Acquisizione di dati contenuti in tabulati telefonici

Corte di Cassazione, sezione terza penale, Sentenza 2 dicembre 2019, n. 48737

Massima estrapolata:

In tema di acquisizione di dati contenuti in tabulati telefonici, la disciplina prevista dall’art. 132 d.lgs. n. 196 del 2003, sebbene non limiti l’attività alle indagini relative a reati particolarmente gravi, predeterminati dalla legge, è compatibile con il diritto sovranazionale in tema di tutela della privacy (direttive 2002/58/CE e 2006/24/CE), come interpretato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE 8 aprile 2014, Digital Rights, C-293/12 e C-594/12; CGUE 21 dicembre 2016, Tele 2, C-203/15 e C-698/15), da cui si ricava solo la necessità della proporzione tra la gravità dell’ingerenza nel diritto fondamentale alla vita privata, che l’accesso ai dati comporta, e quella del reato oggetto di investigazione, in base ad una verifica che il giudice di merito deve compiere in concreto. (In motivazione, la Corte ha precisato che la valutazione suddetta non si presta ad una rigida codificazione e non può che essere rimessa al prudente apprezzamento dell’autorità giudiziaria).

Sentenza 2 dicembre 2019, n. 48737

Data udienza 25 settembre 2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAPALORCIA Grazia – Presidente

Dott. GALTERIO Donatella – Consigliere

Dott. DI STASI Antonella – Consigliere

Dott. REYNAUD Gianni F – rel. Consigliere

Dott. NOVIELLO Giuseppe – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 10/09/2018 della Corte di appello di Venezia;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. Gianni Filippo Reynaud;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dr. Barberini Roberta Maria, che ha concluso chiedendo l’annullamento senza rinvio con riguardo al reato di cui all’articolo 635 c.p. ed il rigetto del ricorso nel resto;
udita per le parti civili l’avv. (OMISSIS), che si e’ associata alle conclusioni del procuratore generale depositando conclusioni scritte e nota spese;
udito il difensore del ricorrente, avv. (OMISSIS), il quale ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 10 settembre 2018, la Corte d’appello di Venezia, accogliendo parzialmente il gravame proposto dall’imputato, ha confermato la pronuncia con cui il medesimo era stato ritenuto responsabile dei reati di maltrattamenti in famiglia e violenza sessuale commessi in danno della convivente more uxorio, nonche’ dei reati di cui agli articoli 424 e 635 c.p. per aver dato fuoco all’autovettura in uso alla madre di quest’ultima, forandone altresi’ gli pneumatici, e del delitto di tentato incendio dell’abitazione della stessa, commesso in concorso con altra persona separatamente giudicata. La sentenza di primo grado e’ stata invece riformata quanto al trattamento sanzionatorio, con riduzione dell’aumento di pena inflitto a titolo di continuazione per il reato di maltrattamenti in famiglia, e conseguente riduzione del risarcimento del danno riconosciuto alle parti civili costituite per il medesimo delitto e per la violenza sessuale.
2. Avverso la sentenza di appello, ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputato, lamentando, con il primo motivo, con riguardo al reato di violenza sessuale:
2.1. ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera d), la mancata assunzione della testimonianza di (OMISSIS), prova ammessa su richiesta della parte civile in primo grado, poi illegittimamente revocata nonostante l’opposizione della difesa, e decisiva perche’ avrebbe potuto dimostrare la non credibilita’ della persona offesa allorquando ha dichiarato di non aver mai avuto con il medesimo una relazione sentimentale;
2.2. la violazione della legge processuale ed il vizio di motivazione per la mancata valutazione di prove a discarico: in primo luogo con riguardo ad un messaggio Whatsapp inviato dalla persona offesa al medesimo (OMISSIS) la sera del (OMISSIS) (vale a dire due giorni dopo la presunta violenza sessuale) e dal quale emerge che tra i due vi era stata una relazione; in secondo luogo il messaggio quella stessa sera inviato all’imputato il cui tenore sarebbe incompatibile con una brutale violenza avvenuta soltanto due giorni prima;
2.3. l’aver conseguentemente omesso di compiere quel rigoroso vaglio di credibilita’ che s’impone con riguardo alle dichiarazioni della persona offesa, le uniche sulle quali si fonda l’affermazione della penale responsabilita’ per il grave reato sessuale, non essendo peraltro logica l’inferenza utilizzata dalla sentenza impugnata circa la possibilita’ di ricavarne la positiva valutazione dalla ritenuta credibilita’ della donna con riguardo ai fatti integrativi del diverso reato di maltrattamenti in famiglia;
2.4. la manifesta illogicita’ della motivazione, addirittura mancante, sul rigetto della richiesta rinnovazione dibattimentale.
3. Con il secondo motivo, in relazione al reato di maltrattamenti in famiglia, si lamenta il vizio di motivazione, in primo luogo per essere stata ritenuta la credibilita’ della persona offesa (rivelatasi non credibile con riguardo agli aspetti piu’ sopra posti in evidenza analizzando il reato di violenza sessuale e le cui dichiarazioni non potevano ritenersi oggettivamente confortate da quelle, soltanto indirette, della madre e della nonna) e per essere state illogicamente sottovalutate le prove testimoniali a discarico addotte dalla difesa (vicini di casa e parenti dell’imputato). In secondo luogo si lamenta anche per tale reato l’illogicita’ della motivazione nella parte in cui respinge la richiesta di rinnovazione dibattimentale.
4. Con il terzo motivo di ricorso, in relazione al reato di tentato incendio della casa di abitazione, si deducono le seguenti doglianze.
4.1. In primo luogo si lamenta la violazione della legge processuale per essere stati ritenuti utilizzabili i dati di traffico telefonico acquisiti presso il gestore ai sensi del Decreto Legislativo n. 196 del 2003, articolo 132 (c.d. codice della privacy, di seguito cod. pr.). Premesso che la protezione dei dati personali rientra nelle materie di diritto Eurounitario in quanto strumentale a garantire il buon funzionamento del mercato interno, si richiamano in ricorso le pronunce con cui la Corte di giustizia U.E. ha, per un verso, dichiarato l’invalidita’ della Direttiva 2006/24/CE riguardante la conservazione dei dati trattati nell’ambito della fornitura di servizi di comunicazione elettronica per contrarieta’ con il principio di proporzionalita’ ricavabile dalla c.d. Carta di Nizza per non essere indicati i reati ritenuti sufficientemente gravi da giustificare una siffatta ingerenza nel fondamentale diritto alla riservatezza dei consociati; per altro verso, ritenuto che la Direttiva 2002/58/CE (l’unica applicabile in materia di data retention a seguito della ritenuta invalidita’ della successiva direttiva) osti a discipline nazionali che, sia pure per legittime finalita’ di contrasto alla criminalita’, consentano la conservazione generalizzata ed indifferenziata, tra l’altro, dei dati relativi al traffico di tutti i mezzi di comunicazione elettronica. Da tali pronunce argomenta il ricorrente – dovrebbe discendere la disapplicazione, per contrasto con il diritto Eurounitario, dell’articolo 132 c. pr., per l’assorbente ragione che il medesimo non contiene uno specifico elenco dei reati ritenuti sufficientemente gravi da giustificare la data retention ivi stabilita, con conseguente inutilizzabilita’ processuale dei dati di traffico telefonico nel caso di specie acquisiti ai sensi di tale norma, richiedendo il ricorrente che, laddove residuino sul punto incertezze sulla portata del diritto dell’Unione Europea applicabile, sia disposto rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia ai sensi dell’articolo 267 TFUE. Si criticano, inoltre, le argomentazioni spese dai giudici di merito per respingere l’eccezione di inutilizzabilita’ gia’ in precedenza sollevata, rilevandosi come non sia consentito al giudice sostituirsi al legislatore nell’individuare i reati che giustificano la richiamata ingerenza nel diritto alla riservatezza, cio’ che pure si ricava dalla specifica previsione contenuta nella L. n. 167 del 2017, articolo 24, che fissando in 72 mesi il periodo di data retention previsto dall’articolo 132 c.pr. per alcuni reati particolarmente gravi, non vi include anche il delitto di tentato incendio.
4.2. In secondo luogo si osserva che, affermata l’inutilizzabilita’ di quei dati, anche a non voler accedere alla pur corretta conclusione che se ne dovrebbe ricavare l’inutilizzabilita’ derivata degli altri elementi di prova che sulla base degli stessi sono stati conseguentemente acquisiti, questi ulteriori elementi sarebbero del tutto insufficienti a provare logicamente la responsabilita’ dell’imputato, trattandosi, per un verso, di inaffidabili riconoscimenti effettuati dalla persona offesa e da un ufficiale di polizia sulla base delle movenze del soggetto ritenuto autore del reato (non riconoscibile in volto) immortalato in filmati e fotogrammi ripresi da telecamere di sicurezza; per altro verso, di elementi di prova neutri, anche frutto di travisamento della prova) come avvenuto con riguardo al significato attribuito alla telefonata fatta dall’imputato alla persona offesa del tentato incendio la notte del fatto.
4.3. In via subordinata, si lamenta l’omessa decisione della Corte d’appello sul motivo di gravame con cui si richiedeva di disporre perizia sul materiale video per stabilire se fosse possibile giungere all’identificazione del soggetto ritratto.
5. Con il quarto motivo si lamenta innanzitutto, in relazione al reato di danneggiamento con incendio dell’autovettura, la contraddittorieta’ ed insufficienza della motivazione, che ha affermato la responsabilita’ soltanto in relazione ad alcuni messaggi “allusivi” che l’imputato avrebbe scritto sul profilo Facebook che gestiva in comune con la convivente. Proprio in relazione all’utilizzo promiscuo del profilo, si contesta, inoltre, l’attribuibilita’ al medesimo dei messaggi e, in ogni caso, la provenienza degli stessi – quali riprodotti su semplici fogli esibiti alla teste persona offesa ed alla di lei madre – dall’account in questione e la loro genuinita’ tecnica, insistendosi per la necessita’ della rinnovazione istruttoria per un accertamento peritale, richiesta al giudice d’appello e dal medesimo ignorata.
6. Con il quinto motivo si lamenta la violazione dell’articolo 62 bis c.p., comma 3 e articolo 133 c.p. con riguardo alla determinazione della pena e, in particolare, al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche valorizzandosi esclusivamente un precedente, per una contravvenzione di modesta gravita’, senza considerare gli indici favorevoli indicati nel gravame.
7. Con l’ultimo motivo di ricorso si deduce la violazione degli articoli 76, 100 e 122 c.p.p. per non essere stata accolta la richiesta – avanzata in primo grado e reiterata con il gravame, senza ottenere risposta – di esclusione delle parti civili in quanto la costituzione era avvenuta in persona dei rispettivi difensori senza che agli stessi fosse tuttavia stata conferita apposita procura speciale sostanziale, ma la sola, insufficiente, procura processuale di cui all’articolo 100 c.p.p..
In subordine, si lamenta il vizio motivazionale derivante dalla mancata esplicitazione dei criteri seguiti per la determinazione del danno liquidato alle parti civili.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il primo motivo di ricorso e’ infondato in relazione a tutti i profili dedotti.
1.1. Con riguardo alla mancata rinnovazione istruttoria per l’assunzione della testimonianza di (OMISSIS) – il cui verbale di s.i.t., sull’accordo delle parti, e’ stato acquisito al fascicolo del dibattimento – osserva innanzitutto il Collegio come, secondo l’orientamento di questa Corte da tempo consolidato, quando una parte rinuncia all’esame di un proprio testimone, le altre hanno diritto a procedervi solo se questo era inserito nella loro lista testimoniale, valendo altrimenti la loro richiesta come mera sollecitazione all’esercizio dei poteri officiosi del giudice ex articolo 507 c.p.p. (Sez. 5, n. 39764 del 29/05/2017, Rhafor, Rv. 271848; Sez. 1, n. 13338 del 04/03/2015, Zappone, Rv. 263095; Sez. 3, n. 35372 del 23/05/2007, Rv. 237411; Sez. 6, n. 23025 del 09/02/2004, Russo, Rv. 229915). Nel caso di specie il teste (OMISSIS) non era stato indicato dalla difesa dell’imputato e le circostanze sulle quali l’esame – e, conseguentemente, il controesame – avrebbe dovuto vertere concernevano fatti completamenti diversi da quelli su cui si vorrebbe ora sentire il teste. Non puo’ dirsi, pertanto, che sia soddisfatto il requisito, richiesto dall’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera d, per poter far valere in sede di legittimita’ la mancata assunzione della prova in esame, non essendo questa stata richiesta ai sensi dell’articolo 495, comma 2, c.p.p. (cfr. Sez. 2, n. 841 del 18/12/2012, dep. 2013, Barbero, Rv. 254052; Sez. 2, n. 41744 del 06/10/2015, D’Attilo, Rv. 264659; Sez. 6, n. 33105 del 08/07/2003, Pacor, Rv. 226534).
Trattandosi, in ogni caso, di doglianza afferente alla mancata assunzione di una prova decisiva, va ribadito come sia tale quella che, confrontata con le argomentazioni contenute nella motivazione, ove esperita, avrebbe sicuramente determinato una diversa pronuncia; ovvero quella che, non assunta o non valutata, vizia la sentenza intaccandone la struttura portante (Sez. 4, n. 6783 del 23/01/2014, Di Meglio, Rv. 259323; Sez. 2, n. 21884 del 20/03/2013, Cabras, Rv. 255817).
La sentenza impugnata non illogicamente esclude la decisivita’ della prova testimoniale in questione con riguardo alla finalita’ dichiarata dalla difesa, osservando come – quand’anche il (OMISSIS) e la persona offesa avessero avuto una qualche relazione sentimentale – non ne sarebbe derivata “come invece vorrebbe l’appellante – l’impossibilita’ logica dell’accadimento di violenza, ma al piu’…renderebbe spiegazione del fatto che “per dispetto” (e o per “riaffermazione del possesso”), egli le fosse “venuto dentro”.
1.2. Con riferimento alla mancata valutazione dei messaggi inviati la sera del (OMISSIS) dalla persona offesa al (OMISSIS) ed all’imputato, reputa il Collegio che, anche qui, difetti la loro decisivita’, poiche’: quanto al primo, vi si da’ atto del fatto che i due si fossero baciati e che c’era effettivamente stata tra loro una, sia pur breve, relazione sentimentale, senza tuttavia poter desumere che vi fossero stati rapporti sessuali; quanto al secondo, il suo contenuto non esclude il fatto di violenza, emergendo invece dallo stesso come la donna non volesse aver piu’ rapporti sessuali con il compagno, limitandosi a chiedere, in casa, “rispetto” per poter crescere la figlia.
Pur essendo mancata, dunque, un’esplicita risposta alle doglianze al proposito contenute nell’atto di appello, vale il principio secondo cui, in tema di ricorso per cassazione, l’emersione di una criticita’ su una delle molteplici valutazioni contenute nella sentenza impugnata, laddove le restanti offrano ampia rassicurazione sulla tenuta del ragionamento ricostruttivo, non puo’ comportare l’annullamento della decisione per vizio di motivazione, potendo lo stesso essere rilevante solo quando, per effetto di tale critica, all’esito di una verifica sulla completezza e sulla globalita’ del giudizio operato in sede di merito, risulti disarticolato uno degli essenziali nuclei di fatto che sorreggono l’impianto della decisione (Sez. 1, n. 46566 del 21/02/2017, M. e aa., Rv. 271227). Ed invero, il vizio di motivazione che denunci la carenza argomentativa della sentenza rispetto ad un tema contenuto nell’atto di impugnazione puo’ essere utilmente dedotto in Cassazione soltanto quando gli elementi trascurati o disattesi abbiano carattere di decisivita’ (Sez. 6, n. 3724 del 25/11/2015, dep. 2016, Perna e aa., Rv. 267723), nel senso che una loro adeguata valutazione avrebbe dovuto necessariamente portare, salvo intervento di ulteriori e diversi elementi di giudizio, ad una decisione piu’ favorevole di quella adottata (Sez. 2, n. 37709 del 26/09/2012, Giarri, Rv. 253445).
Per altro verso, va ribadito che l’obbligo di motivazione del giudice dell’impugnazione non richiede necessariamente che egli fornisca specifica ed espressa risposta a ciascuna delle singole argomentazioni, osservazioni o rilievi contenuti nell’atto d’impugnazione, se il suo discorso giustificativo indica le ragioni poste a fondamento della decisione e dimostra di aver tenuto presenti i fatti decisivi ai fini del giudizio, sicche’, quando ricorre tale condizione, le argomentazioni addotte a sostegno dell’appello, ed incompatibili con le motivazioni contenute nella sentenza, devono ritenersi, anche implicitamente, esaminate e disattese dal giudice, con conseguente esclusione della configurabilita’ del vizio di mancanza di motivazione di cui all’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), (Sez. 1, n. 37588 del 18/06/2014, Amaniera e aa., Rv. 260841).
1.3. Alla luce di tali premesse in diritto, osserva il Collegio come la circostanza che la persona offesa (nell’esame dibattimentale) e il (OMISSIS) (nel verbale di s.i.t.) abbiano negato di aver avuto una relazione intima, quand’anche incrinata dal tenore del messaggio di cui si appena detto (che, circa la natura piu’ o meno intima di quella relazione, e’ comunque generico, facendosi riferimento soltanto a baci, e che per contro fa comprendere come l’uomo non corrispondesse ai sentimenti che la persona offesa provava per lui, avendo addirittura bloccato i suoi messaggi su Whatsapp), non rende manifestamente illogico il percorso argomentativo seguito dai giudici di merito, i quali, con doppia decisione conforme, hanno ritenuto attendibile il racconto della persona anche con riguardo al reato di violenza sessuale. La circostanza che la persona offesa abbia mostrato qualche reticenza ad approfondire il rapporto che vi era stato tra lei ed il (OMISSIS) – come sembrerebbe ricavarsi dalla risposta data al controesame della difesa quale riportata a pag. 18 del ricorso, peraltro estrapolata da un piu’ ampio contesto dichiarativo che il ricorrente non ha ritenuto di sottoporre all’attenzione del Collegio per far ad es. comprendere rispetto a cosa la teste abbia negato un “rapporto piu’ intimo” con l’amico – non ne inficia la soggettiva credibilita’ rispetto ai fatti penalmente rilevanti oggetto di contestazione.
A questo proposito – contrariamente a quanto opina il ricorrente (che, peraltro, cade in aperta contraddizione metodologica allorquando, a pag. 22 del ricorso, utilizza il medesimo argomento, sia pur rovesciato) – reputa il Collegio
che non sia manifestamente illogico effettuare il giudizio di intrinseca credibilita’ di un testimone (e, per converso, di inattendibilita’ delle contrarie dichiarazioni rese dall’imputato) valorizzando la veridicita’ delle affermazioni effettuate con riguardo al reato di maltrattamenti in famiglia (giudicate comprovate da elementi esterni di riscontro) per ritenere la soggettiva credibilita’ anche con riguardo all’episodio di violenza sessuale, peraltro oggettivamente e soggettivamente connesso con l’altro delitto a prescindere dalla formale contestazione mossa in imputazione (come ritenuto dai giudici nel ravvisare tra i due reati il vincolo della continuazione). I giudici di merito, invero (cfr., in particolare, sent. di primo grado, pag. 8), hanno ritenuto che l’episodio di violenza sessuale – descritto in modo lineare, dettagliato e pienamente credibile dalla persona offesa – si inserisse nel contesto di quella abituale condotta di sopruso e sottomissione che l’imputato teneva nei confronti della compagna ed hanno logicamente richiamato quale oggettivo riscontro il fatto, documentato, che il giorno successivo la persona offesa si era recata in ospedale per assumere la c.d. “pillola del giorno dopo”, onde evitare gravidanze indesiderate stante la dichiarata eiaculazione interna. Posto che l’imputato aveva negato di aver avuto un rapporto sessuale (anche consenziente) con la convivente – sostenendo, ancora nel ricorso per cassazione (pag. 19), che da mesi essi non avevano rapporti intimi – i giudici di merito hanno non illogicamente ritenuto inverosimile che la donna si fosse in tale occasione fatta accompagnare in ospedale dall’imputato, qualora la gravidanza da scongiurare non fosse a lui attribuibile e fosse invece imputabile (come l’imputato ha tentato di sostenere: lo riferisce la sentenza impugnata a pag. 7) al fatto che ella avesse due giorni prima avuto un rapporto sessuale con il (OMISSIS).
1.4. Quanto alla mancata, esplicita, risposta circa il diniego della richiesta rinnovazione istruttoria con riguardo all’assunzione della testimonianza del (OMISSIS), il ragionamento probatorio ricostruito nella sentenza impugnata e sopra richiamato rende all’evidenza ragione della sua ritenuta superfluita’. D’altra parte, e’ stato autorevolmente precisato che la rinnovazione dell’istruttoria nel giudizio di appello, attesa la presunzione di completezza dell’istruttoria espletata in primo grado, e’ un istituto di carattere eccezionale al quale puo’ farsi ricorso esclusivamente allorche’ il giudice ritenga, nella sua discrezionalita’, di non poter decidere allo stato degli atti (Sez. U n. 12602 del 17/12/2015, dep. 2016, Ricci, Rv. 266820). Ne deriva che, mentre la decisione di procedere a rinnovazione deve essere specificatamente motivata, occorrendo dar conto dell’uso del potere discrezionale, derivante dalla acquisita consapevolezza della rilevanza dell’acquisizione probatoria, nella ipotesi di rigetto, viceversa, la decisione puo’ essere sorretta anche da una motivazione implicita nella stessa struttura argomentativa posta a base della pronuncia di merito, che evidenzi la sussistenza di elementi sufficienti per una valutazione in ordine alla responsabilita’, con la conseguente mancanza di necessita’ di rinnovare il dibattimento (Sez. 6, n. 5782/2007 del 18/12/2006, Gagliano, Rv. 236064; Sez. 6, n. 40496 del 21/05/2009, Messina e a., Rv. 245009; Sez. 3, n. 24294 del 07/04/2010, D.S.B., Rv. 247872).
2. Il secondo motivo di ricorso e’ inammissibile per genericita’ e manifesta infondatezza.
Le doglianze afferenti alla mancata risposta alla richiesta rinnovazione istruttoria per escutere i testimoni che il giudice di primo grado non aveva ammesso, ritenendo la lista sovrabbondante, sono del tutto generiche (non essendo state neppure indicate in ricorso le circostanze sulle quali avrebbe dovuto vertere l’esame) e sono comunque manifestamente infondate giusta i rilievi poco sopra svolti sulla possibilita’ di ricostruire dalla motivazione della sentenza l’implicito rigetto.
2.1. Quanto alla ritenuta soggettiva credibilita’ della persona offesa nel riferire sugli addebiti oggetto di contestazione, gia’ si e’ detto del fatto che la sentenza impugnata non presta al proposito il fianco a critiche suscettibili d’essere valutate in questa sede.
Con particolare riguardo al reato di maltrattamenti, la sentenza impugnata attesta peraltro che le dichiarazioni rese hanno trovato plurime conferme nelle deposizioni di altri testimoni – la madre e la nonna della persona offesa (le quali, contrariamente a quanto allegato in ricorso, avevano assistito anche direttamente a condotte maltrattanti) ed altri, numerosi, testimoni che, in tempi non sospetti, avevano ricevuto le confidenze della donna sul suo penoso menage familiare. Questa ricostruzione e’ del tutto genericamente contestata in ricorso.
2.2. Quanto alla circostanza che, con pronunce conformi, i giudici di primo e secondo grado abbiano ritenuto irrilevanti (sulla scorta di una massima di comune esperienza non certo manifestamente illogica) le dichiarazioni rese dai vicini di casa circa il fatto che non si fossero mai accorti di maltrattamenti avvenuti tra le mura domestiche e inattendibili le compiacenti dichiarazioni rese dall’entourage familiare dell’imputato – a proposito delle quali la sentenza impugnata (pag. 10) effettua anche specifici rilievi che non vengono in alcun modo contestati – si tratta dell’inammissibile tentativo di pretendere da questa Corte un sindacato di merito estraneo al perimetro del controllo di legittimita’.
Ed invero, alla, Corte di cassazione sono precluse la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacita’ esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, De Vita, Rv. 235507), cosi’ come non e’ sindacabile in sede di legittimita’, salvo il controllo sulla congruita’ e logicita’ della motivazione, la valutazione del giudice di merito, cui spetta il giudizio sulla rilevanza e attendibilita’ delle fonti di prova, circa contrasti testimoniali o la scelta tra divergenti versioni e interpretazioni dei fatti (Sez. 5, n. 51604 del 19/09/2017, D’Ippedico e a., Rv. 271623; Sez. 2, n. 20806 del 05/05/2011, Tosto, Rv. 250362). Anche la valutazione della credibilita’ della persona offesa dal reato rappresenta una questione di fatto che, come tale, non puo’ essere rivalutata in sede di legittimita’, salvo che il giudice sia incorso in manifeste contraddizioni (Sez. 2, n. 41505 del 24/09/2013, Terrusa, Rv. 257241; Sez. 3, n. 8382 del 22/01/2008, Finazzo, Rv. 239342), cio’ che nella specie, per quanto detto, non e’.
3. Le argomentate doglianze circa l’inutilizzabilita’ dei dati di traffico telefonico acquisiti ai sensi dell’articolo 132 c. pr. presso il gestore dei servizi telefonici non sono fondate.
3.1. In fatto risulta (cfr., in particolare, sent. di primo grado, pag. 13) che nel corso delle indagini furono acquisiti i tabulati del traffico telefonico relativi all’utenza cellulare in uso all’imputato nelle ore precedenti e in quelle successive al tentato incendio dell’abitazione della madre della sua compagna, appiccato il (OMISSIS), verso le ore 1.20 della notte, alla tapparella del bagno previamente cosparsa di benzina e propagatosi all’interno dello stesso, ma fortunatamente scoperto con immediatezza per via del fumo sprigionatosi che consenti’ alla donna, allertata dalla figlioletta che era in casa con lei, di far intervenire subito i vigili del fuoco che spensero il focolaio.
Essendo emersi indizi nei confronti dell’imputato in base alla visione di filmati ripresi da telecamere di videosorveglianza di cui piu’ oltre si dira’, il pubblico ministero acquisi’ i suddetti tabulati telefonici che confermarono come l’imputato avesse avuto, quella notte, frequenti contatti con tale (OMISSIS), che risulto’ anch’egli coinvolto nei fatti.
3.2. Si e’ proceduto ai sensi dell’articolo 132 c.pr. che, come noto, per quanto qui interessa, consente al pubblico ministero di acquisire presso il fornitore dei servizi telefonici, con decreto motivato, i dati relativi al traffico telefonico, dal medesimo conservati, “per ventiquattro mesi dalla data della comunicazione, per finalita’ di accertamento e repressione dei reati”.
Detta disposizione e’ stata dettata – e fatta oggetto di ripetute modifiche anche tenendo conto della disciplina di matrice Eurounitaria e, sin dall’inizio (cfr. L. 3 febbraio 2003, n. 14, articolo 26, c.d. legge comunitaria 2002), il legislatore delegato che ha approvato il codice della privacy aveva il compito di attuare anche la direttiva 2002/58/CE del Parlamento e del Consiglio del 12 luglio 2002, relativa al trattamento dei dati personali e alla tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche.
La citata direttiva – che, nella versione successivamente modificata, in particolare dalla dir. 2009/136/CE, tuttora regola la materia – mira ad armonizzare le “disposizioni nazionali necessarie per assicurare un livello equivalente di tutela dei diritti e delle liberta’ fondamentali, in particolare del diritto alla vita privata e alla riservatezza, con riguardo al trattamento dei dati personali nel settore delle comunicazioni elettroniche e per assicurare la libera circolazione di tali dati e delle apparecchiature e dei servizi di comunicazione elettronica all’interno della Comunita’” (articolo 1, par. 1) e, per quanto qui interessa, “non si applica.. alle attivita’ dello Stato in settori che rientrano nel diritto penale” (articolo 1, par. 3). Che quest’ultimo macrosettore possa formare oggetto di una disciplina derogatoria rispetto a quella dettata in via generale a tutela della vita privata, lo si ricava ulteriormente, con chiarezza, dai successivi articoli 5, 6 e 15 della direttiva. Se l’articolo 5, par. 1, pone l’obbligo di assicurare, “mediante disposizioni di legge nazionali, la riservatezza delle comunicazioni effettuate tramite la rete pubblica di comunicazione e i servizi di comunicazione elettronica accessibili al pubblico, nonche’ dei relativi dati sul traffico”, la stessa disposizione aggiunge che il conseguente divieto di ascolto, captazione, memorizzazione e sorveglianza opera eccetto quando tale controllo “sia autorizzato legalmente a norma dell’articolo 15, paragrafo 1”. Allo stesso modo, il successivo articolo 6, par. 1, prevede che “i dati sul traffico relativi agli abbonati ed agli utenti, trattati e memorizzati dal fornitore di una rete pubblica o di un servizio pubblico di comunicazione elettronica devono essere cancellati o resi anonimi quando non sono piu’ necessari ai fini della trasmissione di una comunicazione, fatti salvi…l’articolo 15, paragrafo 1”. Quest’ultima disposizione, a sua volta, prevede, per quanto qui interessa, che “gli Stati membri possono adottare disposizioni legislative volte a limitare i diritti e gli obblighi di cui agli, articoli 5 e 6… qualora tale restrizione costituisca, ai sensi dell’articolo 13, paragrafo 1, della direttiva 95/46/CE, una misura necessaria, opportuna, e proporzionata all’interno di una societa’ democratica per…la prevenzione, ricerca, accertamento e perseguimento dei reati…A tal fine gli Stati membri possono tra l’altro adottare misure legislative le quali prevedano che i dati siano conservati per un periodo di tempo limitato per i motivi enunciati nel presente paragrafo”.
3.3. Or bene, reputa il Collegio che – contrariamente a quanto sostiene il ricorrente – l’articolo 132 c.pr. non contrasti con le riportate norme di diritto Eurounitario quali doverosamente interpretate alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea al proposito formatasi.
Sulla compatibilita’, in via generale, del diritto interno a quello sovranazionale a proposito della questione qui esaminata questa Corte si e’ gia’ espressa con recenti pronunce, le cui argomentazioni – condivise dal Collegio e non specificamente contestate dal ricorrente – ci si limita in questa sede a richiamare, con le ulteriori precisazioni di seguito esposte, essendosene ricavato il principio secondo cui, in tema di acquisizione di dati contenuti in tabulati telefonici, la disciplina prevista dal Decreto Legislativo n. 196 del 2003, articolo 132 e’ compatibile con il diritto sovranazionale in tema di tutela della privacy (direttive 2002/58/CE e 2006/24/CE), come interpretate dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Sez. 5, n. 33851 del 24/04/2018, M., Rv. 273892; Sez. 3, n. 36380 del 19/04/2019, D’Addiego, n. m.; nella motivazione di queste sentenze si fa riferimento alle decisioni della CGUE richiamate in ricorso, vale a dire: Grande Sezione, Digital Rights, 8 aprile 2014, C-293/12 e C-594/12; Grande Sezione, Tele 2, 21 dicembre 2016, C-203/15 e C-698/15).
Il ricorrente osserva che in queste sentenze non si affronta, tuttavia, l’aspetto che viene qui segnalato come dirimente per evidenziare il contrasto, vale a dire che l’articolo 132 c.pr. consente l’acquisizione dei dati di traffico telefonico ai fini delle indagini condotte nel procedimento penale senza stabilire un elenco di reati sufficientemente gravi per poter ritenere proporzionata la inevitabile violazione del diritto alla vita privata.
La conclusione viene tratta dalla citata sent. Digital Rights, con cui la Corte di giustizia ha dichiarato l’invalidita’ della Direttiva 2006/24/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, adottata a modificazione della direttiva 2002/58/CE al dichiarato fine di “armonizzare le disposizioni degli Stati membri relative agli obblighi, per i fornitori di servizi di comunicazione elettronica accessibili al pubblico o di una rete pubblica di comunicazione, relativi alla conservazione di determinati dati da essi generati o trattati, allo scopo di garantirne la disponibilita’ ai fini di indagine, accertamento e perseguimento di reati gravi, quali definiti da ciascuno Stato membro nella propria legislazione nazionale” (articolo 1, par. 1). Al predetto fine, modificandosi l’articolo 15 della citata direttiva del 2002 con l’inserimento di un paragrafo 1-bis, la Direttiva 2006/24/CE prevedeva l’inapplicabilita’ del paragrafo 1 di tale disposizione nella parte in cui consentiva che Stati membri potessero adottare disposizioni in materia di conservazione dei dati finalizzate all’accertamento ed al perseguimento di reati.
Come anche si ricava dalle precisazioni contenute nei considerando che nella direttiva del 2006 precedono l’articolato normativo, il legislatore Eurounitario aveva preso atto che “diversi Stati membri hanno adottato normative sulla conservazione di dati da parte dei fornitori dei servizi a fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento dei reati” e che “le disposizioni delle varie legislazioni nazionali differiscono considerevolmente” (n. 5), si’ da costituire “un ostacolo al mercato interno delle comunicazioni elettroniche, giacche’ i fornitori dei servizi devono rispettare esigenze diverse per quanto riguarda i tipi di dati relativi al traffico, e i tipi di dati relativi all’ubicazione da conservare e le condizioni e la durata di tale conservazione” (n. 6). Di qui l’avvertita esigenza di dettare una disciplina comune agli Stati membri, in base al principio di sussidiarieta’ sancito dall’articolo 5 del Trattato e nel rispetto del principio di proporzionalita’ dal medesimo previsto (n. 21), “impregiudicata la facolta’ degli Stati membri di adottare misure legislative concernenti il diritto di accesso e ricorso ai dati da parte di autorita’ nazionali da esse designate”, nel rispetto dei diritti fondamentali garantiti dalla CEDU e, in particolare, del suo articolo 8 quale interpretato alla luce della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, sicche’ “l’ingerenza di un’autorita’ pubblica nel diritto alla riservatezza deve rispondere a criteri di necessita’ e proporzionalita’ e deve quindi perseguire scopi specifici, espliciti e legittimi nonche’ essere esercitata in modo adeguato, pertinente e non eccessivo rispetto allo scopo ricercato” (considerando n. 25).
Nel contempo, peraltro, si attestava che, “a motivo dell’importante aumento delle possibilita’ offerte dalle comunicazioni elettroniche, i dati relativi all’uso di queste ultime costituiscono uno strumento particolarmente importante e valido nella prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento dei reati, in particolare della criminalita’ organizzata” (n. 7), si’ che “risulta necessario assicurare che i dati conservati restino a disposizione delle autorita’ di contrasto per un certo periodo di tempo alle condizioni previste dalla presente direttiva” (n. 8).
La direttiva 2006/24/CE prevedeva, pertanto, tra l’altro:
l’obbligo degli Stati membri di adottare misure che garantissero la conservazione dei dati (specificamente indicati nell’articolo 5) generati o trattati nel quadro della fornitura dei servizi di comunicazione elettronica accessibili al pubblico di una rete pubblica (articolo 1);
l’obbligo di adottare misure per garantire che detti dati – da conservarsi per un periodo non inferiore a sei mesi e non superiore a due anni (articolo 6), salva la possibilita’ di proroghe per periodi limitati al fine di affrontare circostanze particolari (articolo 12) – fossero accessibili soltanto alle autorita’ nazionali, in casi specifici e in conformita’ a criteri di necessita’ e proporzionalita’;
misure per la protezione e sicurezza dei dati conservati (articolo 7), soggette alla verifica di un’autorita’ nazionale di controllo indipendente (articolo 9), ed un’adeguata disciplina contenente responsabilita’ e sanzioni per il caso di violazioni (articolo 13).
Com’e’ noto, con la citata sent. Digital Rights, la Corte di giustizia ha dichiarato l’invalidita’ di tale direttiva, ritenendo che “il legislatore dell’Unione ha ecceduto i limiti imposti dal rispetto del principio di proporzionalita’ alla luce degli articoli 7, 8 e 52, paragrafo 1, della Carta” (punto 69).
Nel giungere a tale conclusione, la Corte ha innanzitutto constatato che “la conservazione dei dati per permettere alle autorita’ nazionali competenti di disporre di un accesso eventuale agli stessi, come imposto dalla direttiva 2006/24, risponde effettivamente a un obiettivo di interesse generale” (punto 44) e che, “tenuto conto della crescente importanza dei mezzi di comunicazione elettronica, i dati che debbono essere conservati in attuazione della detta direttiva permettono alle autorita’ nazionali competenti in materia di perseguimento di reati di disporre di possibilita’ supplementari di accertamenti dei reati gravi e, al riguardo costituiscono quindi uno strumento utile per le indagini penali. Pertanto la conservazione dei suddetti dati puo’ essere considerata come idonea a realizzare l’obiettivo perseguito dalla suddetta direttiva” (punto 49).
Si e’ ritenuto, tuttavia, che la disciplina dettata dalla direttiva – imponendo un obbligo generalizzato di conservazione concernente tutti i mezzi di comunicazione elettronica, il cui uso e’ estremamente diffuso – da un lato, implica “un’ingerenza nei diritti fondamentali della quasi totalita’ della popolazione Europea” (punto 56), “senza alcuna distinzione, limitazione o eccezione a seconda dell’obiettivo di lotta contro i reati gravi” (punto 57) e senza alcuna deroga; d’altro lato, “non prevede alcun criterio oggettivo che permetta di delimitare l’accesso delle autorita’ nazionali competenti ai dati e il loro uso ulteriore a fini di prevenzione, di accertamento o di indagini penali riguardanti reati che possano, con riguardo alla portata e alla gravita’ dell’ingerenza nei diritti fondamentali sanciti agli articoli 7 e 8 della Carta, essere considerati sufficientemente gravi da giustificare siffatta ingerenza.
Al contrario, la direttiva 2006/24 si limita a rinviare all’articolo 1, paragrafo 1, in maniera generale ai reati gravi come definiti da ciascuno Stato membro nel proprio diritto interno” (punto 60).
Inoltre, “per quanto riguarda l’accesso delle autorita’ nazionali competenti ai dati e al loro uso ulteriore, la direttiva 2006/24 non contiene le condizioni sostanziali e procedurali ad esso relative” (punto 61), “non prevede alcun criterio oggettivo che permetta di limitare il numero di persone che dispongono dell’autorizzazione di accesso e uso ulteriore dei dati conservati a quanto strettamente necessario per raggiungere l’obiettivo perseguito. Soprattutto, l’accesso ai dati conservati da parte delle autorita’ competenti non e’ subordinato ad un previo controllo effettuato da un giudice o da un’entita’ amministrativa indipendente” (punto 62). Anche la previsione dei termini di durata di conservazione dei dati senza ulteriori distinzioni e criteri e’ stata censurata (punti 63 e 64), sicche’ si e’ concluso che “la direttiva 2006/24 non prevede norme chiare e precise che regolino la portata dell’ingerenza nei diritti fondamentali sanciti dagli articoli 7 e 8 della Carta” (punto 65) e “non prevede garanzie sufficienti, come richieste dall’articolo 8 della Carta, che permettano di assicurare una protezione efficace dei dati conservati contro i rischi di abuso nonche’ contro eventuali accessi e usi illeciti dei suddetti dati” (punto 66), non garantendo che i fornitori dei servizi applichino “un livello particolarmente elevato di protezione e di sicurezza attraverso misure tecniche e organizzative” (punto 67) e non imponendo “che i dati di cui trattasi siano conservati sul territorio dell’Unione” (punto 68).
3.4. Come si vede, la valutazione che nella sentenza Digital Rights ha indotto la Corte di giustizia a dichiarare l’invalidita’ della direttiva 2006/24/CE e’ stata articolata, complessa e fondata su una serie di deficit di tutela nell’ambito dei quali – contrariamente a quanto opina il ricorrente – la mancata individuazione di reati considerati sufficientemente gravi da giustificare l’ingerenza nel diritto fondamentale alla vita privata non assume portata dirimente.
Quest’elemento, peraltro, era stato esaminato nella specifica ottica in cui la direttiva si poneva, vale a dire quello di armonizzare le disposizioni nazionali necessarie “per assicurare un livello equivalente di tutela dei diritti e delle liberta’ fondamentali”, essendosi ritenuto al proposito indispensabile – prevedendo la direttiva un generalizzato obbligo di conservazione dei dati – che la disciplina Europea fissasse criteri oggettivi cui le legislazioni nazionali dovessero informarsi. Contrariamente a quanto sostiene il ricorrente, pero’, la Corte di giustizia non ha affatto preteso che la legislazione dell’Unione (tantomeno, quindi, le legislazioni nazionali) fissasse un “elenco” di reati ritenuti sufficientemente gravi da giustificare la conservazione dei dati e l’accesso ai medesimi ai fini di giustizia penale – essendosi, semmai, censurato proprio il fatto che fosse ritenuto bastevole il rinvio a reati ritenuti gravi quali definiti da ciascun Stato membro – ma ha focalizzato l’attenzione sul rapporto di necessaria proporzionalita’ tra gravita’ dell’ingerenza e gravita’ del reato (cosi’, con chiarezza, il punto 60 piu’ sopra riportato). Alla luce della decisione assunta nella causa Digital Rights, dunque, la globale considerazione della disciplina nazionale sulla conservazione e sull’accesso dei dati che, nelle sentenze di legittimita’ piu’ sopra citate, ha indotto questa Corte a ritenere che essa non presti il fianco a censure analoghe a quelle indirizzate alla direttiva 2006/24, non e’ inficiata anche per quanto piu’ oltre si dira’ – dal fatto che l’articolo 132 c.pr. non limiti la possibilita’ di accesso ai dati da parte dell’autorita’ giudiziaria penale ad un “catalogo di reati” di una certa gravita’.
3.5. La conclusione non muta neppure alla luce della successiva giurisprudenza della Corte di giustizia, che si e’ occupata della questione in due piu’ recenti pronunce, l’ultima delle quali – nemmeno citata in ricorso – riveste invece particolare importanza, ad avviso del Collegio, per risolvere la questione qui dedotta.
3.5.1. Nella gia’ citata sentenza resa in causa Tele2 – parimenti invocata dal ricorrente – la Corte di giustizia, pronunciandosi con riguardo alle condizioni che possono giustificare il diritto all’accesso ai dati conservati da parte dell’autorita’ giudiziaria penale secondo la disciplina Eurounitaria rimasta vigente a seguito della declaratoria d’invalidita’ della direttiva 2006/24/CE, ha affermato che “l’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2002/58, letto alla luce degli articoli 7, 8 e 11 nonche’ dell’articolo 52, paragrafo 1, della Carta, deve essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa nazionale, la quale disciplini la protezione e la sicurezza dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione e, segnatamente l’accesso delle autorita’ nazionali competenti ai dati conservati, senza limitare, nell’ambito della lotta contro la criminalita’, tale accesso alle sole finalita’ di lotta contro la criminalita’ grave, senza sottoporre detto accesso ad un controllo preventivo da parte di un giudice o di un’autorita’ amministrativa indipendente, e senza esigere che i dati di cui trattasi siano conservati nel territorio dell’Unione” (punto 125). Nemmeno questa decisione richiede che la normativa nazionale preveda espressamente “cataloghi di reati” la cui gravita’ possa giustificare l’accesso ai dati, esigendo invece che siano previste “le condizioni sostanziali e procedurali che disciplinano l’accesso delle autorita’ nazionali competenti ai dati conservati” (punto 118) e precisando che “un accesso puo’, in linea di principio, essere consentito, in relazione con l’obiettivo della lotta contro la criminalita’, soltanto per i dati di persone sospettate di progettare, di commettere o di aver commesso una violazione grave, o anche di essere implicate in una maniera o in un’altra in una violazione siffatta” (punto 119) essendo in particolare necessario che, salvi casi di urgenza, detto accesso sia subordinato “ad un controllo preventivo effettuato o da un giudice o da un’entita’ amministrativa indipendente…nell’ambito di procedure di prevenzione, di accertamento o di esercizio dell’azione penale” (punto 120).
3.5.2. Quanto al requisito della “gravita’ della violazione”, la sentenza Tele 2 non contiene ulteriori specificazioni e lo stesso, come si accennava, e’ stato approfondito in una successiva decisione che – trattandosi del piu’ recente pronunciamento della Corte di giustizia – rappresenta, allo stato, il diritto vivente con cui l’interprete nazionale deve necessariamente confrontarsi. Ci si riferisce alla sent. Corte giust., Grande Sez., 2 ottobre 2018, in causa C-207/16, concernente una domanda di pronuncia pregiudiziale promossa dall’autorita’ giudiziaria spagnola nel procedimento avviato dal Ministerio Fiscal – vale a dire dal pubblico ministero del Regno di Spagna – contro la decisione del giudice istruttore che aveva rifiutato l’accesso ai dati personali conservati da fornitori di servizi di comunicazione elettronica (si trattava, nella specie, dei soggetti che, in un lasso di tempo di 12 giorni, avessero attivato carte SIM abbinate al codice IMEI di un telefono cellulare sottratto nel corso di una rapina), sul rilievo che la legge spagnola limitava la comunicazione dei dati alle esigenze di indagini avviate su “reati gravi”, tali essendo, per la normativa interna, quelli punibili con pene detentive superiori a cinque anni, e che il reato per cui si procedeva non rientrava in questa categoria.
La Corte – richiamando, sul piano dei principi, la propria precedente giurisprudenza, in particolare le citate decisioni Digital Rights e Tele 2 – afferma che “per quanto riguarda l’obiettivo di prevenzione, ricerca, accertamento e perseguimento dei reati, occorre rilevare che la formulazione dell’articolo 15, paragrafo 1, primo periodo, della direttiva 2002/58 non limita tale obiettivo alla lotta contro i soli reati gravi, ma si riferisce ai “reati” in generale” e che “l’obiettivo perseguito da una normativa che disciplina tale accesso deve essere adeguata alla gravita’ dell’ingerenza nei diritti fondamentali in questione che tale operazione determina”. Il rispetto del principio di proporzionalita’, dunque, porta a concludere che “una grave ingerenza puo’ essere giustificata, in materia di prevenzione, ricerca, accertamento e perseguimento di un reato, solo da un obiettivo di lotta contro la criminalita’ che deve essere qualificata come “grave”.
Al contrario, qualora l’ingerenza che comporta tale accesso non sia grave, detto accesso puo’ essere giustificato da un obiettivo di prevenzione, ricerca, accertamento e perseguimento di un “reato” in generale”. Sulla base di tale affermazione di principio, la Corte, rilevando che l’accesso ai dati personali nella specie richiesto al giudice istruttore comportava un’ingerenza non grave nei diritti fondamentali delle persone coinvolte, ha concluso che l’articolo 15, par 1, della direttiva 2002/58 non richiedeva che esso fosse limitato alla prevenzione, ricerca, accertamento e perseguimento di reati qualificati come “gravi”.
3.6. Come si vede, la piu’ recente giurisprudenza della Corte di giustizia approfondendo il rilievo gia’ contenuto nel punto 60 della sentenza Digital Rights – ha fatto chiarezza proprio sul tema che il ricorrente sottopone all’attenzione del Collegio e ha nitidamente escluso il presupposto interpretativo della disciplina Europea in materia che il medesimo ha posto a sostegno delle conclusioni del ricorso, rivelando come il riferimento che le precedenti decisioni avevano fatto alla necessita’ che l’ingerenza nel diritto fondamentale alla vita privata connesso alla conservazione e accesso dei dati fosse giustificato soltanto nel caso di reati “sufficientemente gravi” implicasse necessariamente una valutazione, in concreto, di proporzionalita’. Per contro, e’ stato senza tentennamenti affermato che la disciplina Eurounitaria in materia di trattamento dei dati personali e tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche consente, a fini di giustizia penale, in linea generale e fatta salva la valutazione del rispetto del principio di proporzionalita’, l’accesso a quei dati quale che sia la gravita’ del reato, con l’ovvia conseguenza che le discipline nazionali che regolano l’accesso ai dati per le suddette finalita’ non debbono necessariamente subordinarlo al fatto che oggetto dell’indagine penale sia un reato di una certa gravita’, rientrante in un predeterminato catalogo.
Alla luce di tali principi, deve dunque affermarsi il principio secondo cui l’articolo 132 c.pr., nella parte in cui non limita l’accesso ai dati di traffico telefonico, a fini di giustizia penale, a categorie di reati ritenuti particolarmente gravi, non si pone in contrasto con la disciplina sovranazionale di matrice Eurounitaria, il cui rispetto impone invece una valutazione in concreto della proporzione tra gravita’ dell’ingerenza nel diritto fondamentale alla vita privata che l’accesso ai dati comporta e gravita’ del reato oggetto d’indagine.
Questa valutazione – che, ovviamente, dipende da una serie di variabili connesse alla particolarita’ dei casi concreti – mal si presta ad una preventiva, rigida, codificazione e non puo’ che essere rimessa alla prudente valutazione dell’autorita’ giudiziaria, o comunque indipendente, che, per la normativa Eurounitaria cosi’ come interpretata dalla giurisprudenza della Corte di Lussemburgo, costituisce indefettibile garanzia rispetto alla tutela dei diritti fondamentali.
3.7. Alla luce di tali principi, la doglianza proposta in ricorso va ritenuta senz’altro infondata e non v’e’ alcuna necessita’ – vi e piu’ a seguito della decisione Ministerio Fiscal – di sottoporre alla Corte di giustizia la domanda pregiudiziale prospettata in ricorso, vale a dire se gli articoli 7, 8 e 52, par. 1, della Carta dei diritti fondamenti UE ostino ad una normativa nazionale, quale l’articolo 132 Codice Privacy, che consente l’acquisizione e la conservazione dei dati esterni del traffico telefonico e telematico per qualsiasi tipo di reato, essendone scontata la risposta negativa.
Avendo il ricorrente fondato la doglianza su un presupposto interpretativo errato e non avendo devoluto a questa Corte la questione del difetto di proporzionalita’ tra i dati di traffico nel caso di specie acquisiti e la gravita’ del reato oggetto d’indagine – l’unica, come si e’ visto, rilevante ai fini di un’applicazione del diritto nazionale che sia conforme alla disciplina Eurounitaria in materia – l’esame del Collegio sul punto non puo’ spingersi oltre. Va peraltro osservato come la Corte territoriale abbia ritenuto che il reato di tentato incendio doloso dell’abitazione in cui, unitamente alla figlioletta di pochi anni, viveva la madre della compagna dell’imputato, punito nella forma consumata con la pena massima di sette anni di reclusione, fosse fattispecie sufficientemente “grave” da giustificare l’acquisizione dei dati di traffico telefonico nella specie effettuata, che, da quanto emerge dagli unici atti cui il Collegio ha accesso, sembrano essersi limitati all’individuazione dei contatti telefonici intrattenuti con l’utenza in uso al ricorrente, gia’ indiziato per la commissione del reato, nelle ore immediatamente antecedenti e successive al fatto. La logicita’ di tale affermazione non viene censurata dal ricorrente, che, invece, contesta in radice che “non puo’ essere il giudice a stabilire se si e’ in presenza di un reato grave o no” (pag. 35 del ricorso). Come plasticamente dimostra la decisione assunta dalla Corte di giustizia nel caso Ministerio Fiscal – in cui la valutazione di proporzionalita’ tra gravita’ del reato e gravita’ dell’ingerenza e’ stata addirittura compiuta dallo stesso giudice Europeo – la tesi interpretativa del ricorrente e’ tuttavia radicalmente infondata. Per contro, il principio che l’interprete nazionale ricava dalla giurisprudenza Eurounitaria nel doveroso compito di applicare il diritto interno in conformita’ alla disciplina sopranazionale, e’ che l’articolo 132 cod. pr., nella parte in cui prevede che i dati relativi al traffico telefonico conservati dal fornitore per ventiquattro mesi dalla data della comunicazione e i dati relativi al traffico telematico, esclusi comunque i contenuti delle comunicazioni, conservati dal fornitore per dodici mesi dalla data della comunicazione, possono essere acquisiti per finalita’ di accertamento e repressione dei reati con decreto motivato del pubblico ministero – anche su istanza del difensore dell’imputato, della persona sottoposta alle indagini, della persona offesa e delle altre parti private -,impone all’autorita’ giudiziaria di operare un giudizio di proporzionalita’ tra il grado di ingerenza nel diritto fondamentale alla vita privata che l’accesso ai dati comporta e la gravita’ del reato oggetto di indagine.
Ne consegue, ulteriormente, che, laddove nel successivo giudizio si faccia questione della legittimita’ dell’acquisizione di tali dati, compete al giudice di verificare se il menzionato requisito di proporzione possa dirsi soddisfatto al fine di ritenere o negare l’utilizzabilita’ processuale dei dati medesimi ai sensi dell’articolo 191 c.p.p..
3.8. Diversamente da quanto sostiene il ricorrente, peraltro, la mancata indicazione, nell’articolo 132 cod. pr., di parametri cui informare il suddetto giudizio di proporzionalita’ non rischia di renderlo arbitrario, poiche’ dalla legislazione processuale sono ricavabili utili criteri, venendo in particolar modo in rilievo, anche con riguardo alla valutazione fatta nel caso di specie, la previsione contenuta nell’articolo 266 c.p.p., comma 1, lettera a).
Nel prevedere – in omaggio, peraltro, al disposto di cui all’articolo 15 Cost. – le garanzie per la limitazione del diritto costituzionalmente tutelato alla segretezza delle comunicazioni, bilanciandolo con la necessita’ del ricorso all’invasivo strumento delle intercettazioni ai fini dell’acquisizione delle prova, il legislatore, al di la’ della indicazione di specifiche ipotesi di reato rispetto alle quali si e’ comunque ammesso detto atto di indagine, ha in via generale ritenuto possibile procedervi nei procedimenti relativi a delitti non colposi per i quali e’ prevista la pena. dell’ergastolo o della reclusione superiore, nel massimo, a cinque anni. Trattandosi di un’ingerenza nel diritto alla vita privata certamente piu’ marcata, e pregiudizievole, rispetto a quella della mera acquisizione dei dati di traffico telefonico (per analogo rilievo, v., in motivazione, Sez. 3, n. 36380 del 19/04/2019, D’Addiego, n. m.), quest’ultima attivita’ ben puo’ ritenersi consentita, in via generale, per reati puniti meno gravemente, sicche’ quando – come nel caso di specie – la pena massima prevista per il delitto oggetto di indagine (anni quatto e mesi otto di reclusione) sia di pochissimo inferiore a quella che addirittura consente l’intercettazione telefonica non v’e’ dubbio che possa dirsi proporzionata un’ingerenza nella vita privata di scarsa significativita’ come quella nella specie avvenuta, secondo i dati di fatto conoscibili da parte del Collegio.
Per contro – donde l’infondatezza dell’ulteriore rilievo contenuto in ricorso – non e’ invece pertinente la L. 20 novembre 2017, n. 167, articolo 24 (legge Europea 2017), con cui si e’ data attuazione alla previsione contenuta nell’articolo 20 della direttiva 2017/541 del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 15 marzo 2017, sulla lotta contro il terrorismo e che sostituisce la decisione quadro 2002/475/GAI del Consiglio. La disposizione, dettata all’espresso fine di “garantire strumenti di indagine efficaci in considerazione delle straordinarie esigenze di contrasto del terrorismo, anche internazionale, per le finalita’ dell’accertamento e della repressione dei reati di cui all’articolo 51, comma 3-quater e articolo 407 c.p.p., comma 2, lettera a)”, si e’ limitata ad estendere a settantadue mesi, per quei reati, il termine di conservazione dei dati di traffico telefonico e telematico nonche’ dei dati relativi alle chiamate senza risposta, in deroga a quanto previsto dall’articolo 132 c.pr., commi 1 e 1-bis: il fatto che il delitto di tentato incendio doloso non rientri nel catalogo dei reati richiamati non significa, ovviamente, che tale delitto non sia sufficientemente grave da giustificare il data retention (ed il conseguente accesso ai fini di giustizia penale), bensi’, piu’ semplicemente, che per esso valgono gli ordinari limiti temporali di conservazione (e accesso) previsti dalla disciplina generale.
4. Disattesa la censura di inutilizzabilita’ dei dati di traffico telefonico acquisiti, le ulteriori doglianze proposte in ricorso a proposito della ritenuta responsabilita’ con riguardo al reato di tentato incendio sono manifestamente infondate, avendo, peraltro, lo stesso ricorrente espressamente convenuto sulla decisivita’ di tali elementi di prova.
Ed invero, secondo la concorde, e del tutto logica, ricostruzione effettuata dai giudici di merito di primo e secondo grado, i tabulati attestano i numerosi contatti telefonici intercorsi – nelle ore immediatamente precedenti e successive al fatto delittuoso – tra il ricorrente e (OMISSIS). Tra questi, la telefonata effettuata dal primo a bordo dell’autovettura dei Carabinieri che l’aveva appena prelevato presso la sua abitazione alle ore 2.30 della notte dell’incendio, vale a dire circa un’ora dopo il fatto delittuoso, nel corso della quale, fingendo di parlare con la madre, egli sostanzialmente comunico’ al complice che i Carabinieri lo avevano individuato e lo stavano conducendo in caserma, invitando l’amico a “tornarsene a casa sua”. Come argomentano le sentenze, (OMISSIS) era proprietario di un camper Ford Transit del tutto simile a quello che fu ripetutamente ripreso la notte del reato poco prima della sua commissione, dapprima presso una stazione di servizio ubicata a qualche chilometro dall’abitazione incendiata ove due persone – con corporatura corrispondente a quella di (OMISSIS) e (OMISSIS) – riempirono di benzina (combustibile utilizzato per appiccare il fuoco) tre bottiglie di benzina e, subito dopo, nella stessa via ove, a poche decine di metri, e’ ubicato lo stabile preso di mira, essendosi detto veicolo allontanato da quella zona qualche minuto dopo che l’incendio era stato appiccato. Gli stessi due soggetti furono poi ripresi mentre, verso le ore 2.15, si dirigevano a piedi e quindi entravano nello stabile in cui, nel vicino paese, viveva (OMISSIS) e dove, pochi minuti dopo, sopraggiunsero i Carabinieri che lo prelevarono per portarlo in caserma. Uno di quei due soggetti – pur non visibile in volto in alcuno dei diversi filmati in cui fu ripreso – fu identificato nell’odierno ricorrente dal maresciallo dei Carabinieri, che ben lo conosceva, e (anche in relazione a taluni particolari capi di abbigliamento che lo stesso era solito indossare) dalla compagna e dalla madre. Tale riconoscimento – logicamente ritenuto attendibile, essendo del tutto generiche e avulse dal caso di specie le censure mosse dal ricorrente – rappresenta, peraltro, solo uno degli elementi di un quadro probatorio indiziario solidissimo, correttamente valorizzato dalle concordi sentenze di merito ai fini del riconoscimento della responsabilita’ penale, senza necessita’, dunque, di disporre la perizia sui filmati richiesta in via subordinata dall’imputato con il gravame di merito (cfr., al proposito, quanto osservato supra, sub §. 1.4. circa la possibilita’ di ricavare dalla motivazione l’implicita reiezione, per irrilevanza, della richiesta di rinnovazione dell’istruttoria).
5. Sono infondate anche le doglianze proposte in relazione all’affermazione di penale responsabilita’ per il reato di danneggiamento con incendio dell’autovettura, non essendo ravvisabile – nelle conformi decisioni di primo e secondo grado – alcun vizio di contraddittorieta’ od insufficienza della motivazione.
Sono stati giustamente valorizzati, in particolare, i messaggi pubblicati sulla pagine Facebook dell’imputato, dai giudici di merito convincentemente attribuiti al medesimo, senza che le generiche doglianze del ricorrente inficino tale conclusione o rendessero necessario alcun accertamento peritale. Contestualizzati rispetto ai reati commessi il (OMISSIS), letti anche alla luce della sicura attribuzione al (OMISSIS) del tentato incendio all’abitazione e della conflittualita’ tra il medesimo e la compagna, che, per le ragioni indicate nelle sentenze, aveva coinvolto anche la madre di questa, i messaggi sono stati logicamente ritenuti, il primo, quale manifestazione di intenti vendicativi e, il secondo – significativamente “postato” a circa un’ora di distanza dall’incendio dell’autovettura – quale rivendicazione del reato appena compiuto e minaccia di quello, piu’ grave, poi commesso tre giorni dopo. Rispetto ad una ricostruzione tutt’altro che illogica, a questa Corte sono precluse la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacita’ esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, De Vita, Rv. 235507).
5.1. Quanto alla richiesta, avanzata in udienza dal Procuratore generale, di annullamento senza rinvio della sentenza impugnata con riguardo al reato di danneggiamento degli pneumatici dell’autovettura incendiata perche’ il fatto non e’ previsto dalla legge come reato a seguito della riformulazione della fattispecie incriminatrice operata con Decreto Legislativo 15 gennaio 2016, n. 7, articolo 2, comma 1, lettera l, osserva il Collegio come – a fronte di una sentenza di primo grado che recava condanna anche per tale reato, emessa successivamente alla citata “novella” e non gravata, sul punto, da appello, e senza che neppure nell’articolato ricorso per cassazione siano state al proposito mosse doglianze – non sussistano i presupposti per la disamina d’ufficio della questione.
6. Il quinto motivo e’ inammissibile per genericita’ e manifesta infondatezza.
6.1. Con riguardo alla determinazione della pena, il percorso logico seguito dai giudici di merito – del tutto genericamente contestato in ricorso – e’ stato adeguatamente esposto, non appare inficiato da illogicita’ manifesta e non e’ dunque sindacabile in sede di legittimita’ ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), essendo peraltro ossequioso dei parametri sulla gravita’ del reato e sulla capacita’ a delinquere del reo previsti dall’articolo 133 c.p..
D’altra parte, puo’ altresi’ richiamarsi il principio secondo cui, in tema di determinazione della pena, nel caso in cui venga irrogata una pena decisamente al di sotto della media edittale – come nella specie avvenuto, essendosi applicato il minimo della pena per il piu’ grave reato di violenza sessuale e contenuti aumenti a titolo di continuazione (quello per il reato di maltrattamenti in famiglia decisamente ridotto dalla corte d’appello) – non e’ necessaria una specifica e dettagliata motivazione da parte del giudice, essendo sufficiente il richiamo al criterio di adeguatezza della pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all’articolo 133 c.p. (Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015, Scaramozzino, Rv. 265283; Sez. 4, n. 21294 del 20/03/2013, Serratore, Rv. 256197).
6.2. Quanto al diniego delle circostanze attenuanti generiche, il Collegio condivide il consolidato principio secondo cui la motivazione del giudice di merito e’ insindacabile in sede di legittimita’, purche’ sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell’articolo 133 c.p., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell’esclusione (Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269; Sez. 2, n. 3896 del 20/01/2016. De Cotiis, Rv. 265826; Sez. 1, n. 33506 del 07/07/2010, Biancofiore, Rv. 247959). La sentenza impugnata reca una motivazione articolata, che sottolinea la commissione di plurimi reati sintomatici di una particolare pericolosita’, l’assenza di resipiscenza, l’impossibilita’ di trarre elementi favorevoli dal comportamento processuale, l’irrilevanza dell’elemento della “sostanziale incensuratezza” dedotto dall’appellante (e cio’ sia alla luce della previsione di cui all’articolo 62 bis c.p., comma 3, sia del fatto che l’imputato ha un precedente penale, pur per reato contravvenzionale). Detta motivazione non e’ assolutamente illogica e non e’ in alcun modo inficiata dalle assai generiche doglianze mosse dal ricorrente sul punto.
7. L’ultimo motivo ricorso e’ in parte infondato ed in parte inammissibile.
7.1. Quanto alla richiesta di esclusione delle parti civili, la sentenza impugnata richiama le motivazioni addotte dal primo giudice a sostegno del rigetto della questione gia’ proposta in primo grado, posto che con il gravame non erano stati allegati elementi diversi da quelli gia’ valutati, vale a dire – come si ricava dalla lettura dell’ordinanza resa a verbale dell’udienza preliminare del 20 luglio 2016, quando le parti civili si costituirono in giudizio e la difesa dell’imputato ne chiese l’esclusione – che dalle procure conferite ai difensori delle parti civili emergeva la chiara volonta’ di conferire non soltanto il mandato difensivo ai sensi dell’articolo 100 c.p.p., ma anche la procura sostanziale (ex articoli 76 e 122 c.p.p.) ad effettuare la costituzione di parte civile.
Avendo fatto accesso agli atti, trattandosi di questione di carattere processuale, il Collegio condivide tale valutazione, che il ricorrente, peraltro, contesta in modo generico, posto che:
– nella procura speciale rilasciata dalla persona offesa (OMISSIS) in calce all’atto di costituzione di parte civile presentato dal nominato procuratore avv. (OMISSIS) – denominato “atto di nomina a difensore e procura speciale” – si legge che la suddetta “dichiara di nominare quale proprio procuratore speciale e difensore l’avvocato (OMISSIS)…affinche’ sia dalla stessa rappresentata ed assistita nel procedimento penale indicato…per ottenere il risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali…A tal fine concede al nominato difensore e procuratore speciale tutte le facolta’ previste dalla legge, nessuna esclusa, per l’espletamento del mandato”; il riferimento, oltre che al mandato difensivo, anche alla procura speciale per ottenere il risarcimento dei danni va dunque interpretato come conferimento del potere di costituirsi parte civile, cio’ che trova ulteriore conferma nel contestuale (ed altrimenti inspiegabile) potere “revocare la costituzione di parte civile” espressamente attribuito al procuratore;
– analoga la procura speciale (pure questa apposta in calce all’atto di costituzione e contenente, nell’intitolazione, il riferimento allo “atto di nomina a difensore della parte civile e contestuale procura speciale”) rilasciata dalla persona offesa (OMISSIS) all’avv. (OMISSIS), nel quale atto si legge altresi’ l’espresso riferimento all’articolo 78 c.p.p. (disposizione che disciplina le formalita’ di costituzione di parte civile), al mandato a “svolgere ogni azione a tutela dei diritti ed interessi civili della scrivente nella causa penale di cui sopra…revocare la costituzione di parte civile”.
Dovendosi applicare, peraltro, i principi civilistici in tema di interpretazione della volonta’ del conferente la procura speciale, laddove sussista il dubbio sull’effettiva portata della volonta’ della parte di esercitare in giudizio un’azione, lo stesso non puo’ tradursi in una pronuncia di inammissibilita’ dell’atto processuale per mancanza di procura speciale, ma va superato attribuendo alla parte la volonta’ che consenta all’atto di procura di produrre i suoi effetti, secondo il principio di conservazione dell’atto (articolo 1367 c.c.), di cui e’ espressione, a proposito degli atti del processo, l’articolo 159 c.p.c. (Cass. civ., Sez. U, n. 108 del 10/04/2000, Rv. 535477; Cass., Sez. 1, n. 4868 del 07/03/2006, Rv. 590744; sulla necessita’ di un’interpretazione non restrittiva e costituzionalmente orientata della procura finalizzata all’instaurazione di un giudizio, conferita al difensore al fine di esperire tutte le iniziative atte a tutelare l’interesse del proprio assistito, e della relativa normativa processuale, attuativa dei principi di economia processuale, di tutela del diritto di azione nonche’ di difesa della parte ex articoli 24 e 111 Cost., v. Cass. civ., Sez. U, n. 4909 del 14/03/2016, Rv. 639107).
7.2. Quanto alla contestazione del vizio di motivazione in ordine alla quantificazione del danno, la doglianza e’ inammissibile per manifesta infondatezza e genericita’.
Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, trattandosi di danno morale, la relativa quantificazione da parte del giudice, in quanto affidata ad apprezzamenti discrezionali ed equitativi, costituisce valutazione di fatto sottratta al sindacato di legittimita’ se sorretta da congrua motivazione (Sez. 6, n. 48461 del 28/11/2013, Fontana e aa., Rv. 258170) ed e’ censurabile in sede di legittimita’ sotto il profilo del vizio della motivazione, solo se essa difetti totalmente di giustificazione o si discosti macroscopicamente dai dati di comune esperienza o sia radicalmente contraddittoria (Sez. 5, n. 35104 del 22/06/2013, Baldini e aa., Rv. 257123).
La decisione di primo grado (pagg. 18 e 19) reca al proposito un’articolata motivazione che non viene in alcun modo censurata dal ricorrente e la Corte territoriale – condividendo per il resto la prudente quantificazione del primo giudice – ha ridotto l’entita’ del risarcimento del danno liquidato in favore di (OMISSIS) anche in correlazione alla ritenuta necessita’ di ridurre l’aumento di pena per la continuazione con il reato di maltrattamenti in famiglia.
8. Il ricorso, complessivamente infondato, va pertanto rigettato.
Segue ex lege la condanna dell’imputato alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle parti civili (OMISSIS) e (OMISSIS), entrambe ammesse al patrocinio a spese dello Stato, con conseguente necessita’ di disporne il pagamento in favore dell’Erario, dovendosi in questa sede pronunciare la sola condanna generica senza procedere alla liquidazione dei compensi, spettando questa al giudice che ha emesso la sentenza passata in giudicato in sede di emissione del decreto di pagamento ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 30 maggio 2002, n. 115, articoli 82 e 83 (come confermato, di recente, da Sez. U, sent. 26/09/2019 in procedimento De Falco).

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonche’ alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle parti civili (OMISSIS) e (OMISSIS), disponendone il pagamento in favore dello Stato.
Dispone, a norma del Decreto Legislativo 30 giugno 2003, n. 196, articolo 52, che – a tutela dei diritti o della dignita’ degli interessati – sia apposta a cura della cancelleria, sull’originale della sentenza, un’annotazione volta a precludere, in caso di riproduzione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalita’ di informazione giuridica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, l’indicazione delle generalita’ e degli altri dati identificativi degli interessati riportati sulla sentenza.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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