la documentazione allegata a corredo dell’istanza appare sufficiente a fondare la legittimazione degli istanti, non essendo ravvisabile alcun difetto di istruttoria da parte del Comune sotto tale profilo. Infatti, come più volte ripetuto dalla giurisprudenza: “il potere di verifica del titolo non significa che l’amministrazione abbia l’obbligo di complessi e laboriosi accertamenti, diretti a ricostruire tutte le vicende riguardanti l’immobile considerato. Anzi, il principio generale del divieto di aggravamento del procedimento consente all’amministrazione di valorizzare gli elementi documentali forniti dall’interessato; non grava dunque sul comune l’onere probatorio di appurare l’inesistenza di servitù o di altri vincoli reali che incidano sull’edificazione. In assenza di adeguati elementi istruttori acquisiti nel corso del procedimento, la concessione è legittimamente rilasciata ancorché sia accertata successivamente l’esistenza dei vincoli civilistici predetti, tanto che la concessione stessa è rilasciata sempre salvo diritti dei terzi” (Cons. St. sez. IV, 23 maggio 2016 n. 6312; Cfr. anche Cons. Stato, IV, 12 marzo 2007 n. 1206).
In definitiva, il Collegio non può che ribadire che in sede di rilascio del titolo abilitativo edilizio, il Comune non può esimersi dal verificare il rispetto, da parte dell’istante, dei limiti privatistici sull’intervento proposto, ciò tuttavia vale solo nel caso in cui tali limiti siano realmente conosciuti o immediatamente conoscibili, di modo che il controllo da parte del Comune si traduca in una mera presa d’atto, senza necessità di procedere a un’accurata e approfondita disamina dei rapporti tra privati (Cfr. Cons. St., Sez IV, 30 dicembre 2006 n. 8262; Cons. st. Sez VI, 20 dicembre 2011 n. 6731; Cons. st. 26 gennaio 2015 n. 316). Ne consegue che l’accertamento e la eventuale lesione della posizione giuridica degli appellanti per la violazione delle norme privatistiche citate potrà essere portata alla cognizione del Giudice Ordinario (cfr. art. 11 co. 3 D.P.R. 380/2002), non potendo né la p.a. procedente, né questo Collegio, dirimere compiutamente tali questioni, che oltretutto, come già precisato, esulano dall’ambito della propria giurisdizione.
Con il quarto motivo di appello, si censura la sentenza impugnata nel punto in cui ha disatteso il contestato difetto di motivazione dell’autorizzazione paesaggistica. In particolare, secondo il giudice di primo grado: “l’autorizzazione paesaggistica risulta adeguatamente motivata mediante richiamo ai pareri favorevoli formulati dalla Commissione locale del paesaggio, dalla Soprintendenza dei beni architettonici e paesaggistici della Liguria nonché agli elementi posti a fondamento della relazione paesaggistica”.
L’appellante contesta tale assunto, evidenziando che l’Amministrazione si sarebbe limitata ad affermare, in modo del tutto apodittico, che le opere in oggetto sarebbero compatibili con i vincoli insistenti sull’area assoggettata al rigoroso vincolo conservativo del PTCP, senza indicare le ragioni di tale compatibilità.
Il motivo è infondato, essendo sul punto condivisibile la statuizione della sentenza impugnata.
In generale, va ricordato che l’obbligo per l’Autorità di motivare il provvedimento amministrativo non può ritenersi violato attraverso il richiamo per relationem ad altri atti, se questi offrano comunque elementi sufficienti e univoci dai quali possano ricostruirsi le concrete ragioni e l’iter motivazionale posti a sostegno della determinazione assunta (Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 21 aprile 2015, n. 2011). Nel caso concreto il progetto presentato dalla Società De. è stato oggetto di analitica istruttoria da parte della Soprintendenza, che nella propria nota precisa di aver esaminati i fascicoli relativi ai sotto elencati interventi… “, e “verificato che tali interventi allo stato attuale delle conoscenze e delle informazioni contenute nelle relazioni tecniche illustrative di accompagnamento… risultano conformi alle prescrizioni del vincolo”. L’intervento è stato altresì valutato dalla Commissione Locale Paesaggio ed, infine, dall’Ufficio Edilizia Privata dell’amministrazione comunale di (omissis), che, richiamate le indicazioni del PTCP, ha ritenuto l’intervento ammissibile alla luce di dette indicazioni. Tali passaggi dimostrano chiaramente che le Amministrazioni chiamate a pronunciarsi sulla domanda presentata dalla Società hanno compiuto un’adeguata analisi del progetto in relazione alle norme nazionali e locali vigenti, verificandone la congruità ed il rispetto dei vincoli e delle prescrizioni imposte. Invero, stante la modesta entità dell’intervento ed il conseguente trascurabile impatto nel contesto nel quale si colloca non appaiono ragionevolmente esigibili ulteriori approfondimenti, così che il provvedimento risulta adeguatamente motivato.
Con il quinto motivo di appello si censura la sentenza impugnata che ha respinto il quarto motivo di ricorso, rilevando che parte ricorrente non aveva prodotto le norme di attuazione del PTCP, ma si era limitata a trascrivere alcuni stralci non consentendo di verificarne la riferibilità allo specifico regime previsto per il fabbricato oggetto di causa. Nell’atto di appello si insite nel sostenere che l’intervento provocherebbe l’alterazione dell’equilibrio tra l’insediamento attualmente esistente e il contesto naturale nel quale esso si colloca, con un incremento del carico urbanistico non sostenibile. Si precisa inoltre che l’intervento sarebbe in contrasto con il regime di conservazione (IS-CE) previsto dall’art. 48 dal vigente piano territoriale di coordinamento paesistico.
Il motivo è inammissibile, infatti, solo successivamente al ricorso, i ricorrenti hanno specificato che l’intervento sarebbe in contrasto con il regime di conservazione di cui all’art. 48 cit.. Viceversa, nel ricorso di primo grado non è rinvenibile tale precisazione, facendosi un generico richiamo agli articoli 43, 48 e 51 delle norme di attuazione del PTCP, che regolamentano ambiti differenti tra loro. Deve pertanto trovare conferma la valutazione del Giudice di prime cure di genericità di tale motivo di ricorso (“è generico e inammissibile il motivo da cui non si evincono le disposizioni normative violate”, Cons. St. Sez. V, 22.03.2012, n. 352). Genericità che non può essere sanata in sede di appello pena la violazione dell’art. 104 c.p.a., non potendosi proporre nuove censure, se era possibile proporle sin dal primo grado di giudizio (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 26 marzo 2013 n. 1715).
Con il sesto motivo ed il settimo motivo di impugnazione, che possono essere esaminati congiuntamente, si censura la sentenza impugnata nel punto in cui ha respinto il quinto motivo di ricorso, evidenziando che: “pur configurando una nuova costruzione il contestato intervento di sopraelevazione è stato legittimamente approvato in forza della disposizione derogatoria dettata dal legislatore regionale” sul recupero dei sottotetti. Secondo l’appellante la disciplina derogatoria regionale di cui alla L.R. 24/2001 non può ricomprendere interventi di recupero a fini abitativi di volumi diversi dal sottotetto che comportino una modifica della sagoma dell’edificio o comunque delle caratteristiche architettoniche essenziali dello stesso. Ne deriva che si sarebbe al di fuori dell’ambito della ristrutturazione edilizia, integrandosi invece una nuova costruzione. A sostegno dell’assunto, l’appellante ricorda che il progetto presentato prevede anche la realizzazione di un marciapiede, la posa in opera di lampioni stradali, la realizzazione di posti auto nonché la modifica dei prospetti e delle bucature con la realizzazione di una terrazza e di nuovi poggioli. La qualificazione quale nuova costruzione dell’intervento, ne comporterebbe la non assentibilità, in quanto in violazione del vigente piano urbanistico comunale di (omissis) che non ammette interventi di nuova costruzione nella zona in cui sorge l’edificio in questione.
Il motivo è infondato per le ragioni di seguito esposte.

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