Ai fini della configurabilità del reato previsto dall’art. 513-bis cod. pen.

Corte di Cassazione, sezioni unite penali, Sentenza 28 aprile 2020, n. 13178.

Massima estrapolata:

Ai fini della configurabilità del reato previsto dall’art. 513-bis cod. pen. è necessario che gli atti di concorrenza posti in essere nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva siano connotati da violenza o minaccia e idonei a contrastare od ostacolare la libertà di autodeterminazione dell’impresa concorrente.

Sentenza 28 aprile 2020, n. 13178

Data udienza 28 novembre 2019

Tag – parola chiave: Reati contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio – Reato di illecita concorrenza ex art. 513 – bis – Configurazione – Atti violenti nell’esercizio di attività produttiva idonei a contrastare la libertà dell’impresa concorrente – Necessità – Sussiste

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE UNITE PENALI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARCANO Domenico – Presidente

Dott. FUMU Giacomo – Consigliere

Dott. MAZZEI Antonella P. – Consigliere

Dott. FIDELBO Giorgio – Consigliere

Dott. MOGINI Stefano – Consigliere

Dott. ANDREAZZA Gastone – Consigliere

Dott. DE AMICIS Gaetano – rel. Consigliere

Dott. CAPUTO Angelo – Consigliere

Dott. ANDRONIO Alessandro M. – Consigliere

ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
1. (OMISSIS), nato a (OMISSIS);
2. (OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 04/04/2018 della Corte di appello di Napoli;
visti gli atti, la sentenza impugnata e i ricorsi;
udita la relazione svolta dal Componente Dr. Gaetano De Amicis;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dr. Lignola Ferdinando, che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi.

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza impugnata la Corte di appello di Napoli ha confermato la sentenza pronunciata dal Tribunale di Nola il 14 gennaio 2016, che condannava (OMISSIS) e (OMISSIS) alla pena di anni due e mesi dieci di reclusione ritenendoli responsabili dei delitti, unificati dal vincolo della continuazione, di cui agli articoli 110 e 513-bis c.p. (capo 1) e articoli 110 e 582 c.p., articolo 585 c.p., comma 1, u.p. e articolo 576 c.p., n. 1 (capo 2).
Ai predetti imputati e’ stato contestato di aver compiuto, in concorso fra loro, atti di illecita concorrenza con minaccia e violenza, consistite, rispettivamente, nel pronunciare la frase “sei venuto a lavorare nella nostra zona, allontanati subito da qui e non far piu’ ritorno a (OMISSIS) per lavori di spurgo”, e nel cagionare, colpendolo con calci e pugni, lesioni giudicate guaribili in tre giorni a (OMISSIS), dipendente della ditta individuale ” (OMISSIS)”, la quale effettuava lavori di spurgo nel medesimo ambito territoriale ove gli imputati, operanti nel medesimo settore, rivendicavano l’esclusiva.
2. Avverso la decisione della Corte di appello ha proposto ricorso per cassazione il difensore degli imputati.
2.1. Con il primo motivo deduce violazioni di legge e vizi della motivazione in relazione all’omessa valutazione delle risultanze offerte dalle dichiarazioni di un testimone addotto dalla difesa ( (OMISSIS)), nonche’ alla ritenuta credibilita’ delle deposizioni rese dalla persona offesa e da un altro testimone escusso in dibattimento ( (OMISSIS)).
Evidenzia al riguardo che la Corte territoriale avrebbe omesso di considerare la deposizione resa dal teste (OMISSIS), che ha fornito una versione dell’accaduto radicalmente diversa da quella riferita dalla persona offesa, accreditando la ricostruzione del fatto operata dagli imputati.
Sotto altro profilo, poi, le dichiarazioni rese dal teste (OMISSIS), genero della persona offesa, risulterebbero caratterizzate da incoerenza e inverosimiglianza, non avendo saputo indicare il nome del titolare della ditta che gli aveva commissionato il lavoro da piastrellista che stava effettuando nei pressi del locus commissi delicti, ne’ dove fosse ubicato l’appartamento oggetto di tali lavori.
Si soggiunge, infine, che in fase di indagini il Pubblico Ministero avrebbe cercato di acquisire elementi di riscontro in ordine alla presenza in loco del (OMISSIS), il cui datore di lavoro, tuttavia, sebbene piu’ volte sollecitato a confermare tale circostanza di fatto, avrebbe rifiutato di rendere dichiarazioni al riguardo.
2.2. Con il secondo motivo si prospettano analoghi vizi in relazione alla configurabilita’ del reato di cui all’articolo 513-bis c.p., muovendo dall’assunto che la Corte territoriale avrebbe erroneamente applicato la fattispecie in esame in quanto il suo ambito di operativita’ sarebbe ristretto solo a condotte tipicamente concorrenziali (come il boicottaggio, lo storno dei dipendenti, il rifiuto di contrattare), poste in essere attraverso atti di coartazione che inibiscono la normale dinamica imprenditoriale, con esclusione, pertanto, degli atti intimidatori finalizzati a contrastare od ostacolare l’altrui libera concorrenza.
Diversamente da quanto ritenuto nelle decisioni di merito, infatti, l’ipotesi di reato in esame, secondo un recente orientamento della giurisprudenza di legittimita’ che ha superato un diverso e risalente indirizzo interpretativo cui si e’ ispirata la sentenza impugnata, non sarebbe applicabile ad atti, come quelli in contestazione, di violenza e minaccia in relazione ai quali la limitazione della concorrenza e’ solo la mira teleologica dell’agente.
Ne’ dalle pronunzie di merito emergerebbe, peraltro, la descrizione dell’atto concorrenziale tipico nel quale si sarebbe concretata la condotta delittuosa degli imputati.
In via subordinata nel ricorso si chiede che la questione venga rimessa al vaglio delle Sezioni Unite.
3. Con ordinanza n. 26870 del 19 aprile 2019 la Terza Sezione penale ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite, prospettando l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale.
3.1. Rileva al riguardo la Sezione rimettente che, secondo un primo indirizzo giurisprudenziale, ritenuto maggiormente aderente alla lettera della norma, l’elemento oggettivo del reato di cui all’articolo 513-bis c.p. consiste nella repressione delle sole condotte illecite tipicamente concorrenziali e competitive (quali il boicottaggio, lo storno dei dipendenti, il rifiuto di contrattare, ecc.) che vengano realizzate con atti di violenza o minaccia tali da inibire la normale dinamica imprenditoriale, non rientrando invece nella fattispecie astratta quelle condotte intimidatorie finalizzate ad ostacolare o contrastare l’altrui libera concorrenza, che si pongano, pero’, al di fuori dell’attivita’ concorrenziale – quali, ad es., i casi di diretta aggressione ai beni dell’imprenditore concorrente ovvero alla sua persona -, ferma restando l’applicabilita’, in tali situazioni, di altre fattispecie di reato.
Secondo tale orientamento, la ratio della norma va individuata nella tutela della libera concorrenza, sicche’, ai fini dell’integrazione del reato, si ritengono “atti di concorrenza” soltanto quelle condotte concorrenziali ritenute illecite da un punto di vista civilistico, realizzate con metodi di coartazione volti ad ostacolare la normale dinamica imprenditoriale.
3.2. Un diverso orientamento interpretativo, di contro, ritiene che il delitto in esame sia configurabile ogni qualvolta si realizzi un comportamento che, attraverso l’uso strumentale della violenza o della minaccia, sia idoneo ad impedire al concorrente di autodeterminarsi nell’esercizio della sua attivita’ commerciale, industriale o comunque produttiva. Entro tale prospettiva sono qualificabili come atti di concorrenza illecita tutti quei comportamenti, “attivi” o “impeditivi” dell’altrui concorrenza, che, commessi da un imprenditore con violenza o minaccia, sono idonei a falsare il mercato e a consentirgli di acquisire, in danno dell’imprenditore minacciato, illegittime posizioni di vantaggio sul libero mercato, senza alcun merito derivante dalla propria capacita’ operativa.
Siffatta diversa opzione ermeneutica, osserva la Sezione rimettente, trova il suo fondamento sia nella volonta’ del legislatore, che ha inteso reprimere, con la introduzione della norma incriminatrice de qua, forme di intimidazione volte a controllare e/o a condizionare le attivita’ commerciali e produttive nello specifico ambiente della criminalita’ organizzata di stampo mafioso, sia nella norma extra-penale di cui all’articolo 2598 c.c., che se, da una parte, prevede ai nn. 1) e 2) casi tipici di concorrenza sleale parassitaria, ovvero attiva, dall’altra contempla, al numero 3), una norma di chiusura secondo la quale sono atti di concorrenza sleale tutti i comportamenti contrari ai principi della correttezza professionale idonei a danneggiare l’altrui azienda.
Ne consegue che rientrano nella fattispecie in esame non solo le condotte tipicamente concorrenziali, ma anche tutti quegli atti intimidatori che siano finalizzati a contrastare o ad ostacolare l’altrui liberta’ di concorrenza.
4. Il Presidente aggiunto, con decreto del 6 settembre 2019, ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite e ne ha disposto la trattazione all’odierna udienza pubblica.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. La questione di diritto per la quale il ricorso e’ stato rimesso alle Sezioni Unite e’ riassumibile nei termini di seguito indicati: “se, ai fini della configurabilita’ del reato di illecita concorrenza con minaccia o violenza, sia necessario il compimento di condotte illecite tipicamente concorrenziali o, invece, sia sufficiente anche il solo compimento di atti di violenza o minaccia comunque idonei a contrastare od ostacolare l’altrui liberta’ di concorrenza”.
Sull’ambito di applicazione del reato di illecita concorrenza con minaccia o violenza previsto dall’articolo 513-bis c.p., e in particolare sulla interpretazione della nozione di “atti di concorrenza”, che costituisce l’asse attorno al quale ruota l’intera fattispecie incriminatrice, si registrano tre diversi orientamenti giurisprudenziali.
2. Secondo un primo indirizzo interpretativo il dato testuale della fattispecie prevista dall’articolo 513-bis c.p. ricomprende solo i comportamenti competitivi tipici che si prestino ad essere realizzati con mezzi vessatori, ossia con violenza o minaccia nei confronti di altri soggetti economici tendenzialmente operanti nello stesso settore (Sez. 3, n. 46756 del 03/11/2005, Mannone, Rv. 232650; Sez. 2, n. 35611 del 27/06/2007, Tarantino, Rv. 237801; Sez. 3, n. 16195 del 06/03/2013, Fammilume, Rv. 255398).
Pur non limitata alle condotte poste in essere da appartenenti ad associazioni criminali, la norma incriminatrice viene ritenuta inapplicabile agli atti di violenza o minaccia non sostanziatisi in condotte illecite tipicamente concorrenziali, quand’anche la finalita’ perseguita dall’agente si identifichi con la limitazione della liberta’ di concorrenza (Sez. 2, n. 35611 del 27/06/2007, Tarantino, cit.; Sez. 1, n. 6541 del 02/02/2012, Aquino, Rv. 252435; Sez. 6, n. 44698 del 22/09/2015, Cannizzaro, Rv. 265358; Sez. 2, n. 49365 del 08/11/2016, Prezioso, Rv. 268515; Sez. 2, n. 53139 del 08/11/2016, Cotardo, Rv. 268640). Vi rientrano, pertanto, solo comportamenti quali, ad es., il boicottaggio, lo storno di dipendenti ed il rifiuto di contrattare (Sez. 3, n. 46756 del 03/11/2005, Mannone, cit.; Sez. 2, n. 29009 del 27/05/2014, Ciliberti, Rv. 260039; Sez. 2, n. 9763 del 10/02/2015, Amadoro, Rv. 263299; Sez. 3, n. 16195 del 06/03/2013, Fammilume, cit.).
Entro tale prospettiva, dunque, il reato non e’ riferibile anche a colui che nell’esercizio di un’attivita’ imprenditoriale compie atti intimidatori al fine di contrastare o scoraggiare l’altrui libera concorrenza, atteso che la disposizione in questione, introdotta dalla L. 13 settembre 1982, n. 646, articolo 8, mira a reprimere la concorrenza illecita che si concretizza in forme di intimidazione tipiche della criminalita’ organizzata, a sua volta orientata a controllare, con metodi violenti o mafiosi, le attivita’ commerciali, industriali e piu’ genericamente produttive (Sez. 3, n. 46756 del 03/11/2005, Mannone, cit., che richiama in motivazione quanto gia’ affermato da Sez. 6, n. 3492 del 09/01/1989, Spano, Rv. 180706, secondo cui la norma tende ad impedire quei comportamenti intimidatori che, attraverso l’uso strumentale della violenza e della minaccia, incidono su quella fondamentale legge di mercato che vuole la concorrenza “non solo libera, ma anche lecitamente attuata”).
Coerente con tale ricostruzione e’ l’affermazione secondo cui le condotte commesse con atti di violenza e minaccia in relazione ai quali la limitazione della concorrenza costituisce solo la mira teleologica dell’agente devono propriamente ricondursi ad altre fattispecie di reato (come, ad es., il delitto di cui all’articolo 629 c.p.). La norma in esame, di contro, mira a sanzionare solo la commissione di atti di concorrenza che si pongono “oltre i limiti legali”, inibendo la normale dinamica imprenditoriale con una conseguente turbativa del libero mercato, in un “clima di intimidazione e con metodi violenti”.
Secondo tale orientamento non puo’ accogliersi, in altri termini, l’interpretazione che tende a ritenere integrato il tipo di reato nel caso di violenza o minaccia finalisticamente connotata dall’intenzione di scoraggiare l’altrui concorrenza (cosi’ incidendo sull’elemento soggettivo della fattispecie), poiche’ questa opzione ermeneutica non puo’ essere considerata conforme al dato testuale e pone, al contempo, inevitabili problemi di violazione del principio di tassativita’, a fronte di un enunciato normativo la cui formulazione intende invece isolare, dalla generalita’ degli atti violenti, gli specifici atti di concorrenza, pur commessi con quella particolare modalita’.
3. Un diverso orientamento giurisprudenziale interpreta la norma descritta nell’articolo 513-bis cit. in senso ampio, non limitato alle indicazioni desumibili dalle pertinenti disposizioni del codice civile, come se la condotta s’incentrasse sulla violenza o minaccia posta in essere con il dolo specifico di inibire la concorrenza (Sez. 3, n. 44169 del 22/10/2008, Di Nuzzo, Rv. 241683; Sez. 1, n. 9750 del 03/02/2010, Bongiorno, Rv. 246515; Sez. 2, n. 6462 del 16/12/2010, dep 2011, Sfraga, Rv. 249372; Sez. 2, n. 9513 del 18/01/2018, letto, Rv. 272371).
Nel richiamare la ratio giustificativa della previsione della fattispecie incriminatrice, siffatto indirizzo interpretativo mira a tutelare nella sua massima potenzialita’ espansiva il contenuto del bene protetto, evidenziando come l’ambito di applicazione non possa ritenersi limitato al campo della criminalita’ organizzata, poiche’ cio’ che rileva non e’ tanto la commissione di tipici atti di concorrenza, quanto la realizzazione di una serie di attivita’ violente e minacciose, che proprio per le loro caratteristiche di fatto configurano una concorrenza illecita e tendono a controllare le attivita’ commerciali, o comunque a condizionarne il libero esercizio (Sez. 3, n. 450 del 15/02/1995, Tamborrini, Rv. 201578; Sez. 2, n. 13691 del 15/03/2005, De Noia Mecenero, Rv. 231129; Sez. 6, n. 24741 del 05/05/2015, Iacopino, Rv. 265603; in motivazione v., inoltre, Sez. 1, n. 19713 del 22/02/2005, Oliva, Rv. 231968). Si sottolinea, in tal senso, che il riferimento alle condotte tipiche della criminalita’ organizzata non intende affatto “dimensionare l’ambito di applicabilita’ della norma (restringendolo alle sole operazioni di criminalita’ organizzata), ma solo caratterizzare i comportamenti punibili con il ricorso a un significativo parallelismo”.
Secondo tale impostazione, posto che il bene giuridico tutelato consiste non solo nel buon funzionamento dell’intero sistema economico, ma anche nella liberta’ della persona di autodeterminarsi nell’esercizio della sua attivita’ commerciale, industriale o comunque produttiva, l’atto di concorrenza illecita ex articolo 513-bis cit. e’ configurabile in qualsiasi comportamento violento o intimidatorio che sia idoneo ad impedire al concorrente di avvalersi della sua liberta’ d’impresa.
Siffatta linea interpretativa, dunque, sii esprime in senso favorevole ad un’applicazione quanto piu’ generalizzata della norma, proiettata non solo al di fuori del contesto proprio della criminalita’ organizzata, ma anche verso una prospettiva di tutela nei confronti di eventuali atti di concorrenza sleale “atipici”, e comunque non limitati all’area di incidenza della disciplina civilistica della concorrenza sleale emergente dall’articolo 2595 c.c. ss..
Si tende, all’interno di tale impostazione ricostruttiva, a valorizzare il concetto di “atti impeditivi” della concorrenza, quale connotazione della condotta che tiene conto del contesto nel quale normalmente, anche se non necessariamente, maturano i comportamenti oggetto della previsione normativa, cosi’ accogliendo la volonta’ del legislatore di sanzionare quelle condotte poste in essere in ambienti o settori caratterizzati dalla presenza esplicita di associazioni a delinquere di stampo mafioso ovvero dalla contiguita’ ad esse dei soggetti attivi, seppur esercenti un’attivita’ di natura imprenditoriale.
Pur non potendosi qualificare propriamente come “atto di concorrenza” un banale litigio tra venditori ambulanti, si ritiene comunque necessario accedere ad un “significato ampio” di tale nozione, in modo da includervi sia quelle condotte dirette a distruggere direttamente l’attivita’ del concorrente, sia quelle finalizzate ad evitare che possa essere esercitato un atto di concorrenza lecita (come, ad esempio, il ribasso dei prezzi), cosi’ da sanzionare tutti quegli atti volti a rimuovere le condizioni che rendono possibile la stessa capacita’ di autodeterminazione dei soggetti economici.
4. Dalla linea ermeneutica tracciata dal secondo orientamento ha preso le mosse, progressivamente sedimentandosi nel tempo, un terzo indirizzo interpretativo, essenzialmente finalizzato a valorizzare le prospettive di una meno restrittiva e piu’ completa definizione del concetto di “atti di concorrenza” attraverso il riferimento non solo alla ratio della norma incriminatrice, ma anche alla necessita’ di integrarne il precetto alla luce della normativa italiana ed Europea in tema di tutela della concorrenza.
Nel tentativo di superare la contrapposizione fra i due orientamenti dianzi illustrati, la piu’ recente elaborazione giurisprudenziale di questa Corte (Sez. 2, n. 15781 del 26/03/2015, Arrichiello, Rv. 263530; Sez. 3, n. 3868 del 10/12/2015, dep. 2016, Ingui’, Rv. 266180; Sez. 2, n. 18122 del 13/04/2016, Gencarelli, Rv. 266847) ha affermato che la condotta materiale del delitto previsto dall’articolo 513-bis c.p. puo’ essere integrata da tutti gli atti di concorrenza sleale previsti dall’articolo 2598 c.c., fra i quali rientrano quelli diretti non solo a distruggere l’attivita’ del concorrente, ma anche ad impedire che possa essere esercitato un atto di libera concorrenza, come quello della ricerca di acquisizione di nuove fette di mercato, precisando che tale disposizione del codice civile, da interpretarsi alla luce della normativa comunitaria e della L. 10 ottobre 1990, n. 287, prevede ai numeri 1) e 2) i casi tipici di concorrenza sleale parassitaria, ovvero attiva, mentre al n. 3) contiene una norma di chiusura secondo cui sono atti di concorrenza sleale tutti i comportamenti contrari ai principi della correttezza professionale idonei a danneggiare l’altrui azienda.
Nel richiamare, al riguardo, gli approdi cui e’ pervenuta l’elaborazione giurisprudenziale della Corte di cassazione nel settore civile (Sez. 1 civ., n. 14394 del 10/08/2012, Rv. 624016; Sez. 1 civ., n. 25652 del 4/12/2014, Rv. 63350), si sottolinea che la condotta violenta o minacciosa deve essere valutata coerentemente con il su indicato quadro normativo, muovendo dall’assunto che il cercare di impedire l’attivita’ di un imprenditore nella sua opera di promozione e proposizione sul mercato della propria attivita’ commerciale o imprenditoriale costituisce un comportamento certamente contrario alla correttezza professionale, idoneo a danneggiare l’altrui azienda, perche’ “teso ad ostacolare la libera e lecita concorrenza della parte offesa, nell’acquisizione di una fetta di mercato del settore ove operano anche altre imprese”.
Per le medesime ragioni si afferma che tale condotta deve al contempo ritenersi lesiva del principio della libera concorrenza intesa come concorrenza effettiva tra imprese che liberamente competono sul mercato, nella piu’ ampia prospettiva risultante dall’analisi dell’intero quadro normativo comunitario (ex articoli 101, 102 e 120 TFUE e articolo 16 CDFUE), i cui principii, in considerazione della prevalenza riconosciuta sulle relative norme interne ex articoli 11 e 117 Cost., si impongono anche nell’interpretazione della disposizione di cui all’articolo 2598 c.c..
Assumono in tal modo rilievo sia quei comportamenti che, commessi da un imprenditore con violenza o minaccia, risultano “idonei a falsare il mercato” e a consentire l’acquisizione, in danno dell’imprenditore minacciato, di illegittime posizioni di vantaggio senza alcun merito derivante dalla propria capacita’ operativa (come nel caso tipico dell’intimidazione esercitata da parte di un imprenditore nei confronti di un altro, rispetto a lavori appaltati ma rivendicati come propri), sia le condotte contrarie ai principi della correttezza professionale, intese come “qualunque comportamento violento o minatorio” posto in essere nell’esercizio dell’attivita’ imprenditoriale al fine di acquisire una posizione dominante sul mercato non correlata alla capacita’ operativa dell’impresa (Sez. 6, n. 38551 del 05/06/2018, D., Rv. 274101; Sez. 2, n. 30406 del 19/06/2018, Sergi, Rv. 273374), o comunque diretto ad alterare l’ordinario e libero rapportarsi degli operatori in una economia di mercato (Sez. 6, n. 50094 del 12/07/2018, Alati, Rv. 275717; Sez. 6, n. 50084 del 12/07/2018, Terracciano, Rv. 274288). A sostegno di tale ricostruzione ermeneutica si rimarca, in definitiva, il fatto che, sebbene il legislatore abbia svincolato la costruzione della fattispecie dalla necessita’ di una diretta connessione con il contesto specifico della criminalita’ organizzata, lo scopo della disposizione e’ quello di arginare la pericolosita’ di quelle condotte anticoncorrenziali comunque realizzate con comportamenti violenti o minatori.
5. L’origine del contrasto giurisprudenziale va ricercata nella ambiguita’ della formulazione del testo dell’articolo 513-bis c.p., la cui introduzione risale alla L. 13 dicembre 1982, n. 646 (cd. Rognoni-La Torre), recante disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale, per la volonta’, dettata dall’urgenza della particolare temperie storico-politica in cui la figura criminosa ha trovato la sua genesi, di far fronte ad “un comportamento tipico mafioso che e’ quello di scoraggiare con l’esplosione di ordigni, danneggiamenti o con violenza alle persone, la concorrenza” (cosi’ si esprimeva la Relazione illustrativa della proposta di L. n. 1581 presentata alla Camera dei deputati il 31 marzo 1980, in Atti parlamentari, VIII Legislatura).
La volonta’ parlamentare, dunque, appariva orientata a contrastare e reprimere lo svolgimento di tutte quelle attivita’ di impresa gestite, anche indirettamente, da associazioni di stampo mafioso, o comunque ad esse riferibili nel porre in essere condotte intimidatorie in danno di imprese operanti in settori affini o nella medesima realta’ territoriale, con il palese obiettivo di acquisire indebite posizioni di preminenza.
L’espansione delle forme di compenetrazione fra organizzazioni criminali e settori dell’imprenditoria era infatti crescente, sicche’ l’esigenza di una sua limitazione sembrava imprescindibile dall’apprestamento di nuovi e specifici strumenti di tutela attraverso la previsione di una fattispecie ad hoc, finalizzata a colmare la lacuna normativa esistente tra il delitto di estorsione e la contigua fattispecie di turbata liberta’ dell’industria o del commercio.
In tal senso, rispetto al delitto di cui all’articolo 629 c.p. la dottrina ha osservato, da un lato, che l’offesa era in tal caso diretta sostanzialmente verso il patrimonio dei singoli (e, naturalmente, verso la persona), dall’altro lato che, ai fini della configurabilita’ del reato, restava comunque necessaria la prova dell’ingiusto profitto con l’altrui danno.
Per quel che attiene invece al rapporto con la contigua figura criminosa prevista dall’articolo 513 c.p. si e’ posto in evidenza che, sebbene tale norma tutelasse la liberta’ dell’iniziativa economica nel settore delle attivita’ produttive, il compimento di atti di violenza ivi previsto assumeva rilievo sul piano penale solo in quanto diretto, in modo esclusivo, verso le cose.
Ora, sebbene la proiezione storico-politica della norma introdotta con l’articolo 513-bis rifletta l’intento, generalmente avvertito, di fronteggiare l’emergenza legata ad un contesto socio-economico caratterizzato dalla crescente incidenza di fenomeni criminali legati alle attivita’ della cd. “mafia imprenditrice”, e’ agevole rilevare come la struttura della fattispecie incriminatrice sia stata congegnata dal legislatore in maniera del tutto indipendente dal peculiare contesto in cui ha visto la luce, delineandone un ambito di applicazione generale, non limitato alle condotte tipiche della criminalita’ organizzata e privo di qualsiasi connotazione specializzante anche sotto il profilo soggettivo, in quanto la condotta puo’ essere materialmente realizzata da “chiunque”, sia pure nell’esercizio di un’attivita’ commerciale, industriale o produttiva.
Alla luce di tale ricostruzione, dunque, ben si comprende il percorso evolutivo seguito dalla giurisprudenza, che ha gradualmente ampliato la portata applicativa della norma, inizialmente limitandone l’incidenza ai fini del contrasto di forme d’intimidazione mafiosa tese a scoraggiare la regolare dinamica dell’agire imprenditoriale (Sez. 6, n. 3492 del 09/01/1989, Spano, cit.), per poi escludere la necessaria realizzazione della condotta nel contesto delittuoso specifico della criminalita’ organizzata, sul rilievo che il riferimento ai comportamenti posti in essere in siffatti contesti criminali ha il solo fine di caratterizzare le condotte punibili tramite il ricorso ad un “significativo parallelismo” e non intende affatto dimensionare e circoscrivere l’ambito di applicazione della norma (Sez. 3, n. 450 del 15/02/1995, Tamborrini, cit.).
Nel testo dell’articolo 513-bis, peraltro, la dichiarata volonta’ legislativa di reprimere i comportamenti mafiosi diretti ad impedire il libero svolgimento dell’attivita’ imprenditoriale secondo le regole della concorrenza non ha trovato una fedele attuazione, poiche’ la descrizione del fatto tipico e’ stata seccamente incentrata sulla realizzazione di atti di concorrenza accompagnati da violenza o minaccia, senza alcun riferimento alla specificita’ di un determinato contesto criminale.
Sotto altro, ma connesso profilo, la scelta di collocare la disposizione tra i delitti contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio (nel Capo II del Titolo VIII) ha di fatto allontanato l’area della oggettivita’ giuridica della nuova figura di reato dal complesso delle fattispecie incriminatrici poste a tutela dell’ordine pubblico.
L’imprecisione della norma, del resto, e’ stata subito colta dalla dottrina, che nel criticarne la funzione prevalentemente “simbolica” ha posto in evidenza il problematico accostamento di elementi oggettivi di incerta ricomposizione interna (“atti di concorrenza”, da un lato, “violenza o minaccia dall’altro”), rilevando come l’uso della violenza e della minaccia si ponga all’esterno dei limiti e delle caratteristiche proprie dell’atto concorrenziale in senso tecnico, con il logico corollario che l’attivita’ volta a scoraggiare l’iniziativa imprenditoriale altrui attraverso l’impiego di tali metodi rischia di porsi al di la’ delle piu’ note e scorrette forme di attivita’ concorrenziale, esorbitando dal concetto classico di concorrenza sleale secondo la previsione dell’articolo 2598 c.c..
In tal senso, il problema fondamentale posto dall’interpretazione della figura di reato in esame, priva di precedenti legislativi immediati, e’ stato prontamente individuato nella palese divergenza fra la ratio della previsione normativa e l’ambito di incidenza della sua tipicita’, delineata dal legislatore in relazione ad una oggettivita’ giuridica i cui tratti identificativi sono risultati sostanzialmente diversi da quelli inizialmente annunciati, con il conseguente disallineamento venutosi a determinare fra Vintentio legis, la formulazione lessicale del dettato normativo e la successiva opera di esegesi compiuta in sede dottrinale e giurisprudenziale.
6. Cio’ posto, e richiamato il complesso delle considerazioni dianzi svolte, deve rilevarsi come i primi due orientamenti giurisprudenziali muovano da impostazioni ricostruttive sensibilmente differenti, delineando percorsi argomentativi che in entrambi i casi giungono a soluzioni non condivisibili.
6.1. Il primo di essi intende conferire alla norma una maggiore determinatezza, tipizzando le condotte punibili attraverso il riferimento ad un parametro normativo preciso, ma estremamente delimitato nella sua potenzialita’ applicativa, la’ dove ne restringe l’incidenza ad isolate forme di comportamento competitivo, senza esplorare appieno la possibilita’ di un’interpretazione che si faccia carico di collocare la norma incriminatrice e il bene giuridico da essa tutelato all’interno di una visione complessiva dei presupposti della liberta’ di concorrenza nel sistema interno e nella sua piu’ ampia dimensione Euro-unitaria.
Per tali ragioni ne e’ stata criticata la ridotta efficacia delle capacita’ di tutela, che rischiano di subire un sensibile ridimensionamento rendendo la norma sostanzialmente inapplicabile se non in casi assai limitati.
6.2. Il secondo indirizzo ermeneutico, nel mostrare una maggiore sintonia con le finalita’ e le ragioni di politica criminale che hanno accompagnato l’introduzione della fattispecie in esame, ne offre una lettura decisamente ampli’ativa rispetto a quella accolta dal primo orientamento, valorizzando la sola prospettiva teleologica dell’azione, sicche’ il carattere concorrenziale dell’atto non e’ dato dalla sua natura materiale, ma dalla sua finalita’.
Cosi’ ragionando, tuttavia, si finirebbe necessariamente per accogliere il risultato di una vera e propria equiparazione tra l’atto violento o minaccioso finalizzato ad inibire la concorrenza, non ravvisabile nel dato normativo, e l’atto di concorrenza commesso con violenza o minaccia, espressamente annoverato fra gli elementi costitutivi del reato.
I rischi di compressione del principio di tassativita’ e determinatezza della legge penale emergono, dunque, con particolare evidenza.
Siffatta interpretazione estensiva della nozione degli atti di concorrenza, inoltre, rischia, da un lato, di rafforzare del tutto impropriamente l’incidenza dell’elemento psicologico dei reato poiche’, al di fuori di condotte intimidatorie poste in essere nell’esercizio dell’attivita’ concorrenziale, il fine dei comportamenti illeciti dovra’ comunque dirigersi verso il contrasto dell’altrui liberta’ di concorrenza; dall’altro lato, di imporre una rivisitazione del contenuto dell’oggettivita’ giuridica, dal momento che la norma verrebbe a tutelare situazioni ed attivita’ non riconducibili esclusivamente al libero autodeterminarsi dell’imprenditore nella sua attivita’ d’impresa, oltrepassando l’esigenza di protezione della sfera dell’economia pubblica, dell’industria e del commercio, per indirizzarsi di fatto verso la difesa di esigenze proprie dell’ordine pubblico.
6.3. Prospettive di maggior interesse ai fini della corretta soluzione del quesito rimesso a questa Suprema Corte emergono, di contro, dalla valorizzazione delle implicazioni sottese alla soluzione di mediazione prospettata dal terzo dei richiamati orientamenti giurisprudenziali, la’ dove si propone di ridefinire la tipicita’ della fattispecie assegnando al compimento degli “atti di concorrenza” una rinnovata centralita’ nel quadro evolutivo della pertinente normativa di riferimento, sia interna che di origine e derivazione Euro-unitaria, senza tralasciare l’importanza del richiamo alle ragioni e alle finalita’ di tutela che hanno storicamente determinato la genesi della norma descritta nell’articolo 513-bis c.p..
Prospettiva, questa, che reca in se’ importanti elementi di novita’, la cui rilevanza – nei termini che verranno di seguito illustrati – deve essere esaminata ed approfondita all’interno di un contesto normativo profondamente mutato rispetto a quello che vide l’inserimento nel sistema codicistico della predetta fattispecie di reato: un contesto “multilivello”, dunque piu’ ampio e complesso, le cui numerose articolazioni forniscono oggi all’interprete parametri di riferimento utili per meglio inquadrare nel sistema le scelte di incriminazione a suo tempo operate dal legislatore.
7. Pur in assenza di un’esplicita menzione, si ritiene che il principio di libera concorrenza sia tutelato a livello costituzionale dall’articolo 41 Cost., comma 1, il quale afferma che l’iniziativa economica privata e’ libera, sicche’ ogni individuo e’ libero di esercitare un’attivita’ economica, fatti salvi i limiti espressamente dettati nel comma 2 della richiamata disposizione. Tale principio e’ altresi’ tutelato, come piu’ avanti meglio si vedra’, dalla legislazione Europea e da quella ordinaria, che dettano al riguardo una serie di disposizioni volte a contrastare la formazione di monopoli privati e di coalizioni di imprese.
L’accelerazione del processo di integrazione Europea determinatosi fin dall’inizio degli anni novanta e la crescente importanza e pervasivita’ delle regole di concorrenza stabilite dall’Unione Europea, cui spetta a titolo di competenza esclusiva la loro definizione secondo criteri immediatamente vincolanti per le politiche economiche degli Stati membri (ex articolo 3, par. 1, lettera b), TFUE), unitamente alla netta scelta di campo espressa in favore di “un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza” (ex articolo 119 par. 1 e articolo 120 TFUE, in relazione all’articolo 3, par. 3, TUE), hanno sensibilmente inciso sulla portata del principio stabilito nell’articolo 41 Cost., comma 1, imprimendogli connotazioni in parte nuove, che il legislatore ordinario da tempo si e’ fatto carico di recepire e filtrare nell’ordinamento interno (sin dalla L. 10 ottobre 1990, n. 287, recante norme per la tutela della concorrenza e del mercato), in linea con l’affermazione Euro-unitaria della centralita’ della tutela della concorrenza nella prospettiva di “un’economia sociale di mercato fortemente competitiva” (articolo 3, par. 3, TUE).
A tal riguardo rilevano, in particolare: a) l’articolo 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea sul riconoscimento della liberta’ d’impresa; b) i su citati articolo 3, par. 3 e articolo 21, par. 2, lettera e), TUE; c) l’articolo 3, par. 1, lettera b), articolo 32, lettera c), articolo 34 ss., articoli 101-109, articolo 119, par. 1 e articolo 120 TFUE, che dettano le norme sostanziali in materia di tutela della concorrenza; d) il Protocollo n. 27 allegato ai Trattati, la’ dove si afferma che “il mercato interno ai sensi dell’articolo 3 del Trattato sull’Unione Europea comprende un sistema che assicura che la concorrenza non sia falsata”.
Nella liberta’ di concorrenza si e’ cosi’ progressivamente intravista una delle naturali espressioni della liberta’ di iniziativa economica privata, poi anche formalmente consacrata nella nuova disposizione di cui all’articolo 117 Cost., comma 2, lettera e), introdotta nell’ordinamento a seguito della modifica operata dall’articolo 3 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3.
In tal modo, la liberta’ di concorrenza si e’ imposta quale bene costituzionalmente rilevante, la cui tutela viene assegnata, nell’ambito della nuova ripartizione delle competenze fra i diversi livelli territoriali di governo, alla potesta’ legislativa esclusiva dello Stato, che deve esercitarla “nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.
Di tale nuova declinazione del rapporto fra la liberta’ dell’iniziativa economica privata e la tutela delle regole della concorrenza anche nella piu’ ampia dimensione del mercato comunitario si colgono chiaramente i segni nella evoluzione della giurisprudenza della Corte costituzionale, ormai costante nell’affermare che la nozione di “concorrenza”, di cui all’articolo 117 Cost., comma 2, lettera e), riflette quella operante in ambito comunitario (ex plurimis v. Corte Cost., sent. n. 97 del 16 aprile 2014 e n. 125 del 7 maggio 2014; Corte Cost., sent. n. 325 del 17 novembre 2010; Corte Cost., sent. n. 401 del 23 novembre 2007), sicche’ essa comprende sia le misure legislative di tutela in senso proprio, intese a contrastare gli atti e i comportamenti delle imprese che incidono negativamente sull’assetto concorrenziale dei mercati (con la disciplina delle relative modalita’ di controllo, eventualmente anche sul piano sanzionatorio), sia le misure legislative di promozione, volte ad eliminare limiti e vincoli alla libera esplicazione della capacita’ imprenditoriale e della competizione tra imprese (concorrenza “nel mercato”), ovvero a prefigurare procedure concorsuali di garanzia che assicurino la piu’ ampia apertura del mercato a tutti gli operatori economici (concorrenza “per il mercato”) (ex plurimis v. Corte Cost., sent. n. 291 del 19 dicembre 2012 e n. 200 del 17 luglio 2012; Corte Cost., sent. n. 45 del 12 febbraio 2010).
In questa seconda accezione, attraverso la “tutela della concorrenza” vengono altresi’ perseguite finalita’ di ampliamento dell’area di libera scelta dei cittadini e delle imprese, queste ultime anche quali fruitrici, a loro volta, di beni e di servizi (sent. n. 401 del 2007).
Pur nell’indubbia varieta’ di posizioni, la dottrina tende a ricostruire il portato del principio costituzionale riconoscendo che “la liberta’ di concorrenza e’ valore implicito nella liberta’ d’iniziativa in quanto liberta’ di tutti”.
La liberta’ d’iniziativa economica privata puo’ essere esercitata, dunque, erga omnes, come “eguale possibilita’” di tutti i privati “di attivarsi materialmente e giuridicamente nello stesso settore” e, quindi, “di confrontarsi vicendevolmente, sottoponendo al giudizio del mercato la valutazione, e il conseguente successo, delle reciproche iniziative, necessariamente sempre nuove e diverse, in una competizione senza fine”. La richiamata disposizione afferma il valore della liberta’ dell’iniziativa privata senza limitarne l’operativita’ ai rapporti fra Stato e imprenditore, essendo la copertura costituzionale estesa sino a ricomprendervi anche il quadro delle relazioni reciproche tra imprenditori ed i rapporti fra questi ed i consumatori.
Se dal riconoscimento della liberta’ d’iniziativa economica deriva, quale naturale corollario, quello del principio di eguaglianza nei rapporti economici, e’ evidente che la repressione delle forme di concorrenza sleale s’innesta proprio su quest’ultimo versante del precetto costituzionale, offrendo una specifica tutela nei confronti di comportamenti posti in essere dall’imprenditore allo scopo di assicurarsi indebite posizioni di vantaggio che non ledono tanto (o soltanto) l’economia nazionale astrattamente considerata, ma sono idonei a ledere anche, e soprattutto, l’esercizio dell’altrui liberta’ di iniziativa economica.
Il riferimento, obbligato anche ai sensi dell’articolo 11 Cost., al complesso delle disposizioni normative che fondano lo “statuto” Europeo della concorrenza consente altresi’ di valorizzare, all’interno del perimetro tracciato dalla norma-principio costituzionale scolpita nell’articolo 41 cit., una serie di interessi emergenti ed implicitamente rilevanti ovvero nuove ed ulteriori declinazioni degli stessi, riconoscendosi ormai che, attraverso tale procedimento ermeneutico, il “metodo competitivo” si eleva “a decisione di sistema” e “guadagna la funzione di principio generale dell’ordinamento”.
Si puo’, allora, concludere, come osservato dalla dottrina, che la leale concorrenza e’ un bene non solo “socialmente rilevante, suscettibile di assurgere ad oggetto di tutela penale”, ma anche dotato di “indiscutibile rilievo costituzionale”, in un’accezione sia di tipo estrinseco o negativo, sia, soprattutto, di tipo positivo, quale assenza di condizionamenti indebiti all’esercizio della relativa liberta’.
8. Volgendo ora lo sguardo all’ordinamento Europeo, e’ agevole rilevare come il favor per la tutela della liberta’ di concorrenza si manifesti, in particolare, nell’insieme di divieti posti dagli articoli 101 e 102 TFUE (e in precedenza stabiliti negli articoli 81 e 82 TCE).
L’articolo 101 TFUE afferma che sono incompatibili con il mercato interno e vietati tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese, e tutte le pratiche concorrenziali che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza nel mercato interno, elencando in un apposito catalogo una serie di specifici comportamenti (ad es., fissare direttamente o indirettamente i prezzi d’acquisto o di vendita, limitare o controllare la produzione, gli sbocchi, lo sviluppo tecnico o gli investimenti, ripartire i mercati o le fonti di approvvigionamento, applicare, nei rapporti commerciali con gli altri contraenti, condizioni dissimili per prestazioni equivalenti, cosi’ da determinare per questi ultimi uno svantaggio nella concorrenza, ecc.) ritenuti rilevanti al fine di incrementare il benessere dei consumatori e realizzare l’integrazione dei mercati nazionali tramite la creazione di un mercato unico.
L’articolo 102 TFUE vieta, a sua volta, l’abuso di posizione dominante da parte di una o piu’ imprese sul mercato interno o su una parte sostanziale di questo e ne sanziona, in particolare, lo sfruttamento abusivo, non essendo di per se’ incompatibile con il mercato la ricorrenza di una posizione dominante, ma l’uso scorretto che della stessa si faccia, per pregiudicare l’ordinario andamento del mercato.
La finalita’ di tale disposizione, pertanto, e’ quella di arginare ogni tipo di pratica abusiva (un cui ampio catalogo vi figura, a titolo esemplificativo, nel secondo paragrafo) che non solo provochi un danno al consumatore, ma pregiudichi anche la sussistenza di una concorrenza effettiva tra le imprese.
I comportamenti tipici che possono dar luogo ad un abuso di posizione dominante sono individuati in termini del tutto corrispondenti a quelli che possono formare oggetto delle intese vietate ai sensi dell’articolo 101 cit..
Le richiamate disposizioni del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea producono effetti diretti nei rapporti tra i singoli ed attribuiscono agli interessati diritti che possono essere direttamente invocati dinanzi ai giudici nazionali.
V’e’ inoltre da considerare che, nel proclamare in linea generale il principio della liberta’ d’impresa conformemente al diritto dell’Unione Europea e alle legislazioni e prassi nazionali, l’articolo 16 CDFUE contiene uno specifico criterio di coordinamento con l’intera normativa Euro-unitaria. La previsione di tale criterio non involge soltanto le naturali esigenze di raccordo con le condizioni ed i limiti previsti dalle norme contenute nei Trattati, poiche’ si afferma espressamente nella richiamata disposizione che la liberta’ d’impresa deve essere esercitata “conformemente al diritto dell’Unione”, cosi’ includendovi, dunque, le regole di diritto derivato che governano in maniera specifica e dettagliata i meccanismi di funzionamento della concorrenza (ad es., il Regolamento CE n. 1/2003 del 16 dicembre 2002 del Consiglio, concernente l’applicazione delle regole di concorrenza di cui agli articoli 81 e 82 del Trattato, e il Regolamento (CE) n. 139/2004 del Consiglio, del 20 gennaio 2004, relativo al controllo delle concentrazioni tra imprese).
9. Del tutto conformi alle regole stabilite dalla disciplina Europea della concorrenza risultano le disposizioni contenute nell’ordinamento interno, ed in particolare nella L. 12 ottobre 1990, n. 287, recante norme per la tutela della concorrenza e del mercato, i cui articoli 2 e 3 dettano analoghe previsioni in tema di intese restrittive della liberta’ di concorrenza, abuso di posizione dominante e concentrazioni fra imprese, volte a preservare il regime concorrenziale del mercato a livello nazionale ed a reprimere i comportamenti anticoncorrenziali che incidono esclusivamente sul mercato italiano.
Non solo le situazioni vietate sono individuate assumendo quale modello di riferimento il contenuto delle corrispondenti disposizioni dell’ordinamento Euro-unitario, ma nella richiamata legge di recepirnento (ex articolo 1, comma 4) figura espressamente enunciato il criterio secondo cui le regole interne vanno
interpretate “in base ai principi dell’ordinamento delle Comunita’ Europee in materia di disciplina della concorrenza”.
Identici, dunque, devono ritenersi i comportamenti pericolosi per la struttura concorrenziale del mercato posti sotto controllo dalla normativa Europea e da quella nazionale, con la relativa esigenza di una regola di riparto che il legislatore ha introdotto riconoscendo alla prima una posizione preminente e sovraordinata anche sotto il profilo della residualita’ della disciplina interna, in quanto applicabile alle pratiche anticoncorrenziali che abbiano un rilievo esclusivamente locale e non incidano sulla concorrenza nel mercato comunitario.
Nel sistema italiano, come in quello di altri Paesi, e’ altresi’ vietato l’abuso dello stato di dipendenza economica nel quale si trovi un’impresa, cliente o fornitrice, rispetto ad una o piu’ altre imprese anche in posizione non dominante sul mercato ex L. 18 giugno 1998, n. 192, articolo 9, comma 1, secondo cui “si considera dipendenza economica la situazione in cui una impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi. La dipendenza economica e’ valutata tenendo conto anche della reale possibilita’ per la parte che abbia subito l’abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti”.
Nella articolo 9, comma 2, Legge cit. si prevede che “l’abuso puo’ anche consistere nel rifiuto di vendere o nel rifiuto di comprare, nella imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie, nella interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto”, cosi’ individuando in forma esemplificativa una serie di comportamenti tipici dei rapporti verticali fra imprese, che in parte coincidono con quelli che danno vita alla fattispecie di abuso di posizione dominante.
In una piu’ ampia prospettiva di analisi, inoltre, si collocano le previsioni della L. 11 novembre 2011, n. 180, recante “Norme per la tutela della liberta’ d’impresa. Statuto delle imprese”, che ha inteso definire (articolo 1, comma 1) “lo statuto delle imprese e dell’imprenditore al fine di assicurare lo sviluppo della persona attraverso il valore del lavoro, sia esso svolto in forma autonoma che d’impresa, e di garantire la liberta’ di iniziativa economica privata in conformita’ agli articoli 35 e 41 Cost.”.
Lo statuto, in particolare, mira “a favorire la competitivita’ del sistema produttivo nazionale nel contesto Europeo e internazionale” (ex articolo 1, comma 5, lettera g), prevedendo, al fine di raggiungere tali obiettivi, l’adozione di iniziative (ad es. l’integrazione degli statuti delle associazioni di imprese con un codice etico) volte a favorire “il rifiuto di ogni rapporto con organizzazioni criminali o mafiose e con soggetti che fanno ricorso a comportamenti contrari alla legge, al fine di contrastare e ridurre le forme di controllo delle imprese e dei loro collaboratori che alterano di fatto la libera concorrenza” (articolo 3, comma 4).
10. Il principio cardine della legislazione Europea in tema di regole della concorrenza, pienamente recepito, come si e’ osservato, anche nell’ordinamento interno, e’ quello secondo cui la liberta’ di iniziativa economica e la competizione fra le imprese non possono tradursi in atti e comportamenti pregiudizievoli per la struttura concorrenziale del mercato.
Il fatto che il legislatore tuteli la liberta’ di concorrenza delle imprese non significa, pero’, che ne giustifichi qualsiasi arbitrio, poiche’ nel tentativo, legittimo, di allargare la propria quota di mercato esse potrebbero far ricorso a strumenti “sleali”, in contrasto con l’obbligo di comportarsi in conformita’ “ai principi della correttezza professionale” (articolo 2598 c.c., comma 3).
Il riconoscimento legislativo della liberta’ di iniziativa economica privata e della conseguente liberta’ di concorrenza costituisce un presupposto necessario, ma non sufficiente, per la instaurazione di un regime di mercato oggettivamente caratterizzato da un sufficiente grado di effettiva competizione concorrenziale: e’ dunque necessaria la previsione di modelli e tecniche di regolamentazione che impediscano sul piano giuridico, in relazione a diversi ed egualmente meritevoli profili di tutela, il determinarsi di situazioni di monopolio e quasi-monopolio, ovvero comportamenti illeciti che di fatto alterino o, addirittura, stravolgano il regolare funzionamento del mercato.
Nella ricerca di tale problematico punto di equilibrio il legislatore nazionale non solo consente limitazioni legali della concorrenza per fini di “utilita’ sociale” (articolo 41 Cost., comma 3), ovvero limitazioni di tipo negoziale subordinandone al contempo la validita’ al rispetto di ben determinate condizioni (articolo 2596 c.c.), ma mira, soprattutto, ad assicurarne l’ordinato e corretto svolgimento attraverso la repressione degli atti di concorrenza sleale (articoli 2598 e 2601 c.c.), cosi’ recependo nell’ordinamento interno la corrispondente normativa dettata dall’articolo 10-bis della Convenzione di Unione di Parigi per la protezione della liberta’ industriale del 1883, riveduta a L’Aja nel 1925, di cui al R.Decreto Legge 10 gennaio 1926, n. 169, convertito con modificazioni nella L. 29 dicembre 1927, n. 2701, che a sua volta fa riferimento agli “usi onesti in materia industriale e commerciale”.
Atti, questi, che, diversamente dalla disciplina generale dell’illecito civile, vengono repressi e sanzionati dall’ordinamento anche se compiuti senza dolo o colpa (articolo 2600 c.c., comma 1) ed anche se non hanno ancora arrecato un danno al concorrente, dovendosi ritenere sufficiente, perche’ scattino le specifiche sanzioni dell’inibitoria e della rimozione degli effetti prodotti (articolo 2599 c.c.), che “l’atto sia idoneo a danneggiare l’altrui azienda” (articolo 2598 c.c., comma 1, n. 3), fatto salvo il diritto al risarcimento dei danni in presenza dell’elemento psicologico (dolo o colpa) e di un danno patrimoniale attuale (articolo 2600 c.c.).
L’articolo 2598 cit., in particolare, classifica gli atti di concorrenza sleale individuando, in primo luogo, due vaste aree di fattispecie tipiche nel n. 1 (gli atti idonei a determinare confusione con i prodotti o con l’attivita’ di un concorrente) e nel n. 2 (gli atti di denigrazione, idonei a determinare il discredito sui prodotti o sull’attivita’ di un concorrente, e l’appropriazione di pregi dei prodotti o dell’impresa altrui), mentre nel successivo n. 3 enuncia una regola generale di chiusura secondo cui costituisce atto di concorrenza sleale il fatto di avvalersi, direttamente o indirettamente, di “ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda”.
Si tratta, nell’ultima delle ipotesi citate, di qualsiasi atto che risulti, da un lato, contrario ai canoni di etica professionale generalmente accettati e seguiti nel mondo degli affari ovvero nello specifico settore cui appartengono le attivita’ imprenditoriali in rapporto concorrenziale, dall’altro lato, idoneo a recare danno all’altrui azienda.
Il legislatore, dunque, impernia la valutazione sulla base di due criteri fondamentali di qualificazione (la contrarieta’ ai principii della correttezza professionale e l’idoneita’ a danneggiare l’altrui azienda) che se, per un verso, devono guidare il giudice nel delicato compito di adeguare l’apprezzamento del caso concreto alla coscienza sociale di un determinato momento storico (Sez. 1 civ., n. 752 del 17/04/1962, Rv. 251188), per altro verso tendono ad operare come paradigmi di riferimento sul piano ermeneutico non solo in relazione all’individuazione degli atti cd. non tipizzati (previsti nel n. 3), ma anche per la qualificazione degli atti di concorrenza sleale espressamente indicati nell’articolo 2598, n. 1 e n. 2.
Il giudizio sui canoni di correttezza professionale, in tal modo, non esaurisce l’intero arco dell’attivita’ di qualificazione dell’illecito concorrenziale, il cui retto svolgimento poggia altresi’ sul criterio, parimenti rilevante, della idoneita’ dell’atto a recare danno all’altrui attivita’ imprenditoriale: idoneita’ intesa dalla dottrina quale capacita’ offensiva “specifica”, e di regola piu’ intensa, rispetto a quella connaturata a “qualsiasi” atto di concorrenza, poiche’ finalizzata a sottrarre uno spazio di mercato occupato o gestito dall’impresa concorrente.
Al residuale modello di riferimento delineato dal cit. articolo 2598, n. 3 la dottrina e la giurisprudenza hanno ricondotto un’ampia varieta’ di comportamenti illeciti, come ad es. il boicottaggio economico, la sistematica vendita sotto costo dei propri prodotti (cd. dumping), lo storno dei dipendenti, la cd. concorrenza “parassitaria” (quando attuata con accorgimenti e forme tali da evitare la piena confondibilita’ delle attivita’, a sua volta riconducibile alla fattispecie tipica degli atti di confusione), la pubblicita’ menzognera (quando sia specificamente diretta a screditare i prodotti di un altro imprenditore e non inquadrabile nella fattispecie tipica dell’appropriazione di pregi), l’acquisizione o l’utilizzazione in forme scorrette di informazioni commerciali o industriali e la violazione di norme pubblicistiche – penali, fiscali, amministrative ed oggi, finanche, Euro-unitarie qualora il comportamento dia luogo ad una alterazione delle condizioni di concorrenza che incida sulle condizioni di mercato, risolvendosi in profitto dell’autore della violazione e in danno di uno o piu’ concorrenti (cfr. Sez. U civ., n. 582 del 23/02/1976, Rv. 379229).
Determinata, o comunque determinabile, deve pertanto ritenersi la categoria degli atti di concorrenza sleale, per la cui valutazione occorre tener conto “degli interessi collettivi concorrenti alla dinamica economica, in adesione ai principi ed ai limiti di cui all’articolo 41 Cost., finalizzati a garantire che il mercato conservi la qualita’ strutturale di luogo della liberta’ di iniziativa economica per tutti i suoi partecipi, ovvero per chiunque pretenda di esercitare tale iniziativa” (Sez. 1 civ., n. 10684 del 11/08/2000, Rv. 539494; Sez. 1 civ., n. 2634 del 16/04/1983, Rv. 427520; Sez. 1 civ., n. 11859 del 26/11/1997, Rv. 510405).
Entro tale prospettiva si e’ affermato, in particolare, che “l’aggancio ad un parametro snello adeguabile ai mutamenti del costume del mercato impone all’interprete di stabilire se un comportamento, ancorche’ non previsto dai nn. 1 e 2, e ferme restando le eccezioni delle privative, realizzi attualmente o potenzialmente la stessa dannosita’ anticoncorrenziale”. Ne discende, in definitiva, che la concorrenza libera viene lesa ogni qual volta l’equilibrio delle condizioni del mercato sia compromesso, laddove il carattere residuale della previsione contenuta nell’articolo 2598 c.c., n. 3 “consente di evitare che l’obiettivo anticoncorrenziale venga raggiunto con comportamenti che presentano lo stesso disvalore di quelli come tali considerati dal legislatore storico. Consegue la necessita’ di esaminare caso per caso se il comportamento allegato costituisce illecito, dia esso luogo, o meno, anche a violazione di norme pubblicistiche. Non rientrando siffatte ipotesi dentro una fattispecie astratta a se’ stante” (cfr. Sez. 1 civ., n. 10684 del 11/08/2000, cit.).
11. Sulla base delle considerazioni dianzi esposte e’ evidente che, in assenza di una definizione, anche penalistica, del concetto giuridico di “concorrenza”, l’interpretazione del sintagma “atti di concorrenza”, centrale nella struttura della fattispecie incriminatrice delineata dall’articolo 513-bis c.p., deve necessariamente procedere alla luce della pertinente normativa Euro-unitaria ed interna che disciplina i presupposti e le regole di funzionamento della liberta’ di concorrenza.
Seguendo tale impostazione ricostruttiva, la tipicita’ della fattispecie va inquadrata alla luce sia del superiore divieto di ordine costituzionale posto dall’articolo 41 Cost., comma 2, secondo cui qualsiasi forma di competizione concorrenziale riconducibile alla libera estrinsecazione dell’iniziativa economica privata non puo’ svolgersi “in modo da recare danno” ad una serie di situazioni giuridiche soggettive costituzionalmente tutelate (come i diritti di liberta’, sicurezza e dignita’ umana), sia dell’esigenza di rispetto dei limiti stabiliti dalla legge ordinaria (ex articolo 2595 c.c.) per lo svolgimento della libera concorrenza, che sono quelli specificamente risultanti, come si e’ visto, dal raccordo fra i diversi livelli della normativa Euro-unitaria e delle disposizioni contenute nel codice civile e nella successiva legislazione speciale (in primo luogo, nella L. n. 287 del 1990).
Nella medesima prospettiva indicata dalla Corte costituzionale nelle richiamate decisioni in ordine ai criteri di interpretazione della nozione di “concorrenza” di cui all’articolo 117 Cost., comma 2, si e’ mossa l’elaborazione giurisprudenziale della Corte di cassazione nel settore civile (Sez. 1 civ., n. 14394 del 10/08/2012, Rv. 624016), secondo cui, gia’ nel regime giuridico anteriore all’entrata in vigore del Regolamento comunitario n. 1 del 2003 – il quale, sostituendo il precedente Regolamento n. 4 del 1962, ha introdotto una maggiore integrazione tra gli ordinamenti nazionali in relazione alle azioni risarcitorie conseguenti a violazione della normativa “antitrust” – era consentito al giudice nazionale, alla luce degli articoli 85, 86, 89 e 90 del Trattato dell’Unione Europea e della L. 10 ottobre 1990, n. 287, interpretare ed applicare le norme sulla concorrenza sleale – in particolare l’articolo 2598 c.c. assumendo come valore di riferimento la tutela della concorrenza.
A fondamento di tale affermazione la Corte ha osservato che “la dimensione giuridica della concorrenza ha assunto nel nostro sistema la funzione di “valore di riferimento”, giacche’ gli articoli 85 ed 86 del Trattato hanno imposto limiti nuovi, mirati a proteggere la struttura concorrenziale del mercato anche indipendentemente dall’atteggiamento del soggetto leso. Da cio’ il rilievo giuridico qualitativo dei presupposti, apparentemente solo quantitativi, dell’applicazione di tale novita’ giuridica, quali il “mercato rilevante”, ed il “pregiudizio agli scambi dei Paesi aderenti al Trattato”.
Il mercato, prosegue la Corte nella richiamata decisione, si identifica, nella nozione introdotta dal Trattato Europeo, con quello concorrenziale, sicche’ il bene giuridico da tutelare e’ quello della competitivita’. Ne consegue che “…..gia’ prima del nuovo testo dell’articolo 117 Cost., e dunque nel vigore del Trattato e quindi ancora a seguito dell’entrata in vigore della L. n. 287 del 1990, si puo’ dire certa nel nostro sistema giurisprudenziale la necessita’ di leggere la disciplina del codice civile parallelamente a quella del Trattato, ovvero considerandone parte integrante la logica antitrust”.
Nella medesima direzione si muove l’impostazione ricostruttiva parallelamente delineata da questa Corte nell’individuazione degli elementi costitutivi della condotta delittuosa tipizzata nell’articolo 513-bis cit., la’ dove, nel sottolinearne la connotazione di norma non meramente sanzionatoria della disciplina civilistica, ha richiamato l’esigenza di fare riferimento sia alla normativa di matrice Euro-unitaria, sia alla legislazione interna che vi ha dato attuazione (in primo luogo con la menzionata L. n. 287 del 1990), accogliendo l’intero ambito applicativo delle disposizioni racchiuse nell’articolo 2598 c.c. (ivi compresa, pertanto, quella di cui al n. 3) non come un corpus estraneo e separato dalla suddetta normativa, ma con essa strettamente compenetrato e da interpretare, dunque, alla stregua dei principii da essa desumibili (Sez. 2, n. 15781 del 26/03/2015, Arrichiello, cit.; Sez. 3, n. 3868 del 10/12/2015, dep. 2016, Ingui’, cit.; Sez. 2, n. 30406 del 19/06/2018, Sergi, cit.; Sez. 6, n. 50084 del 12/07/2018, Terracciano, Rv. 274288; Sez. 6, n. 50094 del 12/07/2018, Alati, cit.).
Occorre esplorarne, dunque, la potenzialita’ delle correlative implicazioni esegetiche ai fini della precisa delimitazione del contenuto precettivo della fattispecie e della corretta soluzione del richiamato contrasto.
12. La condotta descritta dalla norma incriminatrice si inserisce all’interno di un’attivita’ imprenditoriale e poggia essenzialmente sulla qualita’ materiale degli atti che vi danno corpo, ossia sulla loro qualificazione in senso concorrenziale e non sulla loro direzione teleologica.
La scelta del legislatore penale di impiegare nella descrizione degli elementi tipici della condotta la locuzione “atti di concorrenza” al plurale, anziche’ al singolare, non deve ritenersi casuale, poiche’ se, di certo, deve ammettersi la possibilita’ di un atto di concorrenza isolato ed istantaneo (Sez. 3, n. 39784 del 16/05/2013, Trabujo, Rv. 257417), nella gran parte dei casi ricorre, normalmente, un’attivita’ continuata di concorrenza e “poiche’ nel giudizio di concorrenza sleale non va isolatamente preso ciascun atto, che puo’ anche essere lecito, ma va compiuto un apprezzamento complessivo dei fatti, ai fini della loro valutazione rispetto ai principi della correttezza professionale, la combinazione di essi puo’ essere rivelatrice della manovra ordinata ai danni del concorrente, in quanto quegli atti, nella loro coordinazione, mettano capo all’attuazione di un mezzo sleale” (Sez. 1 civ., n. 752 del 17/04/1962, cit.).
12.1. L’analisi della struttura della fattispecie di reato modellata dalla norma in esame ne suggerisce, in primo luogo, la riconduzione all’interno di una dialettica concorrenziale, postulando, attraverso il riferimento lessicale al compimento di atti di concorrenza “nell’esercizio di un’attivita’ commerciale, industriale o comunque produttiva”, sia la qualita’ di imprenditore in capo al soggetto che, direttamente o indirettamente, pone in essere la condotta, sia l’esistenza di un rapporto di competizione economica nei confronti del soggetto che ne subisce le conseguenze.
Il soggetto attivo e quello passivo del rapporto di concorrenza devono tendenzialmente offrire nello stesso ambito di mercato beni o servizi che siano destinati a soddisfare, anche in via succedanea, lo stesso bisogno dei consumatori o, comunque, bisogni complementari o affini, tenendo conto, pero’, del fatto che il rapporto di concorrenza si instaura anche fra operatori che agiscono a livelli economici diversi (ad es.: produttore-rivenditore o grossista-dettagliante), coinvolgendo “tutte le imprese i cui prodotti e servizi concernano la stessa categoria di consumatori e che operino quindi in una qualsiasi delle fasi della produzione o del commercio destinate a sfociare nella collocazione sul mercato di tali beni”.
Quale che sia, infatti,, l’anello della catena che porta il prodotto alla stessa categoria di consumatori in cui si collochi un imprenditore, questi viene a trovarsi in conflitto potenziale con gli imprenditori posti su anelli diversi, proprio perche’ e’ la clientela finale quella che determina il successo o meno della sua attivita’, per cui ognuno di essi e’ interessato a che gli altri rispettino le regole di cui all’articolo 2598 cit. (Sez. 1 civ., n. 4739 del 23/03/2012, Rv. 622174).
Se, dunque, e’ vero che l’operativita’ della norma descritta nell’articolo 513-bis si estende verso qualsiasi attivita’ economicamente orientata alla predisposizione ed offerta di prodotti o servizi su un certo mercato, e’ parimenti vero che la delimitazione dei soggetti attivi o passivi del reato non va intesa in senso meramente formale, in quanto non occorre la qualita’ di commerciante, industriale o produttore, ma semplicemente l’espletamento in concreto di attivita’ che si inseriscono nella dinamica commerciale, industriale o produttiva (Sez. 6, n. 6055 del 24/06/2014, dep. 2015, Amato, Rv. 263164; Sez. 2, n. 26918 del 16/05/2001, Monaco, Rv. 219804), a prescindere dai requisiti di professionalita’ ed organizzazione tipici della figura civilistica dell’imprenditore e fatte salve, in base ai principi generali in tema di concorso di persone nel reato, le ipotesi di compartecipazione criminosa nella realizzazione della condotta punibile, qualora vengano dimostrati la conoscenza da parte dell’extraneus della qualita’ di intraneus del soggetto agente ed il contributo del primo alla commissione del fatto (Sez. 6, n. 7627 del 31/01/1996, Alleruzzo, Rv. 206603).
Analogamente non si ritiene necessario, sotto altro ma connesso profilo, che gli atti di concorrenza illecita siano diretti nei confronti dell’imprenditore concorrente, non essendo tale caratteristica espressamente richiesta dalla norma a fronte di condotte che ben possono coinvolgere anche persone diverse da quello (Sez. 6, n. 37520 del 18/04/2019, Rocca, Rv. 276725).
Finanche in relazione alla disciplina civilistica della concorrenza sleale si ritiene, del resto, che l’imprenditore possa rispondere sia per gli atti da lui direttamente compiuti, sia per quelli posti in essere da altri soggetti (ausiliari autonomi e subordinati, concessionari, imprese controllate ecc.) nel suo interesse e dietro sua istigazione o specifico incarico, espressamente prevedendo la norma di cui all’articolo 2598, n. 3, cit. che l’atto di concorrenza sleale puo’ essere compiuto anche “indirettamente”.
12.2. Una specifica valenza selettiva ai fini della individuazione della condotta punibile deve assegnarsi, inoltre, ai contenuto e alle finalita’ del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice in esame, che ha introdotto nel codice penale un reato plurioffensivo orientato non solo verso la tutela di un piu’ ampio interesse al corretto funzionamento del sistema economico, inteso come bene finale, ma anche alla protezione di un diverso interesse, da intendersi quale bene strumentale, piu’ direttamente inerente ad una esigenza di garanzia della sfera soggettiva della liberta’ di ciascuno di autodeterminarsi nell’esercizio di un’attivita’ commerciale, industriale o comunque produttiva (v., in motivazione, Sez. 3, n. 44169 del 22/10/2008, Di Nuzzo, cit.; Sez. 3, n. 46756 del 03/11/2005, Mannone, cit.).
La volonta’ del soggetto passivo della condotta di illecita concorrenza con minaccia o violenza non opera infatti liberamente, in quanto viene condizionata, rispettivamente, dalla prospettazione di un male ingiusto ovvero dalla costrizione fisica a determinarsi nel senso impostogli dall’agente.
In materia di concorrenza, come dianzi osservato, il sistema e’ ispirato al concetto che la libera competizione nel campo industriale, commerciale e produttivo, purche’ esercitata con l’osservanza di determinate regole, e’, sotto vari aspetti, utile e vantaggiosa nell’interesse generale. L’articolo 2595 c.c., infatti, lungi dal vietare la concorrenza, dispone in linea generale che essa deve svolgersi “in modo da non ledere gli interessi dell’economia nazionale e nei limiti stabiliti dalla legge”.
Qual che ne sia la dimensione, dunque, lo svolgimento delle attivita’ descritte dalla norma incriminatrice deve rispettare ben precisi canoni di correttezza nell’ambito dei rapporti di coesistenza sul mercato fra imprenditori concorrenti: canoni il cui diverso grado di inosservanza e’ progressivamente sanzionato nell’ordinamento civile e in quello penale.
12.3. La dialettica del rapporto concorrenziale entro cui puo’ fisiologicamente dispiegarsi il libero esercizio dell’attivita’ d’impresa delinea, unitamente ai contenuti del bene protetto, il contesto giuridico entro cui si inserisce, e come tale va ricostruita, la tipicita’ di una condotta oggettivamente distorsiva degli ordinari meccanismi di competizione economica: condotta che, in quanto illecitamente connotata dal ricorso ai mezzi della violenza o della minaccia, assume rilievo penale integrando la fattispecie incriminatrice senza che si renda necessaria la reale intimidazione del soggetto passivo ovvero una effettiva alterazione degli equilibri di mercato.
Non dissimili appaiono le implicazioni di ordine generale sottese agli esiti della elaborazione giurisprudenziale che questa Corte (Sez. 1 civ., n. 2157 del 7 luglio 1959) ha da tempo sviluppato con riferimento alla individuazione dei tratti differenziali della concorrenza illecita, la’ dove affermato che “….tutti gli atti di concorrenza, siano essi leciti o illeciti, mirano in generale al medesimo scopo, che e’ quello di affermare sul mercato la propria azienda, o di incrementarla mediante l’acquisizione di nuovi clienti o di nuovi affari, a scapito e con pregiudizio, quanto meno potenziale, delle aziende concorrenti. La differenza tra concorrenza lecita e concorrenza sleale non e’ data, dunque, dallo scopo che l’una o l’altra perseguono, ma e’ determinata unicamente dalla natura dei mezzi adoperati, che sono i soli rilevanti ai fini della qualificazione di un atto come atto di concorrenza sleale, ai sensi dell’articolo 2598 c.c.”.
La disciplina della concorrenza sleale, ha affermato la Corte nella richiamata decisione, “….concerne appunto le modalita’ della concorrenza, la cui illiceita’ e’ caratterizzata dalla natura dei mezzi usati, in quanto contrari ai principi della correttezza professionale ed idonei a danneggiare le altrui aziende, non gia’ dalla intrinseca natura degli atti di concorrenza, o dlalla concreta entita’ degli stessi, o dall’intenzione dell’imprenditore di pregiudicare i concorrenti mediante un’attivita’ consentita dall’ordinamento giuridico”.
La medesima disciplina, inoltre, puo’ operare a diversi livelli del mercato ed investire, come dianzi osservato (v. Sez. 1 civ., n. 4739 del 23/03/2012, cit.) e sottolineato anche dalla dottrina, quei rapporti concorrenziali che sono tali solo potenzialmente, sotto i distinti profili: a) territoriale (avendo riguardo non solo al luogo di produzione o di commercio, ma anche al cd. “mercato di sbocco”); b) merceologico (in ragione della accentuata tendenza delle imprese ad allargare la gamma delle produzioni per ricomprendervi prodotti succedanei o analoghi); c) temporale (potendo riguardare una competizione fra soggetti che debbano ancora iniziare la propria attivita’ d’impresa – per avere gia’ provveduto alla organizzazione di tutti i fattori produttivi univocamente orientandoli alla realizzazione di un commercio concorrente – ovvero stiano per esaurire quell’attivita’).
Entro tale impostazione ricostruttiva, pertanto, deve inquadrarsi la scelta dal legislatore operata nel disegnare gli elementi di tipicita’ della condotta punibile, attribuendo alla duplicita’ dei mezzi alternativamente impiegabili nell’esercizio delle attivita’ economiche ivi descritte (quelli, cioe’, della violenza o della minaccia) il vero tratto di disvalore penale di una condotta in se’ altrimenti legittima, come l’atto posto in essere nell’esercizio di una liberta’ riconosciuta e tutelata dall’ordinamento.
L’intima connessione che la norma incriminatrice richiede fra gli atti di esercizio della liberta’ di concorrenza all’interno di un rapporto di competizione economica – anche solo potenziale, come si e’ visto – e le specifiche note modali rappresentate dall’utilizzo della violenza o della minaccia costituisce un fattore distorsivo delle regole di svolgimento di quella che dovrebbe essere, di contro, una paritaria contesa commerciale, sino a varcare il limite dell’atto di concorrenza anche nel suo stigma di “slealta’”, innestando sull’atto di esercizio di una liberta’ – e con un grado d’intensita’ variabile a seconda dei casi – l’illecita componente oggettiva della contestuale compressione, quando non addirittura della negazione, della corrispondente, e parimenti tutelata, possibilita’ di autodeterminazione del concorrente nello svolgimento delle diverse attivita’ produttive richiamate nella predetta disposizione.
Attorno alle componenti oggettive della violenza e della minaccia, che non vi figurano come elementi finalisticamente orientati, bensi’ come elementi costitutivi della condotta, concorrendo a delinearne la tipicita’ attraverso una previsione in forma alternativa del suo aspetto modale, ruota dunque la sfera di offensivita’ dell’intera fattispecie.
Per tale ragione il legislatore fa riferimento, anche nella rubrica della norma in esame, ad una condotta di illecita concorrenza, ossia ad un atto di concorrenza non semplicemente sleale, ma necessariamente caratterizzato dalla peculiare natura dei mezzi adoperati, che a loro volta ne accompagnano la realizzazione e ne giustificano, al contempo, il giudizio di meritevolezza della tutela penale: la violenza o la minaccia, all’interno di un rapporto di concorrenzialita’ legato allo svolgimento di un’attivita’ d’impresa in competizione, anche solo potenziale, con l’omologa attivita’ di uno o piu’ soggetti egualmente interessati ad esercitarla in uno spazio di mercato dove le condizioni della liberta’ di concorrenza siano rispettate e ne garantiscano la possibilita’ di una lecita attuazione.
La liberta’ di concorrenza, infatti, non si traduce solo nella liberta’ di svolgere la propria attivita’ d’impresa in competizione con una pluralita’ di soggetti operanti sul mercato, ma anche nella liberta’ da illecite interferenze e condizionamenti che ne contrastino od ostacolino l’esercizio, alterando la dimensione concorrenziale di uno spazio produttivo che i protagonisti âEuroËœutilizzano anche in favore della collettivita’, e dove quella liberta’ non solo viene generalmente regolata e promossa, ma deve anche lecitamente attuarsi.
Entro tale prospettiva, dunque, assumono rilievo penale, alla luce della richiamata normativa interna ed Euro-unitaria, quei comportamenti competitivi, posti in essere sia in forma attiva che impeditiva dell’esercizio dell’altrui liberta’ di concorrenza, che si prestino ad essere realizzati in forme violente o minatorie, si’ da favorire o consentire l’illecita acquisizione, in pregiudizio del concorrente minacciato o coartato, di posizioni di vantaggio ovvero di predominio sul libero mercato, senza alcun merito derivante dalle capacita’ effettivamente mostrate nell’organizzazione e nello svolgimento della propria attivita’ produttiva.
12.4. Le illecite forme di esercizio della concorrenza incriminate dalla richiamata disposizione minacciano di rimuovere le precondizioni necessarie all’esplicarsi della stessa liberta’ di funzionamento del mercato, incidendo al contempo sulla liberta’ delle persone di autodeterminarsi nello svolgimento delle attivita’ produttive.
E’ dunque il libero svolgimento delle iniziative economiche ad essere tutelato, attraverso la sanzione di comportamenti costrittivi o induttivi che possono orientarsi anche sulla liberta’ di iniziativa delle persone, non piu’ solo sulle cose, come nella condotta contemplata dalla contigua previsione dell’articolo 513 c.p., che di contro richiede, in alternativa all’uso della violenza, il ricorso a mezzi fraudolenti con il fine di cagionare, in entrambi i casi, l’impedimento o il turbamento dell’esercizio di un’attivita’ industriale o commerciale.
L’idoneita’ a recare un pregiudizio all’impresa concorrente, contrastandone od ostacolandone la liberta’ di autodeterminazione, connota la fattispecie dell’articolo 513-bis nella sua materialita’, poiche’ costituisce un elemento oggettivo della condotta, a sua volta accompagnata dalla coscienza e volonta’ di compiere un atto di concorrenza inficiato dal ricorso ai mezzi della violenza o della minaccia, ossia di determinare una situazione di concorrenzialita’ illecita che rischia obiettivamente di alterare o compromettere l’ordine giuridico del mercato.
Sotto altro profilo, infine, gli elementi che concorrono a descrivere la tipicita’ del reato di illecita concorrenza impediscono di ritenerne assorbita la condotta nella piu’ grave fattispecie della estorsione (consumata o tentata) in base al criterio di specialita’. I due reati, rientranti in una diversa collocazione sistematica, offendono beni giuridici diversi,, incidendo nel secondo caso sul patrimonio del soggetto passivo (Sez. 6, n. 6055 del 24/06/2014, dep. 2015, Amato, cit.), con la previsione dell’elemento di fattispecie relativo all’ottenimento di un ingiusto profitto con altrui danno, senza tradursi in una violenta manipolazione dei meccanismi di funzionamento dell’attivita’ economica concorrente (Sez. 2, n. 53139 del 08/11/2016, Cotardo, Rv. 268640).
Ne discende, altresi’, che il delitto di illecita concorrenza con violenza o minaccia non puo’ essere assorbito nel delitto di estorsione, trattandosi di norme con diversa collocazione sistematica e preordinate alla tutela di beni giuridici diversi, sicche’, ove ricorrano gli elementi costitutivi di entrambi i delitti, si ha il concorso formale degli stessi (Sez. 2, n. 5793 del 24/10/2013, dep. 2014, Campolo, Rv. 258200; Sez. 1, n. 24172 del 31/03/2010, Viscolo, Rv. 247946).
13. In conclusione, la questione posta dall’ordinanza di rimessione va risolta enunciando il seguente principio di diritto: “ai fini della configurabilita’ del reato di cui all’articolo 513-bis c.p. e’ necessario il compimento di atti di concorrenza che, posti in essere nell’esercizio di un’attivita’ commerciale, industriale o comunque produttiva, siano connotati da violenza o minaccia e idonei a contrastare od ostacolare la liberta’ di autodeterminazione dell’impresa concorrente”.
14. Alla stregua del principio di diritto sopra enunciato puo’ ora procedersi all’esame dei motivi dedotti a sostegno dei ricorsi.
14.1. Le doglianze racchiuse nel primo motivo sono inammissibili, in quanto reiterative di obiezioni gia’ affrontate ed esaustivamente disattese nelle conformi decisioni di merito, limitandosi a contestare le valutazioni ivi espresse in ordine alle risultanze offerte dal materiale probatorio sulla base di una diversa ed alternativa lettura che in questa Sede, come e’ noto, non e’ consentita, esulando dai poteri della Corte di cassazione quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, il cui apprezzamento e’, in via esclusiva, riservato al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimita’ la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente piu’ adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944; Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv. 226074).
Dalla motivazione della decisione impugnata, infatti, emerge con chiarezza come la Corte territoriale abbia offerto, sulla base di una coerente esposizione logico-argomentativa, piena giustificazione dell’attendibilita’, intrinseca ed estrinseca, delle dichiarazioni accusatorie provenienti dalla persona offesa (OMISSIS), il cui contenuto e’ stato confermato non solo dalla documentazione sanitaria in atti acquisita e dalle dichiarazioni del teste (OMISSIS) – genero del (OMISSIS), che era presente in loco per svolgere la sua attivita’ lavorativa di piastrellista ed era riuscito in quel frangente a soccorrerlo, dichiarando di aver osservato da lontano l’aggressione da lui ripetutamente subita – ma anche dagli agenti della Polizia di Stato nell’occasione intervenuti, che hanno avuto modo di riscontrare direttamente, e nell’immediatezza del fatto, sia le tracce delle lesioni cagionategli sul volto dai (OMISSIS), sia la presenza in zona di costoro, inseguiti e fermati a breve distanza a bordo di un autocarro ove si trovavano assieme all’altro teste (OMISSIS).
Congruamente motivato deve parimenti ritenersi il vaglio di attendibilita’ delle dichiarazioni rese dal teste (OMISSIS), avendo la sentenza impugnata spiegato, con argomenti immuni da vizi in questa Sede rilevabili, le ragioni per le quali era del tutto irrilevante la verifica della sua posizione all’atto dell’aggressione patita dal suocero, atteso il pacifico riscontro della sua presenza sul luogo del fatto da parte degli organi investigativi in quel momento intervenuti.
Ulteriori elementi di riscontro a sostegno della ricostruzione dei fatti fornita dalla persona offesa sono stati desunti dalle dichiarazioni di (OMISSIS), titolare della ditta per conto della quale il (OMISSIS) prestava la sua attivita’ di lavoro, e da quelle di (OMISSIS), dipendente della clinica “(OMISSIS)” ove il personale della ditta (OMISSIS) avrebbe dovuto procedere ad uno dei previsti interventi annuali di spurgo.
La difforme ricostruzione della vicenda proposta dagli imputati con il conforto delle dichiarazioni del teste (OMISSIS) – secondo i quali era stato il (OMISSIS), a seguito di un battibecco scaturito fra le parti per le difficolta’ di circolazione determinate dal transito in sosta del suo autocarro, ad aprire lo sportello del proprio veicolo per colpire (OMISSIS) al volto, cosi’ rompendo i suoi occhiali da vista – e’ stata motivatamente ritenuta inattendibile perche’ priva di qualsiasi elemento di riscontro, smentita dal complesso delle univoche emergenze probatorie in atti acquisite e finanche tardivamente prospettata, nonostante il pronto intervento del personale di Polizia, dopo undici giorni dal fatto e solo dopo aver appreso della denunzia nei loro confronti presentata dal (OMISSIS).
Ne’ alcun cenno alla presunta aggressione che nei loro confronti sarebbe stata portata poco prima dal (OMISSIS) essi fecero agli agenti di Polizia giunti sul posto al momento del fatto.
14.2. Infondate, inoltre, devono ritenersi le ragioni di doglianza prospettate nel secondo motivo di ricorso.
Al riguardo, invero, la decisione impugnata ha illustrato le ragioni per cui la condotta posta in essere dagli imputati, attraverso la violenta aggressione e le frasi minacciose rivolte all’indirizzo del dipendente di una ditta concorrente nel medesimo settore d’interesse economico, doveva ritenersi indirizzata non solo ad impedirne l’attivita’, tanto che la persona offesa non riusci’ a completare l’operazione di spurgo e sversamento dei rifiuti prodotti dalla clinica che da tempo aveva commissionato la relativa attivita’ alla ditta (OMISSIS), ma anche a comprometterne l’immagine commerciale, rivendicando al contempo una sorta di competenza esclusiva nella zona di (OMISSIS) per preservare la platea dei propri clienti ed assicurarsi il monopolio del settore.
Apprezzamenti di fatto, questi, le cui ragioni giustificative riposano su una disamina delle circostanze concrete compiutamente rappresentata nella decisione impugnata e, sulla base delle dianzi esposte considerazioni in diritto, da ritenere del tutto immune da vizi logico-giuridici rilevanti in sede di legittimita’, la’ dove e’ stata posta in risalto la valenza oggettivamente impeditiva dell’esercizio di un’attivita’ imprenditoriale all’interno di uno spazio concorrenziale le cui regole di corretta competizione non potevano essere alterate sino a pregiudicare, con le su indicate forme illecite di realizzazione della condotta, la liberta’ stessa di autodeterminazione di un’impresa parimenti operante nella medesima realta’ territoriale.
15. Al rigetto dei ricorsi consegue, ex articolo 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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