In tema di licenziamento, la nozione di giusta causa è nozione legale e il giudice non è vincolato alle previsioni di condotte integranti giusta causa contenute nei contratti collettivi

Corte di Cassazione, sezione lavoro, Sentenza 8 agosto 2018, n. 20660.

La massima estrapolata:

In tema di licenziamento, la nozione di giusta causa è nozione legale e il giudice non è vincolato alle previsioni di condotte integranti giusta causa contenute nei contratti collettivi; tuttavia ciò non esclude che ben possa il giudice far riferimento ai contratti collettivi e alle valutazioni che le parti sociali compiono in ordine alla valutazione della gravità di determinati comportamenti rispondenti, in linea di principio, a canoni di normalità. Il relativo accertamento va operato caso per caso, valutando la gravità in considerazione delle circostanze di fatto. Il giudice può escludere che il comportamento costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato come tale dai contratti collettivi, solo in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato.

Sentenza 8 agosto 2018, n. 20660

Data udienza 8 febbraio 2018

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente

Dott. CURCIO Laura – Consigliere

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere

Dott. GARRI Fabrizia – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso 8538-2016 proposto da:
(OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS), giusta procura in atti;
– ricorrente –
contro
(OMISSIS) SOC. COOP., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato SIRO CENTOFANTI, giusta delega in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 27/2016 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA, depositata il 04/02/2016 r.g. n. 233/2015;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 08/02/2018 dal Consigliere Dott. FABRIZIA GARRI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CERONI Francesca, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso per quanto di ragione ed in subordine il rinvio alle Sezioni Unite civili;
udito l’Avvocato (OMISSIS);
udito l’Avvocato (OMISSIS) per delega verbale Avvocato (OMISSIS);
udito l’Avvocato (OMISSIS).

FATTI DI CAUSA

1. La Corte di appello di Perugia ha confermato la legittimita’ del licenziamento intimato in data 17 aprile 2013 dalla (OMISSIS) societa’ cooperativa a (OMISSIS) ed in accoglimento del reclamo incidentale della societa’ l’ha condannata alla rifusione per intero delle spese di primo grado oltre che al pagamento di quelle del reclamo.
2. La Corte di merito ha confermato la legittimita’ del licenziamento avendo accertato che il fatto contestato era risultato confermato nella sua materialita’, che la, condotta era sanzionata nel contratto collettivo con la massima sanzione espulsiva e che in concreto il licenziamento era proporzionato in considerazione dell’intrinseca gravita’ della condotta accertata e del carattere inverosimile delle giustificazioni della lavoratrice offerte nel corso del procedimento disciplinare. Ha poi modificato la statuizione sulle spese del giudice di primo grado non ravvisando ragioni per disporne la compensazione.
3. Per la cassazione della sentenza ricorre (OMISSIS) che articola cinque motivi. Resiste con controricorso la (OMISSIS) societa’ cooperativa. Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa ai sensi dell’articolo 378 c.p.c..

RAGIONI DELLA DECISIONE

4. I motivi di ricorso:
4.1. Violazione degli articoli 115 e 116 c.p.c. e dell’articolo 2697 c.c.. Sostiene la ricorrente che la Corte di appello, e prima ancora il Tribunale, avrebbero errato nel ritenere inammissibile l’interrogatorio formale del capo negozio e del vice capo negozio del punto vendita presso il quale la (OMISSIS) aveva prestato servizio, per sentirli in relazione alla circostanza di quale fosse la media mensile delle richieste di autorizzazione per l’utilizzo interno di beni aziendali. Del pari erronea, poi, la decisione che non aveva disposto l’accesso sul luogo di lavoro per verificare la tipologia del quadro elettrico nel reparto gastronomia del punto vendita. Sostiene la ricorrente che tali approfondimenti istruttori erano indispensabili per verificare e contestualizzare le poco credibili dichiarazioni rese dal teste che avrebbe assistito al tentativo di furto.
4.2. Violazione dell’articolo 2697 c.c., articoli 420, 421 e 437 c.p.c.; violazione della L. 28 giugno 2012, n. 92, articolo 1, commi 59 e 60. Ad avviso della ricorrente in violazione delle citate disposizioni la Corte di appello, a fronte della sollecitazione in sede di reclamo ad esercitare i poteri officiosi per superare le incertezze scaturenti dal quadro probatorio, non vi aveva dato.
4.3. Violazione dell’articolo 2697 c.c., articoli 420, 421 e 437 c.p.c.; violazione della L. 28 giugno 2012, n. 92, articolo 1, commi 59 e 60. Analoga censura e’ svolta poi con riguardo alla mancata ammissione della richiesta di sopralluogo.
4.4. Violazione degli articoli 244, 245, 247, 248, 250 e 251 c.p.c. e dell’articolo 2697 c.c.. Sostiene la ricorrente che la dubbia attendibilita’ del teste che aveva assistito al fatto avrebbe dovuto determinare la Corte nel senso di escludere l’intenzione della ricorrente di appropriarsi del duplicatore sottratto dagli scaffali e, mancando un rassicurante accertamento della condotta, si sarebbe dovuti pervenire ad una declaratoria di illegittimita’ del recesso.
4.5. Violazione della L. n. 604 del 1966, articoli 1, 3 e 5; degli articoli 1175, 1375, 1455, 2104, 2105 e 2119 c.c.; dell’articolo 176, commi 1 e 2 c.c.n.l. delle coop del 25 luglio 2008. Ad avviso della ricorrente la Corte di merito avrebbe erroneamente ritenuto che l’addebito fosse proporzionato rispetto alla sanzione irrogata.
5. Il ricorso non puo’ essere accolto.
5.1. Il primo motivo di ricorso lungi dal denunciare, come esposto nella rubrica, una violazione degli articoli 115 e 116 c.p.c. e dell’articolo 2697 c.c., sollecita una nuova e diversa valutazione delle emergenze istruttorie ed in particolare la ricostruzione operata in tutte le fasi di merito delle dichiarazioni rese dai testi escussi e della scelta di non dare corso all’interrogatorio formale chiesto. Come e’ noto, nel giudizio di cassazione la questione della violazione o della falsa applicazione degli articoli 115 e 116 c.p.c. non puo’ porsi con riferimento alla erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorche’ si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (cfr. Cass. 27/12/2016 n. 27000). Nessuna di tali evenienze e’ neppure denunciata sicche’ per tale aspetto la censura e’ inammissibile.
Quanto alla dedotta violazione dell’articolo 2697 c.c. va qui ribadito che la doglianza relativa alla violazione di tale precetto e’ configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risulta gravata secondo le regole dettate da quella norma. Ma nel caso in esame la Corte di appello non ha proceduto ad alcuna inversione dell’onere della prova essendosi limitata ad esercitare il suo potere discrezionale di valutare l’indispensabilita’ dell’interrogatorio formale chiesto (cfr. Cass. 18/09/2009 n. 20104) fermo l’onere di provare la giusta causa di risoluzione del rapporto a carico del datore di lavoro.
5.2. Del pari non possono essere’accolte le censure formulate nel secondo e nel terzo motivo di ricorso con le quali ci si duole del mancato esercizio dei poteri officiosi per superare le incertezze scaturenti dal quadro probatorio e per non avere dato corso al chiesto sopralluogo. Con riguardo ad approfondimenti istruttori da eseguire anche officiosamente da parte della Corte di appello, a cio’ sollecitata per il caso in cui non si fosse ritenuto ammissibile l’interrogatorio formale chiesto, va rammentato che se nel rito del lavoro, l’uso dei poteri istruttori da parte del giudice ex articoli 421 e 437 c.p.c., non ha carattere discrezionale, ma costituisce un potere-dovere preordinato al superamento di una meccanica applicazione della regola di giudizio fondata sull’onere della prova, del cui esercizio o mancato esercizio questi e’ tenuto a dar conto. Tuttavia resta fermo che tale potere presuppone, oltre ad una esplicita sollecitazione da parte di chi ne abbia interesse (nella specie documentata) anche un quadro probatorio incerto. Ne consegue che nel caso come quello in esame in cui il giudice di merito, con un’approfondita verifica di tutte le emergenze istruttorie acquisite nel corso del giudizio, abbia accertato senza margini di incertezza la condotta contestata, e’ insussistente il presupposto per dare corso agli approfondimenti sollecitati, peraltro, proprio per il caso in cui la Corte non avesse potuto ammettere i mezzi istruttori chiesti laddove invece questi, nella specie, sono stati ritenuti piu’ che inammissibili irrilevanti. Il sopralluogo sul rilievo che non vi era certezza della mancata modificazione, a distanza di tempo, dello stato dei luoghi. L’interrogatorio formale anche in relazione alla ritenuta ininfluenza delle circostanze di fatto sulle quali avrebbe dovuto essere reso.
5.3. Il quarto motivo e’ inammissibile poiche’, pur denunciando plurime violazioni delle disposizioni che regolano la prova nel processo (articoli 244, 245, 247, 248, 250 e 251 c.p.c. e articolo 2697 c.c.), pretende una diversa valutazione delle dichiarazioni rese dal teste che aveva assistito al fatto sul rilievo che, se valutate secondo la ricostruzione operata dalla ricorrente, si sarebbe esclusa l’esistenza della volonta’ da parte della lavoratrice di appropriarsi del bene sottratto dagli scaffali del supermercato. All’evidenza la censura, pur prospettata come violazione di legge, si sostanzia in una critica della valutazione operata dalla Corte di appello in ipotesi censurabile sotto il diverso profilo del vizio di motivazione nei limiti consentiti dalla formulazione dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5 nel testo ratione temporis applicabile alla fattispecie. Per tale aspetto, anche a voler interpretare la censura in questi termini, va rilevato che non viene neppure allegato quale sia il fatto decisivo pretermesso che avrebbe portato ad una diversa soluzione della controversia.
5.4. L’ultimo motivo di ricorso con il quale si deduce che la Corte, in violazione della L. n. 604 del 1966, articoli 1, 3 e 5 degli articoli 1175, 1375, 1455, 2104, 2105 e 2119 c.c. e dell’articolo 176, commi 1 e 2 c.c.n.l. delle coop del 25 luglio 2008, avrebbe erroneamente ritenuto che l’addebito fosse proporzionato rispetto alla sanzione irrogata e’ del pari inammissibile.
5.4.1. Nel ribadire che il perimetro del giudizio della Cassazione in tema di giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento “e’ dato dall’interpretazione delle norme c.d. elastiche, ossia a variabile contenuto assiologico, che richiedono all’interprete giudizi di valore su regole o criteri etici o di costume o proprie di discipline e/o di ambiti anche extragiuridici” va del pari ribadito che l’appropriazione di beni aziendali e’ senza ombra di dubbio riconducibile al concetto di giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento di cui all’articolo 2119 c.c. ed alla L. n. 604 del 1966, articoli 1 e 3 e alla contrattazione collettiva applicata al rapporto di lavoro in esame. Del pari va confermato che essendo quella di giusta causa o giustificato motivo una nozione legale, la previsione della contrattazione collettiva non vincola il giudice di merito che ha il dovere, in primo luogo, di controllare la rispondenza delle pattuizioni collettive disciplinari al disposto dell’articolo 2106 c.c. rilevando la nullita’ di quelle che prevedono come giusta causa o giustificato motivo di licenziamento condotte per loro natura assoggettabili, ai sensi della citata disposizione del codice civile, solo ad eventuali sanzioni conservative. In esito a tale verifica, esclusa la nullita’ delle clausole del contratto collettivo in tema di comportamenti passibili di licenziamento, astrattamente sussunti quelli indicati nella specie della giusta causa o del giustificato motivo di recesso, e’ demandato al giudice il concreto apprezzamento della gravita’ dell’ addebito che deve comunque integrare una grave negazione dell’elemento essenziale della fiducia. La condotta del dipendente deve essere ritenuta idonea a porre in dubbio la futura correttezza del suo adempimento, perche’ sintomatica di un certo atteggiarsi del prestatore rispetto all’adempimento dei futuri obblighi lavorativi (cfr. in termini Cass. 17/07/2015 n. 15058 ed ivi le richiamate 13/02/2012 n. 2013, 14/02/2005 n. 2906, 19/08/2004 16260 e 17/04/2001 n. 5633). In definitiva occorre sempre esaminare in concreto la gravita’ dell’infrazione sotto il profilo oggettivo e soggettivo e sotto quello della futura affidabilita’ del dipendente a rendere la prestazione dedotta in contratto. Tali valutazioni in punto di fatto non sono sindacabili in sede di legittimita’ ove risultino sorrette da una motivazione coerente con le acquisizioni istruttorie e sono in ipotesi censurabili esclusivamente sotto il profilo del vizio di motivazione che, come e’ noto, a seguito delle modifiche introdotte dal Decreto Legge n. 83 del 2012, articolo 54 convertito con modificazioni nella L. n. 134 del 2012 deve essere interpretato, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’articolo 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimita’ sulla motivazione, sicche’ e’ denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in se’ e tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (cfr. per tutte Cass. s. u. 07/04/2014 n. 8053).
5.4.2. Alla luce di queste premesse osserva il collegio che i giudici d’appello si sono attenuti ai principi su esposti e con motivazione immune da vizi sono giunti alla conclusione (peraltro condivisa in tutte le fasi di merito in cui si articola il procedimento regolato dalla legge n. 92 del 28 giugno 2012) che l’infrazione addebitata alla ricorrente mini, anche con riguardo all’elemento soggettivo, in modo irrimediabile il rapporto fiduciario tra le parti. In proposito la sentenza impugnata, in disparte la tenuita’ del danno in relazione allo scarso valore commerciale del bene sottratto, ha valorizzato le modalita’ di svolgimento del fatto (il riduttore esposto per la vendita al pubblico e’ stato prelevato senza autorizzazione per un uso interno, tolto dalla confezione, che e’ stata buttata nello scaffale, riposto nella tasca del camice). Il giudice di secondo grado nel verificare la gravita’ del fatto contestato alla lavoratrice, negli elementi oggettivo e soggettivo di cui si compone, con valutazione aderente ai fatti accertati e rispondente ai principi su esposti, ha valorizzato la genericita’ delle sue giustificazioni nell’immediatezza e la circostanza che solo successivamente, nel cojirso del procedimento disciplinare ed in giudizio, si era ampliato lo spettro delle ragioni della sottrazione senza che, tuttavia, fosse risultata in alcun modo provata la destinazione ad un uso interno, funzionale alla prestazione, del bene sottratto. Nel registrare la contraddittorieta’ tra le varie versioni degli accadimenti e delle ragioni sottostanti fornite dalla lavoratrice, la Corte di merito ha evidenziato che, anche a voler dar credito alle varie versioni delle giustificazioni presentate, da nessuna di queste risulterebbe chiarito perche’ non fosse stato chiesto nell’immediatezza della contestazione una verifica della effettivita’ dell’esigenza, tale da sgombrare da ogni dubbio circa la reale destinazione del bene ed ha sottolineato che la ricorrente si era impossessata del bene con modalita’ incompatibili con una successiva regolarizzazione della sottrazione. Ed infatti ne era stata gettata via la confezione che conteneva i dati necessari ad una successiva regolarizzazione. In definitiva la Corte, in esito ad una attenta ricostruzione dei fatti, ha operato una valutazione in concreto della condotta in tutti i suoi aspetti attribuendo valore sintomatico di possibili futuri inadempimenti all’ondivago comportamento della lavoratrice ed alle inverosimili giustificazioni offerte che neppure erano risultate successivamente confermate ed anzi erano risultate smentite da dati obiettivi acquisiti in giudizio.
5.4.3. Non si tratta allora di verificare una errata sussunzione della fattispecie nell’ipotesi contrattuale prevista dall’articolo 176 c.c.n.l. delle coop, anche sotto il profilo della proporzionalita’ della sanzione in relazione alla condotta addebitata, poiche’ la Corte di merito ha proceduto proprio ad una ricostruzione del fatto nei suoi aspetti costitutivi e ne ha verificato la gravita’, analizzando tutti gli elementi acquisiti al giudizio, e dando conto delle ragioni per le quali la condotta accertata non era improntata ai doveri di correttezza e buona fede cui si deve attenere il lavoratore nello svolgimento della prestazione e fosse sintomatica di una noncuranza verso gli obblighi fondamentali con apprezzamento di merito, che risente delle particolari connotazioni circostanziali e personali della vicenda sottoposta all’esame dell’autorita’ giudiziaria e che non e’ censurabile davanti alla Corte di Cassazione. La valutazione sulla proporzionalita’ dell’addebito rispetto alla sanzione irrogata e’ infatti riservata al giudice di merito sicche’ e’ ben possibile che la maggiore o minore gravita’ di infrazioni astrattamente analoghe vengano, legittimamente, giudicate in modo diverso dai giudici di merito, trattandosi – in realta’ – di apprezzamenti non comparabili fra loro perche’ devono essere calati in irripetibili contesti lavorativi e personali (cfr. in termini Cass. n. 15058 del 2015 cit.)
6. In conclusione il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo. Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1 quater va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’articolo 13, comma 1 bis citato D.P.R..

P.Q.M.

La Corte, dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimita’ che si liquidano in Euro 4000,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge. Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1 quater da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’articolo 13, comma 1 bis citato D.P.R..

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