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Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza n. 22376 del 10 dicembre 2012

Svolgimento del processo

Con atto di citazione ritualmente notificato F.S. conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Roma gli avv.ti A.G. e S.F.G. per sentirli condannare al risarcimento dei danni derivatigli, per responsabilità dei convenuti, dall’esecuzione della sentenza della Corte dei Conti n. 37/94, e così al pagamento della somma di L. 652.870.400, oltre interessi dall’11.12.2000. A sostegno della domanda, l’attore esponeva di essere stato citato a giudizio, nella sua qualità di ex ministro, dinanzi alla Corte dei Conti per rispondere del danno procurato all’erario a seguito dell’utilizzo dell’immobile denominato “(omissis)”, sito in (omissis).

In particolare, era stato contestato al F. di avere concesso in locazione a personalità politiche, e comunque a soggetti scelti intuitu personae, a canoni non di mercato, gli appartamenti di cui si componeva il (omissis), appartamenti che avrebbero potuto invece essere destinati a sedi di importanti uffici pubblici o comunque essere ceduti in locazione per canoni adeguati al prestigio dell’immobile, classificato come di rilevante pregio storico ed artistico. In esito al giudizio contabile, il F., con sentenza n. 37/94 del 14.2.1994, era stato condannato al pagamento in favore dell’erario della somma di L. 337.622.000, oltre accessori e spese di giudizio. Avverso tale sentenza il F., assistito dagli avv.ti S.F.G. e A.G., aveva proposto appello con atto iscritto al n. 1641/SR/ A Reg. Seg. Con sentenza del 30.6.1998, tuttavia, le Sezioni Riunite della Corte dei Conti avevano dichiarato improcedibile l’appello per abbandono ai sensi dell’art. 75 T.U. 12.7.1934, n. 1214, per non essere stata richiesta la fissazione dell’udienza entro un anno dalla notificazione delle conclusioni del Procuratore Generale. Tale sentenza era impugnata con ricorso per revocazione, che era stato, però, dichiarato inammissibile a causa della non ravvisata sussistenza di errori di fatto nella sentenza impugnata. Entrambe le sentenze delle Sezioni Riunite della Corte dei Conti (quella sul gravame e quella sulla domanda di revocazione) erano state a loro volta impugnate con ricorso per cassazione. Il giudice di legittimità, tuttavia, mentre aveva rigettato il ricorso avverso la sentenza pronunciata sulla domanda di revocazione, aveva dichiarato inammissibile quello avverso la sentenza con la quale era stata dichiarata l’improcedibilità dell’appello per non essere stata prodotta, unitamente al ricorso, copia autentica della sentenza impugnata. Passata, quindi, in giudicato la sentenza di condanna n. 37/94, l’attore era stato costretto a versare all’erario la somma nel frattempo lievitata fino all’importo di f. 651.818.750. La condanna era, dunque, diretta conseguenza di un grave errore dei due difensori, che avevano lasciato perimere il giudizio di appello non depositando tempestivamente l’istanza di fissazione dell’udienza ed avevano determinato la declaratoria di improcedibilità del successivo ricorso per cassazione non curando, come dovuto, il deposito di copia autentica della sentenza impugnata. Entrambi ì convenuti si costituivano in giudizio negando la sussistenza dell’errore professionale e quella del nesso di causalità tra il loro comportamento e il danno lamentato dall’attore e chiedendo, dunque, il rigetto della domanda. Venivano chiamate in causa anche le rispettive compagnie di assicurazione, Assicurazioni Generali spa e Lloyd Adriatico spa, che si costituivano in giudizio aderendo sostanzialmente alle ragioni esposte dai convenuti. Espletata istruttoria, con sentenza in data 17.11.2004 il Tribunale respingeva la domanda condannando il F. alla rifusione delle spese di lite in favore dei convenuti. Avverso tale sentenza proponeva appello il soccombente, lamentando l’erroneità della decisione del Tribunale sotto diversi profili. Gli appellati si costituivano in giudizio per resistere al gravame di cui chiedevano il rigetto. S.F.G. proponeva altresì appello incidentale chiedendo, in via subordinata, l’accertamento dell’insussistenza di ogni sua responsabilità e, in ulteriore subordine, la condanna della compagnia di assicurazione a pagare direttamente all’attore quanto eventualmente dovuto a titolo di risarcimento o comunque a rivalere l’appellato delle somme che questi fosse stato condannato a versare direttamente all’appellante. Precisate le conclusioni, la causa era trattenuta in decisione.

In esito, la Corte di Appello di Roma con sentenza depositata in data 30 gennaio 2007 rigettava l’appello principale, assorbito quello incidentale. Avverso la detta sentenza il soccombente ha quindi proposto ricorso per cassazione articolato in due motivi. Resistono con controricorso l’Allianz Spa, le Generali Assicurazioni Spa, l’ A. nonchè S.F.G., il quale a sua volta ha proposto ricorso incidentale affidato ad un solo motivo. Hanno infine depositato memorie illustrative a norma dell’art. 372 c.p.c., l’Allianz Spa, l’ A. ed il F..

Motivi della decisione

In via preliminare, deve rilevarsi che il ricorso principale e quello incidentale sono stati riuniti, in quanto proposti avverso la stessa sentenza. Procedendo all’esame del ricorso principale, va rilevato che con la prima doglianza, articolata sotto il profilo della violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 e 1223 c.c., il ricorrente ha lamentato l’erroneità della decisione impugnata in quanto la Corte di Appello, chiamata a giudicare sull’errore professionale, avrebbe potuto escludere in radice il danno solo dopo aver accertato che non vi fosse alcuna ragionevole possibilità di un esito, anche solo in minima parte, favorevole all’impugnazione.
L’erroneità della decisione risulterebbe altresì – questo, il secondo fondamentale profilo di doglianza – dal fatto di aver ritenuto insussistente la responsabilità dei legali per effetto della mancata dimostrazione da parte del cliente del nesso eziologico tra inadempimento da parte dei legali e perdita di chance da parte dell’assistito, trascurando che l’attività del difensore, se svolta correttamente, avrebbe potuto invece consentire il raggiungimento di soluzioni transattive nell’ottica di un comportamento doveroso soprattutto nel caso in cui si tratti di perorare cause rischiose e difficili.
La doglianza è infondata in entrambi i suoi profili e non merita di essere accolta. A riguardo, mette conto di sottolineare introduttivamente che le ragioni della decisione si fondano, essenzialmente, sulla considerazione che “la mancata dimostrazione che l’esame nel merito dell’impugnazione avverso la sentenza n.37/94 della Corte dei Conti avrebbe garantito, con ragionevole certezza, un esito favorevole del giudizio, e dunque il difetto di prova in ordine al nesso eziologico tra i danni asseritamente subiti dal F. ed il comportamento degli attuali appellati, comporta(va), come ritenuto dal Tribunale, il rigetto della domanda risarcitoria” (cfr pag.10).
Ora, la tesi posta dalla Corte territoriale a base della propria decisione appare assolutamente in linea con l’orientamento, consolidato, di questa Corte, secondo la quale, l’affermazione di responsabilità del prestatore di opera intellettuale nei confronti del proprio cliente per negligente svolgimento dell’attività professionale implica una valutazione prognostica positiva – non necessariamente la certezza – circa il probabile esito favorevole del risultato della sua attività se la stessa fosse stata correttamente e diligentemente svolta.
Con la conseguenza che la mancanza di elementi probatori, atti a giustificare una valutazione prognostica positiva circa il probabile esito dell’attività del prestatore d’opera, induce ad escludere l’affermazione della responsabilità del legale, così come ha correttamente deciso nella fattispecie la Corte dì merito. Ciò, in quanto, la responsabilità dell’esercente la professione forense non può affermarsi per il solo fatto del mancato corretto adempimento dell’attività professionale, occorrendo verificare se, qualora l’avvocato avesse tenuto la condotta dovuta, il suo assistito avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando altrimenti la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del legale ed il risultato derivatone.

Ed invero, come ha già ha avuto modo di statuire questa Corte, in materia di contratto d’opera intellettuale, ove anche risulti provato l’inadempimento del professionista alla propria obbligazione, per negligente svolgimento della prestazione, il danno derivante da eventuali sue omissioni deve ritenersi sussistente solo qualora, sulla scorta di criteri probabilistici, sì accerti che, senza quell’omissione, il risultato sarebbe stato conseguito (tra le tante Cass. n.22026/04, Cass. n. 10966/04, Cass. n. 21894/04, Cass. n. 6967/06, Cass. n. 9917/2010).
Ora, è appena il caso di sottolineare che la relativa indagine, da svolgersi sulla scorta degli elementi di prova che il danneggiato ha l’onere di fornire in ordine al fondamento dell’azione proposta (tra le tante, cfr Cass. n. 16846/05, Cass. n. 12354/09), è riservata all’apprezzamento del giudice del merito, censurabile in sede di legittimità soltanto se non sia sorretta da una motivazione adeguata ed immune da vizi logici e giuridici (tra le tante Cass. n. 6967/06, n. 10966/04, Cass. n. 9917/2010).
A tal fine, il giudizio prognostico, che il giudice del merito deve compiere, non può che consistere in una valutazione volta a verificare se la pretesa azionata a suo tempo, senza la negligenza e/o l’imperizia del legale, sarebbe stata in termini probabilistici ritenuta fondata e se il risultato sarebbe stato diverso e più favorevole al patrocinato. A riguardo, vale la pena di evidenziare che i giudici dì secondo grado hanno concluso il loro percorso argomentativo richiamando per l’appunto l’attenzione sul rilievo che in effetti il F. non aveva offerto alcun elemento che potesse indurre a ritenere che, qualora il ricorso in appello fosse stato esaminato nel merito, il gravame sarebbe stato accolto o comunque vi sarebbero state fondate probabilità di ottenere una riduzione dell’importo liquidato in primo grado (cfr pag. 8 della sentenza impugnata).
La conclusione riportata merita di essere condivisa anche con riferimento al secondo profilo di doglianza, svolto in questa sede, con il corredo di qualche ulteriore considerazione.
A tal fine, torna opportuno sottolineare che la perdita di una chance, intesa quest’ultima come mera eventualità astratta, non è di per sè risarcibile, acquistando invece valenza risarcitoria solo se sia verificabile in termini di ragionevole probabilità nel caso concreto e sempre che tale perdita sia eziologicamente riconducibile al comportamento del terzo.
Il principio generale quindi è che la lesione di un diritto deve tradursi in un concreto pregiudizio, senza il quale la pretesa risarcitoria mancherebbe di oggetto. Con la conseguenza che l’accoglimento della domanda di risarcimento del danno da lucro cessante o da perdita di “chance” esige la prova, anche presuntiva, nella specie assolutamente non fornita dal ricorrente, dell’esistenza di elementi oggettivi e certi dai quali desumere, in termini di certezza o di elevata probabilità e non di mera potenzialità, l’esistenza di un pregiudizio economicamente valutabile (cfr, Cass. n. 15385/2011).

Ne deriva l’infondatezza anche del secondo profilo della censura in esame.
Passando all’esame della seconda ragione di doglianza, articolata sotto il profilo della motivazione omessa, insufficiente e contraddittoria su fatti controversi e decisivi per il giudizio,va osservato che il ricorrente lamenta in particolare che la Corte di merito avrebbe omesso di esaminare alcune ragioni di censura, riguardanti gli oneri di ristrutturazione a carico dei concessionari, il mancato perfezionamento e la rivedibilità della concessione) ed avrebbe inoltre trascurato alcuni elementi-utili alla valutazione sul possibile fondamento, e in specie, tra questi, la sentenza del Tribunale di Roma che aveva individuato il valore di mercato del “canone” in misura pari alla metà del “canone” presupposto dalla sentenza di condanna per danno erariale (e ciò sulla base della valutazione dell’U.T.E. del 1994, rispetto alla precedente valutazione dello stesso U.T.E. del 1992 su cui si basava la sentenza dì condanna). La censura è inammissibile. A riguardo, mette conto di sottolineare che le ragioni di doglianza formulate, come risulta di ovvia evidenza dal loro stesso contenuto e dalle espressioni usate, non evidenziano effettive carenze o contraddizioni nel percorso motivazionale della sentenza impugnata ma concernono la valutazione della realtà fattuale, come è stata operata dalla Corte di merito, deducendo anche circostanze inesatte (la Corte di merito ha ben preso in considerazione la, sentenza del Tribunale di Roma n. 18792/05: cfr pag.9; così come ha esaminato, sostanzialmente, i profili relativi al mancato perfezionamento ed alla rivedibilità delle convenzioni: cfr ancora pag. 9).
Pertanto, a ben vedere, il ricorrente, pur denunciando, formalmente, il vizio di motivazione della sentenza di secondo grado, nella sostanza delle cose, si è limitato a contestare l’interpretazione e la valutazione delle risultanze probatorie data dalla Corte territoriale, le opzioni da essa espresse, non condivise e per ciò solo censurate, al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone alle proprie aspettative mirando, in effetti, a sollecitare inammissibilmente, una nuova valutazione delle risultanze processuali e mostrando così di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito. Ne deriva l’inammissibilità della doglianza in esame.
Considerato che la sentenza impugnata appare esente dalle censure dedotte, ne consegue che il ricorso principale in esame, proposto dal F., siccome infondato, deve essere rigettato.
Il rigetto del ricorso principale comporta l’assorbimento del ricorso incidentale condizionato, con cui deducendo la violazione degli artt. 1176 e 2236 c.c., art. 112 c.p.c., l’avv. S. ha lamentato la mancata considerazione dell’assenza dell’errore professionale e dei relativi suoi presupposti, l’omessa valutazione del R.D. n. 1214 del 1934, art. 75, e dei principi in tema di attività processuale, l’erronea valutazione dell’art. 369 c.p.c., e la falsa applicazione dell’art. 2714 c.c., concludendo per la conferma della sentenza di prime cure, senza formulare alcun quesito di diritto.
Alla stregua di tutte le pregresse considerazioni, deve pertanto rigettarsi il ricorso proposto in via principale, assorbito il ricorso incidentale condizionato. Sussistono giusti motivi di compensazione delle spese di questo giudizio di legittimità tra le parti costituite in considerazione della complessità e della delicatezza delle questioni trattate.

P.Q.M.

La Corte decidendo sui ricorsi riuniti rigetta il ricorso principale, assorbito quello incidentale condizionato. Compensa le spese di questo giudizio di legittimità tra le parti costituite.

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