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2.1. La giurisprudenza del giudice amministrativo (riconfermata da questa Sezione, tra le altre, con sentenze 2 novembre 2016 n. 4586; 28 giugno 2016 n. 2883, 17 febbraio 2015 n. 961 e 8 gennaio 2013 n. 41, dalle quali non vi è motivo di discostarsi) ha già esposto i presupposti perché possa rinvenirsi l’errore di fatto “revocatorio”, distinguendolo dall’errore di diritto che, come tale, non dà luogo ad esito positivo della fase rescindente del giudizio di revocazione.
L’art. 106 Cpa prevede che “salvo quanto previsto dal comma 3, le sentenze dei Tribunali amministrativi regionali e del Consiglio di Stato sono impugnabili per revocazione, nei casi e nei modi previsti dagli articoli 395 e 396 del codice di procedura civile”.
A sua volta, il citato art. 395 c.p.c., prevede, tra i casi di revocazione, quello in cui (n. 4), “la sentenza è l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa. Vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell’uno quanto nell’altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare.”
Orbene, questo Consiglio di Stato (sez. IV, 24 gennaio 2011 n. 503) ha già avuto modo di affermare, con considerazioni che si intendono ribadite nella presente sede, che l’istituto della revocazione è rimedio eccezionale, che non può convertirsi in un terzo grado di giudizio.
Come rappresentato nella richiamata decisione, l’orientamento costante di questo Consiglio, infatti, è nel senso che la “svista” che autorizza e legittima la proposizione del rimedio della revocazione, tendenzialmente eccezionale anche nei casi di c.d. revocazione ordinaria (cfr. Cass., n. 1957/1983), è rappresentata o dalla mancata esatta percezione di atti di causa, ovvero dall’omessa statuizione su una censura o su una eccezione ritualmente introdotta nel dibattito processuale.
Secondo, infatti, il principio enunciato dall’Adunanza Plenaria (dec. 22 gennaio 1997, n. 3; in senso conf., Ad. plen. nn. 3 del 2001, 2 del 2010, 1 del 2013, 5 del 2014; ,Cons. St., sez. IV, 8 giugno 2009, n. 3499; sez. IV, 23 settembre 2008, n. 4607; sez. IV, 19 ottobre 2006, n. 6218; Sez. IV, 16 maggio 2006, n. 2781; sez. VI, 23 febbraio 2011 n. 1145), non v’è dubbio che l’errore di fatto revocatorio debba cadere su atti o documenti processuali.
Conseguentemente, non sussiste vizio revocatorio se la dedotta erronea percezione degli atti di causa – che si sostanzia nella supposizione dell’esistenza di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, ovvero nella supposizione dell’inesistenza di un fatto, la cui verità è positivamente stabilita – ha costituito un punto controverso e, comunque, ha formato oggetto di decisione nella sentenza revocanda, ossia è il frutto dell’apprezzamento, della valutazione e dell’interpretazione delle risultanze processuali da parte del giudice (Cons. St., sez. VI, 5 giugno 2006, n. 3343; Cass. Civ., Sez. II, 12 marzo 1999 n. 2214).
L’errore di fatto revocatorio si configura, quindi, come un abbaglio dei sensi, per effetto del quale si determina un contrasto tra due diverse proiezioni dello stesso oggetto, l’una emergente dalla sentenza e l’altra risultante dagli atti e documenti di causa; esso può essere apprezzato solo quando risulti da atti o documenti ritualmente acquisiti agli atti del giudizio, con esclusione, quindi, delle produzioni inammissibili.
È stato pertanto ritenuto inammissibile il rimedio della revocazione per un errore di percezione rispetto ad atti o documenti non prodotti ovvero per un errore di fatto la cui dimostrazione avviene mediante deposito di un documento prodotto per la prima volta in sede di revocazione (Cons. Stato, sez. V, 16 novembre 2010, n. 8061; sez. IV, 13 ottobre 2010, n. 7487).

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