Corte di Cassazione, sezione lavoro, Sentenza 10 maggio 2018, n. 11322
Le massime estrapolate
E’ illegittimo il licenziamento del lavoratore che registra le conversazione dei colleghi (alle quali partecipa) e fa anche dei filmati all’insaputa di questi, se non diffonde i dati ma li raccoglie in vista di un eventuale procedimento giudiziario.
Il clima di tensione e sospetti venutosi a creare tra gli ignari colleghi dopo da rivelazione delle registrazioni e cioe’ una situazione facente capo al prestatore di lavoro ma non costituente inadempimento, al piu’ poteva assumere rilevanza, in una prospettiva del tutto diversa, in termini di obiettiva incompatibilita’ del dipendente con l’ambiente di lavoro, se tale da rendere insostenibile la situazione incidendo negativamente sulla stessa organizzazione del lavoro e sul regolare funzionamento dell’attivita’, e dunque, ove ricorrenti i relativi presupposti, quale giustificato motivo oggettivo di licenziamento.
L’insussistenza del fatto contestato, di cui all’articolo 18 St. lav., come modificato dalla L. n. 92 del 2012, articolo 1, comma 42, comprende l’ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceita’, sicche’ in tale ipotesi si applica la tutela reintegratoria, senza che rilevi la diversa questione della proporzionalita’ tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceita
La registrazione fonografica di un colloquio, svoltosi tra presenti o mediante strumenti di trasmissione, ad opera di un soggetto che ne sia partecipe, e’ prova documentale utilizzabile quantunque effettuata dietro suggerimento o su incarico della polizia giudiziaria, trattandosi, in ogni caso, di registrazione operata da persona protagonista della conversazione, estranea agli apparati investigativi e legittimata a rendere testimonianza nel processo.
L’iporesi derogatoria di cui al Decreto Legislativo n. 196 del 2003, articolo 24 che permette di prescindere dal consenso dell’interessato sussiste anche quando il trattamento dei dati, pur non riguardanti una parte del giudizio in cui la produzione viene eseguita, sia necessario, per far valere o difendere un diritto.
Unica condizione richiesta e’ che i dati medesimi siano trattati esclusivamente per tali finalita’ e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento
Sentenza 10 maggio 2018, n. 11322
Data udienza 10 gennaio 2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente
Dott. MANNA Antonio – Consigliere
Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere
Dott. DE GREGORIO Eduardo – Consigliere
Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 1580-2016 proposto da:
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS), giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
(OMISSIS) S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati (OMISSIS), giusta delega in atti;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
e contro
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS), giusta delega in atti;
– controricorrente al ricorso incidentale –
avverso la sentenza n. 1298/2015 della CORTE D’APPELLO DI L’AQUILA, depositata il 26/11/2015 R.G.N. 455/15;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/01/2018 dal Consigliere Dott. CATERINA MAROTTA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELESTE Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e accoglimento del ricorso incidentale;
udito l’Avvocato (OMISSIS) per delega verbale avvocato (OMISSIS).
FATTI DI CAUSA
1.1. Con sentenza n. 1298/2015 pubblicata il 26/11/2015, la Corte di appello di L’Aquila, decidendo sul reclamo proposto da (OMISSIS), avverso la decisione del Tribunale di Vasto n. 102 del 25/5/2015 (che, nella fase di opposizione L. n. 92 del 2012, ex articolo 1, commi 51 e ss., aveva confermato il rigetto del ricorso L. n. 92 del 2012, ex articolo 1, commi 48 e ss., proposto dal (OMISSIS) nei confronti della (OMISSIS) S.p.A., inteso ad ottenere la declaratoria di illegittimita’ del licenziamento allo stesso intimato in data 29/3/2013 e la reintegra nel posto di lavoro), in riforma della pronuncia del Tribunale, riteneva l’illegittimita’ del provvedimento espulsivo per sproporzione rispetto ai fatti contestati e per l’effetto condannava la societa’ a corrispondere al lavoratore, a titolo di risarcimento, un’indennita’ pari a 15 mensilita’ dell’ultima retribuzione globale di fatto.
1.2. Ad avviso della Corte territoriale, gli elementi forniti dall’appellante a dimostrazione dell’inesistenza del motivo addotto a giustificazione del licenziamento non erano sufficienti per considerare il carattere ritorsivo ovvero discriminatorio del provvedimento espulsivo.
1.3. Per il resto, quanto ai fatti oggetto della contestazione disciplinare che avevano condotto al licenziamento del (OMISSIS) (consistiti nell’aver il dipendente, in sede di giustificazioni orali in merito ad altra precedente contestazione della societa’, consegnato una chiavetta USB contenente registrazioni di conversazioni effettuate in orario di lavoro e sul posto di lavoro coinvolgenti altri dipendenti, ad insaputa degli stessi e nell’aver il medesimo provveduto ad ulteriori registrazioni anche video come riportato in sede di segnalazione da parte di colleghi di lavoro che avevano riferito di aver visto il (OMISSIS) continuamente scattare foto, girare video, registrare conversazioni sul posto di lavoro senza alcuna autorizzazione da parte loro, il tutto in violazione della legge sulla privacy e con la recidiva rispetto ad altre precedenti contestazioni), la Corte di merito, dopo aver ricostruito il contesto in cui andava inquadrata la condotta che aveva portato alle contestazioni, cosi’ argomentava: – il (OMISSIS) aveva adottato tutte le cautele al fine di evitare la diffusione dei dati raccolti e, contrariamente a quanto riportato nella lettera di contestazione circa le segnalazioni di suoi colleghi di lavoro, le persone registrate non avevano saputo nulla di tali registrazioni prima di esserne informati dal direttore delle risorse umane cui erano stati trasmessi i files delle registrazioni consegnati dal dipendente su pennetta usb ad un delegato dell’azienda in occasione di un incontro relativo a precedente contestazione disciplinare; – il (OMISSIS) non aveva in alcun modo utilizzato o reso pubblico il contenuto di quelle registrazioni per scopi diversi dalla tutela di un proprio diritto; – era da escludersi la configurabilita’ nella vicenda di ogni rilevanza penale e sussisteva l’ipotesi derogatoria, rispetto alla necessita’ di acquisire il consenso dei soggetti privati interessati dalle registrazioni, in ragione nelle finalita’ del lavoratore di documentare le problematiche esistenti sul posto di lavoro e di salvaguardare la propria posizione di fronte a contestazioni dell’azienda non proprio cristalline.
1.4. La condotta del dipendente, pertanto, pur potendo essere motivo di sanzione disciplinare – in relazione al clima di tensione e di sospetti venutosi a creare tra gli ignari colleghi dopo la rivelazione delle registrazioni – tuttavia non era tale da integrare un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali ovvero addirittura da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro. La ritenuta sproporzione del licenziamento intimato aveva quale conseguenza l’applicazione della L. n. 300 del 1970, articolo 18, comma 5, come novellato dalla L. n. 92 del 2012.
2. Per la Cassazione della sentenza ricorre (OMISSIS) con due motivi.
3. Resiste con controricorso (OMISSIS) S.p.A. e propone altresi’ ricorso incidentale affidato a due motivi cui il (OMISSIS) resiste con controricorso.
4. Entrambe le parti hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.1. Con il primo motivo il ricorrente principale denuncia la violazione e/o erronea applicazione della L. n. 300 del 1970, articolo 18, comma 5, come novellato dalla L. n. 92 del 2012 (articolo 360 c.p.c., n. 3) in relazione al fatto materiale del licenziamento. Lamenta che, pur avendo la Corte territoriale escluso che i comportamenti del (OMISSIS) integrassero una violazione della legge sulla privacy e pur avendo smentito la circostanza di cui alla contestazione disciplinare secondo la quale vi erano state segnalazioni di colleghi di lavoro del predetto che avrebbero riferito di averlo visto continuamente scattare foto, girare video, registrare conversazioni sul posto di lavoro senza alcuna autorizzazione da parte loro, tuttavia, senza trarre le dovute conseguenze con riguardo all’insussistenza del fatto materiale a base del licenziamento, ha applicato la mera tutela risarcitoria ipotizzando una sproporzione del provvedimento espulsivo rispetto ad una mera ipotesi di rilevanza comunque disciplinare del fatto addebitato.
1.2. Con il secondo motivo il ricorrente principale denuncia la violazione e/o erronea applicazione degli articoli 91 e 92 c.p.c. (articolo 360 c.p.c., n. 3). Si duole della disposta compensazione delle spese a fronte dell’accoglimento della domanda del lavoratore intesa ad ottenere la declaratoria di illegittimita’ del licenziamento ed in assenza di soccombenza reciproca.
2.1. Con il primo motivo di ricorso incidentale la societa’ denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 2119 c.c. e dell’articolo 115 c.p.c. per omesso esame dell’astratta idoneita’ del comportamento del lavoratore a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario. Lamenta che la Corte territoriale abbia escluso che nella vicenda potesse configurarsi la giusta causa di licenziamento sulla base della ritenuta insussistenza della gravissima violazione della legge sulla privacy indicata dall’azienda nella contestazione di addebito e comunque per non aver considerato, quale circostanza di per se’ sufficiente ad integrare tale lesione, che il (OMISSIS) si fosse permesso di effettuare registrazioni e videoriprese all’interno dello stabilimento di (OMISSIS), interessanti addetti allo stabilimento medesimo ed all’insaputa degli stessi. Rileva che la Corte territoriale non avrebbe indicato sulla base di quali elementi fosse pervenuta alla conclusione che all’interno dello stabilimento vi era una situazione di conflitto coinvolgente il (OMISSIS) e suoi colleghi di grado piu’ elevato.
2.2. Con il secondo motivo di ricorso incidentale la societa’ denuncia la violazione e/o falsa applicazione del Decreto Legislativo n. 196 del 2003, articoli 4, 13, 23 e 24 (articolo 360 c.p.c., n. 3) per non avere la Corte territoriale ritenuto le registrazioni legittime solo con il consenso degli interessati. Sostiene che nella specie non fosse applicabile l’esimente considerata dai giudici di appello in quanto non vi era da far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria.
3.1. Ragioni di ordine logico impongono l’esame prioritario del ricorso incidentale.
I motivi di tale ricorso, da trattarsi congiuntamente in ragione della intrinseca connessione, sono infondati.
3.2. Va innanzitutto chiarito che, sulla base della normativa a tutela della privacy (Decreto Legislativo 30 giugno 2003, n. 196, oggetto di successivi aggiornamenti), per trattamento dei dati personali si deve intendere qualunque operazione o complesso di operazioni, effettuati anche senza l’ausilio di strumenti elettronici, concernenti la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la conservazione, la consultazione, l’elaborazione, la modificazione, la selezione, l’estrazione, il raffronto, l’utilizzo, l’interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati, anche se non registrati in una banca di dati – articolo 4, lettera a) – e che per dato personale si deve intendere qualunque informazione relativa a persona fisica, identificata o identificabile, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale – articolo 4 lettera b) – e cosi’, dunque, qualunque informazione che possa fornire dettagli sulle caratteristiche, abitudini, stile di vita, relazioni personali, orientamento sessuale, situazione economica, stato civile, stato di salute etc. della persona fisica ma anche e soprattutto le immagini e la voce della persona fisica.
Ai sensi del Decreto Legislativo n. 196 del 2003, articolo 23, il trattamento di dati personali da parte di privati o di enti pubblici economici e’ ammesso solo con il consenso espresso dell’interessato.
L’articolo 167, comma 1, sotto la rubrica trattamento illecito di dati, apre il capo II (dedicato agli illeciti penali) del titolo III (rubricato sanzioni) del Decreto Legislativo n. 196 del 2003. La norma prevede due distinte condotte tipiche, diversamente sanzionate: l’una relativa al trattamento illecito di dati personali da cui derivi nocumento al titolare dei dati stessi e l’altra consistente nella comunicazione o diffusione dei dati illecitamente trattati, indipendentemente dal potenziale nocumento che ne derivi a terzi. Entrambe le condotte presuppongono un preventivo trattamento dei dati personali altrui, realizzato in violazione delle prescrizioni dettate, tra gli altri, dall’articolo 23 del medesimo d.lgs..
Ai sensi dell’articolo 4, comma 1, lettera m), la condotta di diffusione consiste, poi, nel dare conoscenza dei dati personali a soggetti indeterminati, in qualunque forma, anche mediante la loro messa a disposizione o consultazione.
Il trattamento dei dati personali, ammesso di norma in presenza del consenso dell’interessato, puo’ essere eseguito anche in assenza di tale consenso, se, come statuisce l’articolo 24, comma 1, lettera f), e’ volto a far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria o per svolgere le investigazioni difensive previste dalla L. n. 397 del 2000, e cio’ a condizione che i dati siano trattati esclusivamente per tali finalita’ e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento.
Si tratta, come e’ di tutta evidenza, della previsione di una deroga che rende l’attivita’, se svolta nel rispetto delle condizioni ivi previste, di per se’ gia’ a monte lecita.
In tale ipotesi, e dunque laddove il trattamento dei dati personali operato in assenza del consenso del titolare dei dati medesimi sia strettamente strumentale alla tutela giurisdizionale di un diritto da parte di chi tale trattamento effettua e pertanto sia finalizzato all’esercizio delle prerogative di difesa, e’ evidentemente anche insussistente il presupposto delle condotte incriminatrici previste dal Decreto Legislativo n. 196 del 2003, articolo 167, comma 1.
La giurisprudenza di questa Corte ha costantemente sottolineato, in termini generali, come la rigida previsione del consenso del titolare dei dati personali subisca “deroghe ed eccezioni quando si tratti di far valere in giudizio il diritto di difesa, le cui modalita’ di attuazione risultano disciplinate dal codice di rito” (Cass., Sez. U., 8 febbraio 2011, n. 3034). Cio’ sulla scorta dell’imprescindibile necessita’ di bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una parte e della tutela giurisdizionale del diritto dall’altra e pertanto di contemperare la norma sul consenso al trattamento dei dati con le formalita’ previste dal codice di procedura civile per la tutela dei diritti in giudizio.
In linea con tale impostazione ed in ambito piu’ strettamente lavoristico e’ stato ulteriormente precisato che la registrazione fonografica di un colloquio tra presenti, rientrando nel genus delle riproduzioni meccaniche di cui all’articolo 2712 c.c., ha natura di prova ammissibile nel processo civile del lavoro cosi’ come in quello penale. Si e’, quindi, ritenuto (v. Cass. 29 dicembre 2014, n. 27424 ed i richiami in essa contenuti a Cass. 22 aprile 2010, n. 9526 ed a Cass. 14 novembre 2008, n. 27157), alla luce della giurisprudenza delle Sezioni penali di questa S.C., che la registrazione fonografica di un colloquio, svoltosi tra presenti o mediante strumenti di trasmissione, ad opera di un soggetto che ne sia partecipe, e’ prova documentale utilizzabile quantunque effettuata dietro suggerimento o su incarico della polizia giudiziaria, trattandosi, in ogni caso, di registrazione operata da persona protagonista della conversazione, estranea agli apparati investigativi e legittimata a rendere testimonianza nel processo (espressamente in tal senso v. Cass. pen. n. 31342/11; Cass. pen. n. 16986/09; Cass. pen. n. 14829/09; Cass. pen. n. 12189/05; Cass. pen., Sez. U., n.36747/03).
E’ stato, altresi’, chiarito che l’iporesi derogatoria di cui al Decreto Legislativo n. 196 del 2003, articolo 24 che permette di prescindere dal consenso dell’interessato sussiste anche quando il trattamento dei dati, pur non riguardanti una parte del giudizio in cui la produzione viene eseguita, sia necessario, per far valere o difendere un diritto (Cass. 20 settembre 2013, n. 21612).
Unica condizione richiesta e’ che i dati medesimi siano trattati esclusivamente per tali finalita’ e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento (cfr. la sopra richiamata Cass., Sez. U., n. 3033/2011 nonche’ Cass. 11 luglio 2013, n. 17204 e Cass. 1 agosto 2013, n. 18443).
Quanto poi al concreto atteggiarsi del diritto di difesa, e’ stato ritenuto che la pertinenza dell’utilizzo rispetto alla tesi difensiva va verificata nei suoi termini astratti e con riguardo alla sua oggettiva inerenza alla finalita’ di addurre elementi atti a sostenerla e non alla sua concreta idoneita’ a provare la tesi stessa o avendo riguardo alla ammissibilita’ e rilevanza dello specifico mezzo istruttorio (v. la gia’ citata Cass. n. 21612/2013).
Inoltre, il diritto di difesa non va considerato limitato alla pura e semplice sede processuale, estendendosi a tutte quelle attivita’ dirette ad acquisire prove in essa utilizzabili, ancor prima che la controversia sia stata formalmente instaurata mediante citazione o ricorso (cfr. la gia’ citata Cass. n. 27424/2014). Non a caso nel codice di procedura penale il diritto di difesa costituzionalmente garantito dall’articolo 24 Cost. sussiste anche in capo a chi non abbia ancora assunto la qualita’ di parte in un procedimento: basti pensare al diritto alle investigazioni difensive ex articolo 391 bis c.p.p. e ss., alcune delle quali possono esercitarsi addirittura prima dell’eventuale instaurazione di un procedimento penale (cfr. articolo 391 nonies c.p.p.), oppure ai poteri processuali della persona offesa, che – ancor prima di costituirsi, se del caso, parte civile – ha il diritto, nei termini di cui all’articolo 408 c.p.p. e ss. – di essere informata dell’eventuale richiesta di archiviazione, di proporvi opposizione e, in tal caso, di ricorrere per cassazione contro il provvedimento di archiviazione che sia stato emesso de plano, senza previa fissazione dell’udienza camerale.
Nella fattispecie qui in esame, la Corte territoriale, con accertamento non censurabile in questa sede, dopo aver premesso che quelle di cui si discuteva erano registrazioni di colloqui ad opera del (OMISSIS), vale a dire di una delle persone presenti e partecipi ad essi, ha ritenuto che il suddetto dipendente avesse adottato tutte le dovute cautele al fine di non diffondere le registrazioni dal medesimo effettuate all’insaputa dei soggetti coinvolti ed ha considerato operante la deroga relativa all’ipotesi per cui il consenso non fosse richiesto, trattandosi di far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria. Cosi’ ha evidenziato che la condotta era stata posta in essere dal dipendente per tutelare la propria posizione all’interno dell’azienda, messa a rischio da contestazioni disciplinari non proprio cristalline e per precostituirsi un mezzo di prova visto che diversamente avrebbe potuto trovarsi nella difficile situazione di non avere strumenti per tutelare la propria posizione ritenuta pregiudicata dalla condotta altrui. Il tutto in un contesto caratterizzato da un conflitto tra il (OMISSIS) ed i colleghi di rango piu’ elevato e da inascoltate recriminazioni relative a disorganizzazioni lavorative asseritamente alla base delle indicate contestazioni disciplinari (cfr. pag. 9 della sentenza, ultimo capoverso fino al primo di pag. 10) in cui il reperimento delle varie fonti di prova poteva risultare particolarmente difficile a causa di eventuali possibili sacche di omerta’ come era dato apprezzare da quanto emerso in sede di istruttoria (cfr. pag. 10 della sentenza, penultimo capoverso).
Ed allora, si trattava di una condotta legittima, pertinente alla tesi difensiva del lavoratore e non eccedente le sue finalita’, che come tale non poteva in alcun modo integrare non solo l’illecito penale ma anche quello disciplinare, rispondendo la stessa alle necessita’ conseguenti al legittimo esercizio di un diritto, cio’ sia alla stregua dell’indicata previsione derogatoria del codice della privacy sia, in ipotetica sua incompatibilita’ con gli obblighi di un rapporto di lavoro e di quelli connessi all’ambiente in cui esso si svolge, sulla base dell’esistenza della scriminante generale dell’articolo 51 c.p., di portata generale nell’ordinamento e non gia’ limitata al mero ambito penalistico (e su cio’ dottrina e giurisprudenza sono, com’e’ noto, da sempre concordi – cfr. la gia’ richiamata Cass. n. 27424/2014 -).
Altro sarebbe stato – sia ben chiaro – se si fosse trattato di registrazioni di conversazioni tra presenti effettuate a fini illeciti (ad esempio estorsivi o di violenza privata): ma non e’ questo il senso della contestazione disciplinare per cui e’ causa che, per quanto si rileva dal contenuto della stessa testualmente riportato nella sentenza impugnata, aveva avuto ad oggetto la gravissima ed intollerabile violazione della legge sulla privacy comportante l’ipotesi del trattamento illecito dei dati punibile con la reclusione da 6 a 24 mesi.
Ne’, invero, risulta provato che il (OMISSIS), come si legge sempre nella contestazione disciplinare, a meta’ dicembre 2012, avesse scattato foto nella zona dell’ingresso merci al solo scolo di prendere in giro un suo collega di lavoro.
Nella specie, dunque, la condotta legittima del (OMISSIS) non poteva in alcun modo ledere il vincolo fiduciario sotteso al rapporto di lavoro, fondato, come di regola, sulle capacita’ del dipendente di adempiere in modo puntuale l’obbligazione lavorativa, dovendo escludersi che i fatti al medesimo addebitati nella lettera di contestazione potessero configurare inadempimenti contrattuali di sorta (perche’ qui iure suo utitur neminem laedit) o – peggio – azioni delittuose.
4.1. Le considerazioni che precedono consentono, poi, di ritenere fondato il primo motivo del ricorso principale (con assorbimento del secondo).
4.2. La condotta del (OMISSIS), in se’ lecita, non poteva rilevare in sede disciplinare.
Del tutto evidente e’ che il clima di tensione e sospetti venutosi a creare tra gli ignari colleghi dopo da rivelazione delle registrazioni e cioe’ una situazione facente capo al prestatore di lavoro ma non costituente inadempimento, al piu’ poteva assumere rilevanza, in una prospettiva del tutto diversa, in termini di obiettiva incompatibilita’ del dipendente con l’ambiente di lavoro, se tale da rendere insostenibile la situazione incidendo negativamente sulla stessa organizzazione del lavoro e sul regolare funzionamento dell’attivita’, e dunque, ove ricorrenti i relativi presupposti, quale giustificato motivo oggettivo di licenziamento (cfr. Cass. 25/07/2003, n. 11556; Cass. 11 agosto 1998, n. 7904), non certo sotto il profilo disciplinare.
Ed allora va considerato che nella locuzione insussistenza del fatto contestato di cui della L. n. 300 del 1970, articolo 18, comma 5, come novellato dalla L. n. 92 del 2012 il fatto deve intendersi in senso giuridico e non meramente materiale.
In primo luogo, va tenuto presente che il mero fatto – come giustamente osservato da certa dottrina – non ha mai un proprio autonomo rilievo nel mondo giuridico al di fuori della qualificazione che, in maniera espressa od implicita, ne fornisca una data norma. Non lo si puo’ apprezzare e non puo’ produrre effetti giuridici senza riferimenti normativi. Diversamente, per definizione ricade nell’irrilevante giuridico.
Ad analogo risultato conduce l’approccio ermeneutico sotto una visuale strettamente processualistica.
Per consolidata giurisprudenza (cfr., per tutte, Cass., Sez. U., 10 gennaio 2006, n. 141) giusta causa o giustificato motivo di licenziamento sono fatti impeditivi o estintivi del diritto del dipendente di proseguire nel rapporto di lavoro, vale a dire eccezioni (non a caso, L. n. 604 del 1966, ex articolo 5 la giusta causa o il giustificato motivo di licenziamento devono essere provati dal datore di lavoro).
E tutte le eccezioni, proprio perche’ tali, sono composte da un fatto (inteso in senso storico-fenomenico) e dalla sua significativita’ giuridica (in termini di impedimento, estinzione o modificazione della pretesa azionata dall’attore).
In altre parole, per sua stessa natura l’eccezione non ha mai ad oggetto un mero fatto, ma sempre un fatto giuridico.
Lo stesso punto d’arrivo e’ suggerito in un’ottica sostanzialistica e di coerenza interna del vigente articolo 18 St. lav., nonche’ di compatibilita’ costituzionale.
Infatti, se per insussistenza del fatto contestato si intendesse quella a livello meramente materiale si otterrebbe l’illogico effetto di riconoscere maggior tutela (quella reintegratoria c.d. attenuata di cui all’articolo 18, comma 4) a chi abbia comunque commesso un illecito disciplinare (seppur suscettibile di mera sanzione conservativa alla stregua dei contratti collettivi o dei codici disciplinari applicabili) rispetto a chi, invece, non ne abbia commesso alcuno, avendo tenuto una condotta lecita.
L’esito sarebbe quello di una irragionevole disparita’ di trattamento, in violazione dell’articolo 3 Cost., oltre che di una intrinseca e inspiegabile aporia all’interno della medesima disposizione di legge.
Va allora ribadito il principio gia’ affermato da questa Corte secondo cui: “L’insussistenza del fatto contestato, di cui all’articolo 18 St. lav., come modificato dalla L. n. 92 del 2012, articolo 1, comma 42, comprende l’ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceita’, sicche’ in tale ipotesi si applica la tutela reintegratoria, senza che rilevi la diversa questione della proporzionalita’ tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceita’” (cfr. Cass. 13 ottobre, 2015, n. 20540; Cass. 20 settembre 2016, n. 18418 e le piu’ recenti Cass. 26 maggio 2017, n. 13383 e Cass. 31 maggio 2017, n. 13799).
5. Conclusivamente, va accolto il primo motivo di ricorso principale, assorbito il secondo e va rigettato il ricorso incidentale; la sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto con rinvio alla Corte d’appello di Roma che fara’ applicazione del principio sopra indicato e provvedera’ anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimita’.
6. Va dato atto, quanto alla posizione della ricorrente incidentale, dell’applicabilita’ del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, articolo 1, comma 17.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso principale, assorbito il secondo e rigetta il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Roma.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1-quater, da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.
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