Ai fini dell’integrazione del reato di cui all’art. 727 cod. pen., non è necessario che l’animale riporti una lesione all’integrità fisica, potendo la sofferenza consistere anche soltanto in meri patimenti, la cui inflizione sia non necessaria in rapporto alle esigenze della custodia e dell’allevamento dello stesso.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III PENALE
SENTENZA 1 marzo 2017, n. 10009
Ritenuto in fatto
Con sentenza in data 20/04/2015 del Tribunale di Busto Arsizio, P.M. fu condannata alla pena, condizionalmente sospesa, di 2.000,00 Euro di ammenda in quanto riconosciuta colpevole, con le attenuanti generiche, della contravvenzione di cui all’art. 727 cod. pen., commessa il (omissis) .
Secondo quanto era, infatti, emerso nel corso del giudizio di primo grado, l’imputata si era resa responsabile di avere mantenuto, all’interno di un locale chiuso concesso in comodato d’uso, 25 gatti selvatici e un cavallo, in condizioni ambientali incompatibili con la natura degli stessi animali, a causa delle quali essi avevano patito gravi sofferenze. Ciò in quanto, da un lato, il locale si trovava in pessime condizioni igieniche, con il pavimento completamente imbrattato di feci e di urina frammiste a segatura e sporcizia varia, tali da provocare esalazioni ammoniacali urticanti ed a contaminare il cibo e l’acqua, sicché i felini presenti, già sofferenti in considerazione dello stato di cattività nel quale erano stati costretti nonostante la loro abitudine a vivere in una condizione di libertà, avevano patito rilevanti sofferenze fisio-psichiche; dall’altro lato, il cavallo presentava uno stato di marcata sofferenza fisica legato alla mancata somministrazione di antidolorifici e alla mancata adozione di misure ortopediche, quali un’adeguata ferratura agli zoccoli anteriori, atte a lenire il dolore derivante dalla grave zoppia che lo affliggeva.
Avverso la predetta sentenza P.M. ha proposto ricorso per cassazione, a mezzo del proprio difensore fiduciario, denunciando, ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen., l’erronea applicazione della legge processuale penale in relazione all’art. 192 cod. proc. pen., nonché l’illogicità e contraddittorietà della motivazione in relazione alla prova dei fatti ascritti all’imputata; ed ancora l’erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 727, comma 2, cod. pen..
Sotto un primo profilo, la ricorrente sottolinea che alcuni dei gatti rinvenuti nel locale sarebbero stati animali domestici, in parte di proprietà della stessa P. , in parte di altri abitanti della cascina M. , ove gli animali erano ricoverati, sicché la circostanza che essi fossero custoditi in un ambiente chiuso, non configurerebbe alcun vulnus alla loro natura.
Sotto un altro aspetto, la riscontrata fobia di alcuni dei felini in occasione dell’accesso del personale della A.S.L. sarebbe potuta essere riconducibile non tanto ad una condizione di sofferenza, come invece argomentato nella pronuncia impugnata, quanto piuttosto alla loro natura di animali selvatici, come tali non abituati al contatto con l’uomo. Una condizione, questa, che sarebbe stata comune anche agli animali domestici, scarsamente adusi a contatti diretti con persone diverse da quelle dei loro proprietari.
Ancora: nessuna prova sarebbe stata acquisita in ordine al rapporto di derivazione causale tra la condizione in cui venivano custoditi e le patologie (malattie respiratorie e A.I.D.S. felino) dalle quali alcuni esemplari erano risultati affetti, essendo del tutto plausibile che tali affezioni pre-esistessero al loro ricovero presso il locale e che fossero riconducibili proprio alla accertata condizione di randagismo. Inoltre, l’accoglienza dei felini all’interno del locale, lungi dal configurarsi come uno sterile esercizio di crudeltà nei confronti degli animali, sarebbe stata giustificata proprio dalla necessità di salvarli dai pericoli, non ultimo quello di essere uccisi dal proprietario della cascina, M.V. , il quale aveva minacciato di eliminarli a causa della situazione di rischio per gli altri animali che la loro presenza avrebbe determinato.
Quanto, poi, alle condizioni igieniche, esse sarebbero state non molto diverse da quelle nelle quali, ordinariamente, vivrebbero i gatti randagi nonché dalle condizioni che si rinverrebbero nelle stalle, in specie in quelle in cui sono allestiti allevamenti bovini, sicché, anche sotto tale profilo, il reato contestato sarebbe insussistente, tanto più che gli animali venivano sfamati quotidianamente e che erano stati adottati alcuni accorgimenti (quali segatura, paglia e fieno) per tenere pulito il luogo.
Con riferimento, infine, al cavallo, nel corso dell’istruttoria sarebbe pacificamente emerso che l’animale era affetto da una patologia ingravescente ed incurabile, la cui unica alternativa sarebbe stata quella di sopprimerlo. Inoltre, ove si fosse provveduto a somministrargli l’antidolorifico, il cavallo, non avvertendo dolore, avrebbe potuto assumere posizioni non corrette che avrebbero potuto aggravare ulteriormente la sua già precaria condizione; sicché, in definitiva, la decisione di sospendere il trattamento farmacologico sarebbe stata corretta. In ogni caso l’animale non sarebbe stato abbandonato, essendo pacificamente emerso che esso riceveva una adeguata alimentazione ed era sufficientemente curato.
Considerato in diritto
Il ricorso è infondato.
L’art. 727 cod. pen., rubricato ‘abbandono di animali’, punisce, al comma 2, la condotta di colui il quale ‘detiene animali in condizioni incompatibili con la loro natura, e produttive di gravi sofferenze’.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, il reato in questione è integrato dalla condotta, anche occasionale e non riferibile al proprietario (Sez. 3, Ordinanza n. 6415 del 18/01/2006, dep. 21/02/2006, Bollecchino, Rv. 233307), di detenzione degli animali con modalità tali da arrecare agli stessi gravi sofferenze, incompatibili con la loro natura, avuto riguardo, per le specie più note (quali, ad esempio, gli animali domestici), al patrimonio di comune esperienza e conoscenza e, per le altre, alle acquisizioni delle scienze naturali (Sez. 3, n. 6829 del 17/12/2014, dep. 17/02/2015, Garnero, Rv. 262529; Sez. 3, n. 37859 del 4/06/2014, dep. 16/09/2014, Rainoldi e altro, Rv. 260184). Dunque, ai fini dell’integrazione del reato in esame non è necessario che l’animale riporti una lesione all’integrità fisica, potendo la sofferenza consistere anche soltanto in meri patimenti (Sez. 3, n. 175 del 13/11/2007, dep. 7/01/2008, Mollaian, Rv. 238602), la cui inflizione sia non necessaria in rapporto alle esigenze della custodia e dell’allevamento dello stesso (Sez. 3, n. 28700 del 20/05/2004, dep. 1/07/2004, Fiorentino, Rv. 229431).
La condotta in esame, peraltro, può essere integrata anche con una condotta colposa del soggetto agente (Sez. 3, n. 21744 del 26/04/2005, dep. 9/06/2005, P.M. in proc. Duranti ed altri, Rv. 231652), trattandosi di contravvenzione non necessariamente dolosa (Sez. 3, n. 32837 del 16/06/2005, dep. 2/09/2005, Vella, Rv. 232196).
La sentenza impugnata si è mossa nell’ambito della menzionata cornice giurisprudenziale di riferimento, esplicitando, in maniera puntuale, le ragioni per le quali i fatti emersi all’esito dell’approfondita istruttoria sono stati ritenuti sussumibili nella fattispecie contestata.
Le censure mosse dalla ricorrente, invero, configurano, in diversi passaggi, il tentativo di accreditare ipotesi alternative di ricostruzione degli elementi di fatto della vicenda. È il caso, innanzitutto, dell’allegazione secondo cui alcuni dei gatti rinvenuti nel locale sarebbero stati animali domestici, sicché la circostanza che essi fossero custoditi in un ambiente chiuso, non configurerebbe alcuna violazione della loro natura. Ed è il caso dell’affermazione secondo cui la fobia manifestata da alcuni dei felini in occasione dell’accesso del personale della A.S.L. sarebbe potuta essere riconducibile non ad una condizione di sofferenza dei gatti, quanto piuttosto alla loro natura di animali selvatici.
È di tutta evidenza come tali prospettazioni, fondate su congetture o ipotetiche ricostruzioni della vicenda fattuale, non possano ammettersi in una sede quale quella del giudizio di legittimità, funzionalmente deputata al controllo sulla logicità del percorso argomentativo seguito dai giudici di merito per giustificare la propria decisione. Costituisce, infatti, principio ormai consolidato alla elaborazione di questa Corte quello secondo cui al giudice di legittimità non è consentito ipotizzare alternative opzioni ricostruttive della vicenda fattuale, sovrapponendo la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi, saggiando la tenuta logica della pronuncia portata alla sua cognizione mediante un raffronto tra l’apparato argomentativo che la sorregge ed eventuali altri modelli di ragionamento mutuati dall’esterno (Sez. Un., n. 12 del 31/05/2000, Jakani, Rv. 216260; in termini v. Sez. 2, n. 20806 del 5/05/2011, Tosto, Rv. 250362).
Sostanzialmente inconferenti, sul piano logico, sono poi le considerazioni difensive secondo cui l’accoglienza dei felini all’interno del locale avrebbe rappresentato una misura dettata a salvaguardia degli stessi, dinnanzi alle plurime fonti di pericolo per la loro incolumità. Ciò che, infatti, è stato contestato ed ha condotto il primo giudice ad affermare la responsabilità dell’imputata per il reato ascrittole non va individuato nell’aver allestito un riparo per gli animali, quanto nell’aver predisposto un locale chiuso, nel quale non venivano assicurati i necessari interventi di pulizia, diretti a impedire che dalla fermentazione delle deiezioni e, comunque, dalle emissioni organiche, potessero derivare, come invece accertato, affezioni delle vie respiratorie o irritazioni alle mucose, in specie degli occhi dei gatti (v. la deposizione della dott.ssa Franco riportata, in sintesi, a pag. 4 della sentenza). Ed altrettanto è a dirsi con riguardo alla affermazione secondo cui le condizioni igieniche riscontrate nel locale, sarebbero state simili a quelle in cui sarebbero soliti vivere i gatti randagi nonché alle condizioni che, ordinariamente, si rinverrebbero nelle stalle. Tale affermazione, fondata su evanescenti massime di esperienza, postula in ogni caso un accertamento in fatto che il giudice di merito ha, comunque, effettuato, anche sulla scorta del chiaro tenore delle dichiarazioni rese dal personale della A.S.L., sottolineando come le condizioni igieniche fossero assolutamente compromesse (si veda, ancora, quanto dichiarato dalla dott.ssa Franco, secondo cui l’aria, nel locale, era irrespirabile e non consentiva di tenere gli occhi aperti) e come, da tale situazione, fossero conseguite le già richiamate affezioni respiratorie e, all’un tempo, la condizione di fortissimo disagio degli animali, estremamente reattivi e fobici. Sotto questo profilo, peraltro, assume ben poco rilievo la circostanza che, come correttamente sottolineato dal ricorso, non sia stata adeguatamente ricostruita l’eziologia dell’A.I.D.S. felina, richiamata, per la prima volta, dal giudice di merito a pag. 8 della sentenza come dato di fatto adeguatamente riscontrato, sia pure per alcuni soltanto degli esemplari, e apoditticamente posto in relazione alla situazione di stress e di promiscuità degli animali. Infatti, la già sottolineata condizione dei felini doveva ritenersi sufficiente a integrare la fattispecie contestata, indipendentemente dalla eventuale presenza della predetta sindrome immunodepressiva.
3.1. Le considerazioni che precedono possono essere riproposte anche con riferimento al cavallo rinvenuto nel medesimo locale, rispetto al quale si eccepisce che l’animale non sarebbe stato abbandonato, dal momento che lo stesso avrebbe ricevuto una adeguata alimentazione e sarebbe stato sufficientemente curato.
Tale circostanza, pur dimostrata, non oblitera, tuttavia, il dato relativo alla mancata somministrazione dell’antidolorifico, da cui era derivata, per l’esemplare equino, una pacifica condizione di forte sofferenza fisica, suscettibile di integrare la contravvenzione contestata. Non determinante è, in proposito, l’argomento difensivo secondo cui ove gli fosse stato somministrato il trattamento farmacologico, il cavallo, non avvertendo dolore, avrebbe potuto assumere posizioni non corrette che avrebbero potuto aggravare ulteriormente la sua già precaria condizione. Ciò in quanto, come osservato in sentenza, sarebbe stato possibile applicare, unitamente al predetto trattamento, la ferratura ortopedica, con ciò consentendo una equilibrata distribuzione del peso dell’animale e, corrispondentemente, una attenuazione dei forti dolori che lo affliggevano. Ciò che, come detto, l’imputata colpevolmente non fece, sottoponendo anche l’esemplare equino ad una forte afflizione fisica, suscettibile di integrare il reato di cui all’art. 727 cod. pen. come interpretato alla luce dei ricordati orientamenti giurisprudenziali.
Conclusivamente, a fronte della evidenziata infondatezza delle doglianze dedotte, il ricorso deve essere rigettato, con condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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