Non vi è compatibilità fra la circostanza attenuante della provocazione e il reato di molestia o disturbo alle persone

Corte di Cassazione, sezione prima penale, sentenza 3 luglio 2018, n.29830.

La massima estrapolata:

Non vi è compatibilità fra la circostanza attenuante della provocazione e il reato di molestia o disturbo alle persone, perché, per quanto lo stato d’ira possa risorgere al ricordo di una ingiustizia patita e dar luogo ad un comportamento criminoso anche temporalmente da essa distante, deve escludersi che ciò possa reiterarsi a tempo indeterminato e giustificare l’applicabilità della attenuante in questione ad un reato a condotta concretamente abituale, contrassegnato da una serie di comportamenti antigiuridici di analoga natura che si ripetono e si replicano nel tempo, posto che in tal caso quella che si vorrebbe prospettare come una reazione emotiva ad un fatto ingiusto si presenta, in realtà, come espressione di un proposito di rivalsa e di vendetta, dall’ordinamento in alcun modo tutelato.

Sentenza 3 luglio 2018, n.29830

 

 

Pres. Mazzei

est. Vannucci

Ritenuto in fatto
1. Con sentenza emessa il 8 aprile 2016 il Tribunale di Prato: dichiarò Do. Ar. responsabile della commissione della contravvenzione di cui all’art. 660 cod. pen., consistita nell’avere tale persona, nel periodo compreso fra il 3 maggio 2012 e il 8 giugno 2012, in Prato, recato molestia, per petulanza e per biasimevole motivo, alla persona di Al. Al., suo ex compagno, presentandosi con prepotenza presso lo studio ove costui svolgeva la propria professione di fisioterapista, pronunciando, con toni arroganti, anche in presenza di altre persone, parole e frasi dai contenuti inurbani all’indirizzo dello stesso Al., appostandosi nei pressi dello studio ove costui prestava la propria opera e telefonando spesso all’uomo; condannò Ar. alla pena di quattrocentocinquanta Euro di ammenda, disponendo che la relativa esecuzione venisse condizionalmente sospesa; condannò Ar. a risarcire alla parte civile Al. Al. l’equivalente pecuniario del danno cagionato dal reato, rimettendo le parti avanti al giudice civile per la liquidazione, assegnando alla parte vittoriosa anticipazione, immediatamente esecutiva, pari a duemila Euro.
1.1 A sostegno di tale decisione è evidenziato che: alla luce dei risultati dell’istruttoria, consistiti nell’escussione di numerosi testimoni, era emerso che, nel periodo sopra indicato, Do. Al., che era contrapposta ad Al. Al. da fortissimi contrasti relativi al mantenimento dei due figli minori nati dal loro rapporto di convivenza more uxorio, si era recata presso lo studio in cui Al. prestava la propria opera di fisioterapista e, anche in presenza di terze persone, lo aveva accusato con toni inurbani e ad alta voce, di non prendersi cura dei figli minori, si era varie volte appostata nei pressi tale studio per osservare i movimenti dell’uomo, aveva varie volte telefonato a costui sempre rimproverandolo per la stessa ragione; tali comportamenti, unitariamente considerati, costituivano la contravvenzione contestata.
2. Per la cassazione di tale sentenza l’imputata ha proposto ricorso (atto sottoscritto dal difensore, avvocato Ma. Ta.) contenente quattro motivi di impugnazione.
2.1 Con il primo motivo la sentenza è censurata per non avere tenuto in alcuna considerazione il contenuto dei documenti da essa imputata depositati all’udienza dell’8 aprile 2016, da cui si deduceva in maniera in equivoca che il motivo dei comportamenti da essa posti in essere non era punto biasimevole, dal momento che Al. era solito pagare in ritardo il contributo mensile di settecento Euro per il mantenimento dei propri figli minori.
2.2 Con il secondo motivo la ricorrente deduce che il giudice di merito non aveva tenuto in alcuna considerazione la richiesta di pronunciare sentenza di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen., nel caso concreto riscontrabile anche alla luce del contenuto (in alcun modo preso in considerazione dalla sentenza impugnata) di decreto di archiviazione depositato nel corso dell’udienza del 28 novembre 2014.
2.3 La sentenza è, in subordine, criticata (terzo motivo) per non avere ritenuto sussistente la circostanza attenuante della provocazione (art. 62, n. 2), cod. pen.), dal momento che il comportamento di essa ricorrente, in precarie condizioni economiche, era stato determinato dal sistematico ritardo con il quale Al. corrispondeva il contributo mensile per il mantenimento dei propri figli.
2.4 II ricorrente censura, in ulteriore subordine, la sentenza (quarto motivo) perché, dopo avere pronunciato condanna generica al risarcimento del danno asseritamente cagionato alla parte civile Al., ha assegnato, senza alcuna motivazione specifica, a tale parte privata la somma di duemila Euro, da imputarsi alla liquidazione definitiva, dichiarando tale statuizione immediatamente esecutiva (artt. 539, comma 2 e 540, comma 2, cod. proc. pen.).
Nel sollecitare, in ogni caso, l’annullamento della sentenza impugnata, la ricorrente ha chiesto la sospensione (art. 612 cod. proc. pen.) dell’esecuzione di tale statuizione provvisoria, in
considerazione del pregiudizio che deriverebbe ad essa ricorrente, ammessa al patrocinio a spese dello Stato, dall’esecuzione di tale capo di sentenza.
3. La parte civile Al. ha depositato memoria (atto sottoscritto dal difensore con procura, avvocato Francesca Meucci) con la quale ha dedotto, per i motivi in tale atto specificamente illustrati, l’inammissibilità ovvero l’infondatezza dei quattro motivi di impugnazione.
Considerato in diritto
1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile, in quanto la censura sembra implicare la refluenza del contenuto degli atti nel ricorso descritti sull’elemento psicologico della contravvenzione, ritenendo la ricorrente che, in considerazione dei dedotti inadempimenti della persona offesa agli obblighi di mantenimento al cui adempimento era per decisione giudiziale tenuto, il motivo dei comportamenti da essa posti in essere non potesse qualificarsi come ‘biasimevole’ ai sensi dell’art. 660 cod. pen.
Orbene, costituisce principio interpretativo affatto consolidato nella giurisprudenza di legittimità quello secondo cui l’elemento soggettivo del reato consiste nella coscienza e volontà della condotta, tenuta nella consapevolezza della sua idoneità a molestare o disturbare il soggetto passivo, invadendone inopportunamente la propria sfera di libertà, senza che possa rilevare l’eventuale convinzione dell’agente di operare per un fine non biasimevole o addirittura per il ritenuto conseguimento, con modalità non legali, della soddisfazione di un proprio diritto (in questo senso, cfr. Cass. Sez. 1, n. 33267 del 11/06/2013, Saggiomo, Rv. 256992; Cass. Sez. 1, n. 19071 del 30 marzo 2004, Gravina, Rv. 228217; Cass. Sez. 1, n. 4053 del 12 dicembre 2003, dep. 2004, Rota, Rv. 226992).
Correttamente, pertanto, la sentenza impugnata ha ignorato il contenuto di tali documenti (ma non quanto dichiarato dalla ricorrente in sede di esame), attesa la relativa irrilevanza ai fini del decidere.
2. Il secondo motivo, relativo alla omissione di pronuncia sulla richiesta di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen., è manifestamente infondato.
Per quanto qui specificamente interessa: l’art. 131-bis, primo comma, cod. pen. consente al giudice di escludere la punibilità della condotta quando «l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale»; il terzo comma dello stesso articolo precisa che «il comportamento è abituale…nel caso si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate».
La disposizione da ultimo indicata si riferisce in primo luogo a reati che abbiano il loro tratto tipico nell’abitualità (esempio, il reato di maltrattamenti in famiglia) ovvero nella reiterazione delle condotte (esempio, il delitto di atti persecutori): in tali casi abitualità e serialità sono elementi della fattispecie e configurano l’abitualità del comportamento che esclude l’applicazione della disciplina di non punibilità; senza che sia necessario accertare la presenza di distinti reati (così, in motivazione, Cass. S.U., n. 13681 del 25 febbraio 2016, Tushaj, Rv. 266593).
I reati che hanno ad oggetto condotte plurime sono invece quelli che in concreto presentano «ripetute, distinte condotte implicate nello sviluppo degli accadimenti», con la conseguenza che «la pluralità e magari la protrazione dei comportamenti…imprime al reato un carattere seriale, id est abituale » (ancora, in motivazione, Cass. S.U., n. 13681 del 25 febbraio 2016, Tushaj, cit.).
Nel caso, pertanto, ricorrente nella specie, di reato di molestie commesso mediante una serie di autonome condotte di disturbo reiterate nel tempo, si è in presenza di comportamento che risulta abituale nel senso precisato dal citato terzo comma dell’art. 131-bis cod. pen.; come tale escludente la non punibilità prevista dalla norma sostanziale in questione.
3. Il terzo motivo di ricorso, contenente censura alla sentenza nella parte in cui non ha ritenuto sussistente la circostanza attenuante della provocazione, è manifestamente infondato.
E’ certamente vero che il reato di cui all’art. 660 cod. pen. non è necessariamente abituale, per cui può essere realizzato anche con una sola azione di disturbo o di molestia, purché ispirata da biasimevole motivo o avente il carattere della petulanza, che consiste in un modo di agire pressante ed indiscreto, tale da interferire sgradevolmente nella sfera privata di altri (in questo senso, cfr., fra
le altre, Cass. Sez. 1, n. 32758 del 7 novembre 2013, dep. 2014, Moresco, Rv. 258260; Cass. Sez. 6, n. 43439 del 23 novembre 2010, N., Rv. 248982; Cass. Sez. 1, n. 29933 del 8 luglio 2010, Arena, Rv. 247960), ma è altrettanto vero che i comportamenti accertati con la sentenza impugnata costituirono l’elemento materiale caratteristico della contravvenzione concretamente contestata all’odierna ricorrente ed è noto che la continuità dei comportamenti di disturbo integra l’elemento materiale costitutivo del reato in questione; con la conseguenza che in tale ipotesi non trova applicazione la disciplina recata dall’art. 81, secondo comma, cod. pen., avente quale presupposto la commissione di una pluralità di reati mediante una pluralità di azioni (in questo senso, cfr., fra le altre, Cass. Sez. 1, n. 6908 del 24 novembre 2011, dep. 2012, Zigrino, Rv. 252063; Cass. Sez. 1, n. 17308 del 13 marzo 2008, Gerii, Rv. 239615; Cass. Sez. 1, n. 14512 del 3 febbraio 2004, Pelliccia, Rv. 228828).
A parte ogni considerazione relativa alla, quanto mai opinabile, dedotta ingiustizia della condotta caratterizzante i pregressi comportamenti della persona offesa (la ricorrente ha solo dimostrato che la persona offesa versò il danaro costituente il proprio contributo di mantenimento dei figli minorenni in ritardo, peraltro non consistente rispetto al termine giudizialmente fissato allo scopo, nei mesi di aprile e di maggio 2012), si osserva che non vi è compatibilità fra la circostanza attenuante della provocazione e un reato in concreto a condotta abituale (come quello accertato dalla sentenza impugnata): invero, per quanto lo stato d’ira, che costituisce uno degli elementi della fattispecie descritta nell’art. 62, n. 2), cod. pen., possa risorgere al ricordo di una ingiustizia patita e dar luogo ad un comportamento criminoso anche temporalmente da essa distante, deve escludersi che ciò possa reiterarsi a tempo indeterminato e giustificare l’applicabilità della attenuante in questione ad un reato a condotta concretamente abituale, contrassegnato da una serie di comportamenti antigiuridici di analoga natura che si ripetono e si replicano nel tempo, posto che in tal caso quella che si vorrebbe prospettare come una reazione emotiva ad un fatto ingiusto si presenta, in realtà, come espressione di un proposito di rivalsa e di vendetta, dall’ordinamento in alcun modo tutelato (in questo senso, cfr. Cass. Sez. 6, n. 12307 del 27 ottobre 2000, Nuara, Rv. 217901; Cass. Sez. 6, n. 10006 del 24 aprile 1991, Nicoli, Rv. 188235).
4. Il quarto motivo di impugnazione, relativo alla dedotta mancanza di motivazione a fondamento della concessione e quantificazione di provvisionale da imputare alla futura liquidazione definitiva dell’equivalente pecuniario del danno civile, è inammissibile, dal momento che tale decisione è per sua natura insuscettibile di passare in giudicato ed è destinata ad essere travolta dall’effettiva liquidazione dell’intero danno risarcibile da parte del giudice civile (in questo senso, cfr., per tutte, Cass. Sez. 3, n. 18663 del 27 gennaio 2015, D.G., Rv. 263486; Cass. Sez. 6, n. 50746 del 14 ottobre 2014, G., Rv. 261536; Cass. S.U., n. 2246 del 19 dicembre 1990, dep. 1991, Capelli, Rv. 186722).
5. Il ricorso è, in conclusione, inammissibile (anche ex art. 606, comma 3, cod. proc. pen.) e la ricorrente deve essere condannata: al pagamento delle spese processuali; al versamento alla Cassa delle ammende della sanzione pecuniaria che stimasi equo fissare nella misura di duemila Euro; al rimborso delle spese sostenute in questo grado di giudizio dalla parte civile Al. Al. nella misura liquidata in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di duemila Euro alla Cassa delle ammende, nonché alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile Al. Al., che liquida nella complessiva somma di Euro 3.000 per onorari, oltre spese forfettarie pari al 15%, I.V.A. e C.P.A., come per legge, Euro 21 per spese vive.

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *