Corte di Cassazione
Suprema Corte di Cassazione

sezioni unite

sentenza 15 maggio 2015, n. 9935

Svolgimento del processo

Con sentenza del 30 gennaio 2013 il Tribunale di Venezia dichiarava il fallimento della Musa Immobiliare s.r.l. e, con separato decreto reso in pari data, dichiarava inammissibile la proposta di concordato preventivo con riserva formulata dalla predetta società, osservando che la proposta era priva di petitum e causa petendi e, comunque, non recava le indicazioni delle ragioni economiche, finanziarie e patrimoniali dell’istanza. Avverso i due provvedimenti, la società fallita interponeva reclamo alla Corte d’appello di Venezia contestando essenzialmente la decisione relativa all’inammissibilità della domanda di concordato con riserva.
Con sentenza dei 4 giugno 2013, la Corte d’appello di Venezia annullava il decreto del Tribunale e, conseguentemente, revocava il fallimento della Musa Immobiliare s.r.l., affermando l’ammissibilità del ricorso ex art. 161, comma 6, l. fall., proposto dalla società in bonis, poiché in esso era ben indicato il petitum (ovvero l’apertura del procedimento di concordato preventivo con la concessione dei termini previsti dalla legge) mentre la causa petendi (ovvero lo stato di insolvenza) era ben nota al Tribunale, che trattava contemporaneamente l’udienza prefallimentare; d’altro canto, infine, la domanda di concordato con riserva non doveva contenere, come aveva invece ritenuto il Tribunale, l’indicazione delle “ragioni alla base della domanda avuto riguardo alla condizione economica, finanziaria e patrimoniale dell’istante”.
Avverso la sentenza della Corte d’appello di Venezia il fallimento della Musa Immobiliare s.r.l. ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi. La fallita società ed il creditore istante non. hanno svolto attività difensiva.
La sesta sezione civile, sottosezione prima, con ordinanza interlocutoria n. 22221 del 20 ottobre 2014 ha rimesso gli atti al Primo Presidente, rilevando che il quarto motivo di ricorso propone la questione del rapporto tra i procedimenti di concordato preventivo e di fallimento, già rimessa all’esame delle sezioni unite a seguito dell’ordinanza interlocutoria n. 9476 del 30 aprile 2014, con la quale la Prima sezione civile della Corte ha segnalato il proprio orientamento in potenziale contrasto con i principi affermati dalle sezioni unite con la sentenza n. 1521 del 23 gennaio 2013. Il Primo Presidente ha assegnato, quindi, anche questa causa alle sezioni unite.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo di ricorso, la curatela si duole del fatto che la Corte di appello non aveva rilevato che il reclamo era inammissibile per carenza di interesse in quanto verteva unicamente su ragioni processuali, senza involgere questioni attinenti alla sussistenza dei presupposti, soggettivi ed oggettivi, per la dichiarazione di fallimento.
Con il secondo motivo si lamenta la mancata pronunzia sulla eccezione di inammissibilità del reclamo per la deduzione di meri motivi di rito.
Con il terzo motivo il fallimento deduce il mancato rilievo del difetto di interesse a proporre un reclamo col quale non erano contestati i presupposti della dichiarazione di fallimento.
Con il quarto motivo la curatela contesta la rilevanza di quella ragione processuale, vale a dire la ritenuta ammissibilità della domanda di concordato preventivo con riserva, che aveva condotto la Corte d’appello ad accogliere il reclamo; a tal fine osserva che la proposizione della domanda di concordato non fa venire meno automaticamente la possibilità di dichiarare il fallimento, poiché al tribunale deve essere riconosciuto, come affermato dalle sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza n. 1521 del 23 gennaio 2013, il potere di bilanciare gli opposti interessi, coordinando quello del debitore, che chiede di essere ammesso al concordato preventivo, con gli interessi sottostanti alla procedura fallimentare; ciò al fine di evitare abusi, non essendo attribuita al debitore la facoltà di disporre unilateralmente e potestativamente dei tempi del procedimento fallimentare, paralizzando così le possibili iniziative recuperatorie del curatore.
2. Il quarto motivo, per ragioni di ordine logico, deve essere esaminato per primo poiché soltanto dopo avere risolto la questione del rapporto tra le procedure si può valutare l’interesse ad impugnare la sentenza dichiarativa di fallimento per ragioni attinenti alla dichiarazione di inammissibilità della domanda di concordato. Il motivo è infondato.
Il tema dei rapporti tra procedimento prefallimentare e procedimento di concordato preventivo è stato affrontato dalla richiamata sentenza n. 1521 del 23 gennaio 2013, in una situazione nella quale il fallimento dell’imprenditore era stato dichiarato dopo il diniego di omologazione della sua domanda di concordato preventivo ed il tema in questione era stato prospettato sotto il peculiare profilo della necessità o meno di attendere la definizione dell’impugnazione, avverso il diniego di omologazione del concordato, prima di dichiarare il fallimento; nella fattispecie esaminata, pertanto il c.d. principio di prevenzione aveva trovato pratica applicazione nella fase di primo grado e si discuteva soltanto se dovesse trovare applicazione anche nella fase dell’impugnazione. La motivazione seguita nell’occasione dalla Corte aveva, tuttavia, una portata più ampia di quella del caso deciso, poiché conduceva a negare in assoluto la permanenza nel nostro ordinamento del c.d. principio di prevenzione.
Nella parte che interessa, la sentenza n. 1521/2013, dopo avere dato rilievo alla eliminazione, nel corpo del primo comma dell’art. 160 l. fall., dell’inciso (“fino a che il suo fallimento non è dichiarato”) cui tradizionalmente si ancorava l’affermazione del criterio della prevenzione, ha svolto le seguenti considerazioni: “non ricorre certamente nella specie un’ipotesi di pregiudizialità necessaria, atteso che: non sono sovrapponibili le situazioni esaminate nelle due distinte procedure di fallimento e di concordato (C. 11/3059); la, sospensione è istituto eccezionale che incide in termini limitativi rispetto all’esercizio del diritto di azione, e che pertanto può trovare applicazione soltanto quando la situazione sostanziale dedotta nel processo pregiudicante rappresenti il fatto costitutivo di quella dedotta nella causa pregiudicata (C. 03/14670), ipotesi non ricorrente nel caso in esame; il vigente codice di rito esclude casi di sospensione discrezionale e non prevede inoltre casi di sospensione impropria o atecnica. Al contrario, deve invece ritenersi che il rapporto tra concordato preventivo e fallimento si atteggi come un fenomeno di conseguenzialità (eventuale del fallimento, all’esito negativo della procedura di concordato) e di assorbimento (dei vizi del provvedimento di rigetto in motivi di impugnazione del successivo fallimento), che determina una mera esigenza di coordinamento fra i due procedimenti (C. 11/3059). Ne consegue ulteriormente che la facoltà per il debitore di proporre una procedura concorsuale alternativa al suo fallimento non rappresenta un fatto impeditivo alla relativa dichiarazione (C. 12/18190, C. 09/19214), ma una semplice esplicazione del diritto di difesa del debitore, che non potrebbe comunque disporre unilateralmente e potestativamente dei tempi del procedimento fallimentare, venendo così a paralizzare le iniziative recuperatorie del curatore (C. 18190 cit., C. 97/10383) e ad incidere negativamente sul principio costituzionale della ragionevole durata del processo. La conseguenzialità logica tra le due procedure non si traduce dunque anche in una conseguenzialità procedimentale, ferma restando la connessione fra l’eventuale decreto di rigetto del ricorso per concordato e la successiva conseguenziale sentenza di fallimento, anche se non emessa contestualmente al primo provvedimento, dovendosi in tal caso farsi valere i vizi del decreto mediante l’impugnazione della sentenza di fallimento (C. 11/3586, C. 08/9743)”.
3. Il superamento del principio di prevenzione (West di prevalenza del concordato preventivo) e la sussistenza di una mera esigenza di coordinamento tra la procedura di concordato preventivo e quella prefallimentare non sono state condivise dalla citata ordinanza interlocutoria n. 9476 del 30 aprile 2014, secondo cui la perdurante vigenza del predetto principio è “ricavabile dal sistema, il quale attribuisce al concordato preventivo la funzione di prevenire – appunto – il fallimento attraverso una soluzione alternativa basata sull’accordo del debitore con la maggioranza dei creditori. Tale funzione preventiva comporta sta che, prima di dichiarare il fallimento, debba necessariamente essere esaminata l’eventuale domanda di concordato presentata dal debitore, per far luogo, poi, alla dichiarazione del fallimento solo in caso di mancata apertura della procedura minore; sta che, una volta aperta quest’ultima ai sensi dell’art. 163 legge fallim., il fallimento non possa più essere dichiarato sino alla conclusione di essa in senso negativo, ossia con la mancata approvazione ai sensi dell’art. 179, il rigetto ai sensi dell’art. 180, u.c., ovvero la revoca dell’ammissione ai sensi dell’art. 173”.
Tali conclusioni, secondo la predetta ordinanza, troverebbero conferma in espresse disposizioni della legge fallimentare, specie se lette alla luce della indicata funzione del concordato preventivo. “Così l’art. 162, comma 2, (cui rinvia anche il richiamato art. 179) consente la dichiarazione di fallimento, su istanza del creditore o su richiesta del pubblico ministero, soltanto a seguito della declaratoria d’inammissibilità della proposta di concordato, e nulla autorizza a pensare che il legislatore abbia inteso riferirsi esclusivamente all’istanza o richiesta sopraggiunte alla declaratoria stessa e non anche a quelle eventualmente già presentate in precedenza; tanto più che sembra doversi ritenere che la dichiarazione del fallimento sia consentita anche all’esito dell’unica audizione del debitore prevista dal medesimo comma (audizione da estendere ovviamente, per completezza di contraddittorio, all’esame anche dell’istanza o richiesta di fallimento, oltre che della domanda di concordato), necessariamente anteriore alla declaratoria d’inammissibilità; la quale, infine, ben può essere contenuta nella medesima sentenza dichiarativa del fallimento (Cass. 12986/2009), a conferma della ordinaria contestualità dei due procedimenti volti rispettivamente alla declaratoria d’inammissibilità del concordato e alla dichiarazione del fallimento. Alla stessa maniera l’art. 180, u.c., consente la dichiarazione del fallimento soltanto se il tribunale respinge il concordato, dunque non prima di ciò e non al di fuori della relativa procedura. E analogamente dispone anche l’art. 173. Infine, l’art. 161, comma 10 (introdotto dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134), prevede, per l’ipotesi di presentazione della domanda di concordato con riserva in pendenza di procedimento per la dichiarazione di fallimento, una riduzione del termine per sciogliere la riserva stessa: prevede, in altri termini, un’accelerazione dei tempi della definizione della procedura relativa alla domanda di concordato, in considerazione della pendenza del procedimento prefallimentare, che non avrebbe ragion d’essere se il fallimento potesse essere dichiarato anche prima della decisione sulla procedura minore. Né va sottaciuta l’attenzione prestata dal legislatore, nel riformare la legge fallimentare, agli effetti protettivi della domanda di concordato. L’anticipazione della decorrenza dei termini di cui agli artt. 64 e 65, art. 67, commi 1 e 2 e art. 69 alla pubblicazione di tale domanda in ogni caso in cui ad essa segua la dichiarazione di fallimento – dunque anche in caso di inammissibilità della domanda stessa – ai sensi dell’art. 69 bis, comma 2 (inserito dal già richiamato D.L. n. 83 del 2012), e l’estensione degli effetti della presentazione di quest’ultima a quelli previsti dall’art. 45, ai sensi dell’art. 169 novellato, impediscono che il ritardo nella dichiarazione del fallimento, derivante dalla necessità del previo esame della domanda di concordato, incida negativamente sulla par condicio creditorum e confermano, ai tempo stesso, l’intenzione del legislatore di mantenere la necessità di tale esame preventivo”.
4. Si deve anzitutto escludere che la soluzione delle questioni in tema di rapporti tra la procedura prefallimentare e quella di concordato preventivo possa essere influenzata dall’eliminazione dell’inciso già contenuto nell’art. 160, comma 1, l. fall. Invero, continua ad essere tuttora evidente che l’imprenditore può presentare domanda di concordato preventivo soltanto “fino a che il suo fallimento non è dichiarato” e che, per l’assenza di un effetto prenotativo, la presentazione di una istanza di fallimento non preclude all’imprenditore la possibilità di presentare domanda di concordato. In realtà, l’inciso, che era ridondante e sostanzialmente neutro rispetto all’ordine di trattazione delle procedure, dopo la riforma sarebbe stato incoerente con l’individuazione del presupposto della procedura di concordato nello stato di crisi e non necessariamente di insolvenza.
Piuttosto, le novità che possono suscitare perplessità sulla permanenza del principio di prevenzione sono rappresentate dalla abrogazione, anche nel corso della procedura di concordato preventivo, del fallimento d’ufficio e dal venire meno della identità del presupposto delle due procedure. Infatti, la possibilità che il tribunale, indipendentemente da una istanza, dichiarasse il fallimento nel corso del procedimento di concordato, da un lato, rendeva immanente l’esito alternativo del fallimento e, dall’altro, lo agganciava ad un incidente di percorso del procedimento, che pertanto doveva avere un esito negativo perché potesse essere dichiarato il fallimento.
Peraltro, neppure l’abrogazione del fallimento d’ufficio e la diversificazione dei presupposti delle due procedure consentono di per sé di affermare il superamento del principio di prevenzione con il quale non sono incompatibili. Perciò, quando la crisi che il debitore chiede di regolare con il concordato preventivo ha i connotati di uno stato di insolvenza e quando uno o più creditori chiedono di regolare la stessa crisi con la procedura fallimentare, non è precluso chiedersi se alla non discussa priorità logica del concordato preventivo, quale procedura diretta a prevenire la dichiarazione di fallimento, corrisponda la permanenza del principio di prevenzione.
In questo senso, come riferito, si è espressa la citata ordinanza n. 9476/2014, svolgendo i sopra riportati rilievi: anche se dopo la riforma è necessaria l’istanza dei creditori o la richiesta del pubblico ministero, resta fermo che la dichiarazione di fallimento, nelle ipotesi previste dagli artt. 162, 173, 169 e 180 l. fall., presuppone rispettivamente l’inammissibilità della domanda di concordato, la revoca dell’ammissione alla procedura, la mancata approvazione della proposta e la mancata omologazione e perciò, sempre, il previo esaurimento del procedimento di concordato. Una parte della dottrina, tuttavia, rileva esattamente che la lettera delle richiamate disposizioni non si esprime sull’ordine di trattazione delle procedure, ma afferma soltanto la necessità di una istanza o di una richiesta di fallimento, per procedere alla relativa dichiarazione, dopo l’esito negativo del procedimento di concordato. Ci si deve perciò chiedere se le disposizioni in questione rappresentino o meno il momento di emersione a livello normativo della possibilità di dichiarare il fallimento solo dopo l’esaurimento della procedura di concordato e, quindi, della scelta del legislatore quanto all’ordine di trattazione delle procedure. Di tale scelta, però, per poterla affermare, si devono trovare riscontri nel complessivo sistema delineato dal legislatore.
Una conferma, contrariamente a quanto sostenuto da parte della dottrina, non può essere rinvenuta nel disposto dell’art. 168, primo comma, l. fall., poiché sembra doversi dare risposta negativa all’interrogativo se il divieto per i creditori, ivi disposto, di iniziare o proseguire azioni esecutive sul patrimonio del debitore sia comprensivo o meno anche dell’istanza di fallimento, considerato l’effetto di pignoramento generale prodotto dalla sentenza che l’accoglie. La disposizione, infatti, è diretta a non alterare la par condicio creditorum in pendenza della procedura di concordato e, quindi, ad essa non si può ricondurre l’impedimento all’apertura della procedura di fallimento, che è diretta a realizzare proprio la par condicio. Inoltre, la disposizione fa riferimento all’iniziativa del creditore e ciò comporta, da un lato, la mancata previsione di analogo divieto per l’iniziativa del pubblico ministero e, dall’altro, la difficoltà di attribuire all’iniziativa del creditore il carattere anche esecutivo proprio della sentenza di fallimento. Ciò che conta, tuttavia, è che comunque la citata disposizione, accogliendo la soluzione negativa, diventa neutra rispetto al problema in esame e non consente di fondare su di essa argomenti contrari alla necessità del previo esaurimento della procedura di concordato.
5. Dopo la riforma non solo il concordato preventivo ha mantenuto la funzione di prevenire il fallimento attraverso una soluzione alternativa della crisi, ma tale funzione viene svolta con un accentuato carattere negoziale dell’istituto e con un ridimensionamento dei connotati pubblicistici: è affidata perciò soltanto ai creditori, sia pure sulla base di una informazione la cui correttezza e completezza è controllata dal tribunale (Cass. 9 maggio 2013, n. 11014; Cass. 27 maggio 2013, n. 13083), la valutazione di convenienza della proposta di concordato e della fattibilità economica del relativo piano, restando consentita al tribunale solo la valutazione della fattibilità giuridica, anche sotto il profilo della idoneità ad assicurare il soddisfacimento della causa della procedura (Cass. s.u. n. 1521/2013 cit. e la successiva giurisprudenza di questa Corte). Con tale quadro non è compatibile l’idea che il coordinamento tra i due procedimenti, pacificamente indispensabile per l’identità della crisi da regolare, sia affidato alla discrezionalità del tribunale, al quale, se sono sottratte le valutazioni di convenienza e di fattibilità nel merito, non può che essere sottratta anche la possibilità di provvedere ad un bilanciamento degli interessi coinvolti dalla scelta tra concordato preventivo e fallimento. Né, tantomeno, può accettarsi l’idea, prospettata in dottrina, di una competizione tra le procedure da risolvere decidendo per prima quella che per prima giunge a maturità istruttoria. Ciò non tanto perché i tempi delle procedure, quando non sono affidati al caso, sono pur sempre regolati dal tribunale, ma perché la soluzione proposta, da un lato, suppone che un ordine di trattazione non sia stabilito dal legislatore né demandato al tribunale e, dall’altro, è capace di condurre a risultati paradossali come l’apertura del fallimento, quando la relativa istruttoria sia chiusa, pur in presenza di una convenientissima proposta di concordato (perché, ad esempio, è previsto l’intervento di un terzo), magari già approvata dalla maggioranza dei creditori e soltanto da omologare, ovvero come la necessità, comunque, di un ordine di trattazione quando le procedure siano di fatto entrambe in una situazione di completa istruttoria.
L’esclusione, per incompatibilità col sistema, di un bilanciamento degli interessi affidato al tribunale o di una cieca competizione tra le procedure accresce, da un lato, l’esigenza di individuare un ordine di trattazione e, dall’altro, la verosimiglianza dell’ipotesi che l’ordine indicato dagli artt. 162, 173, 169 e 180 l. fall., sia espressione di un principio generale.
Nello stesso senso si può osservare che la dichiarazione di fallimento, in pendenza della procedura di concordato e su istanza di un creditore, finirebbe incomprensibilmente per rendere irrilevante il procedimento di approvazione della proposta di concordato, persino nel caso di una approvazione già intervenuta, attribuendo decisivo rilievo alla contraria volontà anche di un solo creditore e ciò al di fuori del procedimento di omologazione, ove l’opposizione trova la sua sede naturale con la precisa indicazione dei limiti entro i quali assume rilievo. Con ciò non si vuole affatto dire che in pendenza della procedura di concordato al creditore dissenziente sia consentito soltanto esprimere voto contrario all’approvazione ovvero opporsi all’omologazione e non anche presentare istanza di fallimento. Il voto contrario e l’opposizione non equivalgono certamente alla istanza di fallimento e neppure l’assorbono, come si desume senza ombra di dubbio dalla prevista necessità della presentazione dell’istanza perché il tribunale possa dichiarare il fallimento. La mancanza di equivalenza si spiega sia perché presupposto della procedura non è solo lo stato di insolvenza ma anche lo stato di crisi, sia perché il rigetto della proposta potrebbe trovare spiegazione nella pretesa di migliori condizioni della soluzione concordata o nella preferenza per una esecuzione individuale. Specularmente il voto favorevole all’approvazione non comporta certamente la rinunzia ad una eventuale precedente istanza di fallimento. Ciò che, invece, si vuole dire è che il creditore contrario all’approvazione del concordato o alla sua omologazione non sembra possa sfuggire al carattere vincolante ed universale della procedura di concordato con la semplice presentazione dell’istanza di fallimento. Sembra, infatti, più coerente con il sistema ritenere che, finché la procedura di concordato non ha avuto un esito negativo, il creditore che ha chiesto di regolare la crisi attraverso il fallimento non può ottenere la relativa dichiarazione.
Ne consegue che – durante la pendenza di una procedura di concordato, sia essa in fase di ammissione, di approvazione o di omologazione – non può ammettersi il corso di un autonomo procedimento prefallimentare che si concluda con la dichiarazione di fallimento indipendentemente dal verificarsi di uno degli eventi previsti dagli artt. 162, 173, 179 e 180 l. fall..
Al riguardo assume il rilievo di una decisiva conferma il decimo comma dell’art. 161 l. fall., aggiunto dal d.l. n. 83/2012, che disciplina l’ipotesi della presentazione di una domanda di concordato con riserva (art. 161, comma 6, l. fall.), nel caso in cui penda il procedimento per la dichiarazione di fallimento, dettando due disposizioni. Secondo la prima resta fermo “quanto disposto dall’art. 22, primo comma” e cioè il fatto che “il tribunale, che respinge il ricorso per la dichiarazione di fallimento, provvede con decreto motivato”. Ne consegue che la presentazione della domanda di concordato con riserva non esclude la possibilità di respingere il ricorso eventualmente pendente per la dichiarazione di fallimento. A contrario, si deve escludere che sia possibile la dichiarazione di fallimento. La seconda disposizione dettata dal citato art. 161, comma 10, prevede che il termine per la presentazione della proposta sia quello minimo di sessanta giorni, senza possibilità per il tribunale di stabilirlo, come accade in assenza della pendenza di un procedimento per la dichiarazione di fallimento, tra un minimo di sessanta giorni ed un massimo di centoventi.
È evidente, pertanto, che la presentazione della domanda di concordato in pendenza di procedimento per la dichiarazione di fallimento non sospende e neppure rende improcedibile la procedura prefallimentare, che può proseguire nella sua istruttoria e può concludersi con una pronunzia di rigetto. Non è possibile, invece, la dichiarazione di fallimento, che priverebbe di senso l’assegnazione non discrezionale del termine di sessanta giorni per la presentazione della proposta di concordato, allo scopo di prevenire la dichiarazione di fallimento. Infatti, non può condividersi la lettura riduttiva secondo la quale la disposizione, senza decretare un ordine di trattazione o un obbligo di non dichiarare il fallimento, si limiterebbe a stabilire una protezione (di minore durata) del patrimonio del debitore che presenta domanda di concordato con riserva in pendenza di una procedura prefallimentare. Tale lettura, infatti, non è in grado di spiegare adeguatamente perché sia fatta salva soltanto la possibilità di rigettare l’istanza di fallimento. Neppure si può condividere l’assunto secondo cui, se anche potesse trarsi dalla norma un qualche argomento per ritenere una sorta di pregiudizialità del concordato con riserva sulla dichiarazione di fallimento, non è detto che tale pregiudizialità si estenderebbe al concordato ordinario. È semplice, infatti, osservare che se il legislatore ha escluso la possibilità di dichiarare il fallimento dopo la presentazione di una domanda di concordato con riserva, a maggior ragione tale possibilità deve escludersi, ricorrendo l’eadem ratio del favor per la soluzione negoziata della crisi, quando la proposta sia stata formulata sin dall’inizio, come accade nel concordato ordinario, ovvero a scioglimento della riserva.
La conclusione nel senso della possibilità di dichiarare il fallimento solo dopo l’esaurimento con esito negativo della procedura di concordato trova, poi, ulteriore conferma nella disposizione dettata dall’art. 69 bis, comma 2, l. fall., alla cui stregua il c.d. periodo sospetto, ai fini degli effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori, si computa a far tempo dalla “data di pubblicazione della domanda di concordato nel registro delle imprese” “nel caso in cui alla domanda di concordato segua la dichiarazione di fallimento”. Infatti, tale disposizione, non a caso aggiunta anch’essa dal d.l. n. 83/2012, esprime, come esattamente sottolineato dall’ordinanza n. 9476/2014, la preoccupazione del legislatore di evitare che i creditori possano subire un danno per il ritardo nella dichiarazione del fallimento, derivante dalla necessità del previo esame della domanda di concordato. Nello stesso senso opera, poi, la previsione del novellato art. 169 l. fall., che ha fatto discendere dalla presentazione della domanda di concordato anche gli effetti previsti dall’art. 45 l. fall..
La necessità di un previo esame della domanda di concordato preventivo corrisponde, inoltre, al favor per la procedura, accentuato dalla riforma, tra l’altro, con l’esclusione del requisito della meritevolezza e con la presunzione, ai fini del calcolo delle maggioranze, dell’adesione alla proposta dei creditori che non hanno votato in adunanza e non hanno espresso il loro dissenso nei venti giorni successivi (art. 178 l. fall.).
Infine, la soluzione della necessità del previo esame della domanda di concordato è coerente con quanto chiesto dalla Commissione Europea con la raccomandazione del 12 marzo 2014 (“su un nuovo approccio al fallimento delle imprese e all’insolvenza”). Con detta raccomandazione, infatti, è stato chiesto agli Stati membri di prevedere, allo scopo di facilitare i negoziati sui piani di ristrutturazione, la sospensione delle “domande dei creditori di aprire la procedura di insolvenza contro il debitore” presentate dopo la proposta di concordato; nulla, invece, è stato “raccomandato” quanto alla sorte delle eventuali istanze presentate prima della proposta di concordato, per le quali, tuttavia, la sospensione non viene esclusa. Come è noto, la raccomandazione della Commissione Europea è un atto non vincolante, del quale, tuttavia, il giudice nazionale deve tenere conto nella interpretazione del diritto interno (CEG 13 dicembre 1989, causa C-322/ Grimaldi). In questa sede, indipendentemente dalla (im)possibilità (v. infra p.6) di configurare nel nostro ordinamento una sospensione del procedimento prefallimentare per la pendenza di una procedura di concordato preventivo, ciò che conta è l’esigenza, espressa dalla raccomandazione, di escludere che la possibilità di regolare l’insolvenza attraverso un accordo tra debitore e maggioranza dei creditori venga meno per la presentazione di una istanza di fallimento. La necessità di un previo esaurimento della procedura di concordato soddisfa certamente tale esigenza.
In conclusione, non solo è necessario un coordinamento tra le procedure, ma è anche necessario che tale coordinamento avvenga assicurando il previo esaurimento della procedura di concordato preventivo.
Si deve qui chiarire, come esattamente affermato dall’ordinanza n. 9476/2014, che la temporanea non dichiarabilità del fallimento non riguarda le fasi d’impugnazione dei provvedimenti che pongono fine – nelle fattispecie previste dagli artt. 162, 173, 179 e 180 l. fall. – alla prospettiva concordataria e perciò, per dichiarare il fallimento, non è necessario attendere l’esito di dette impugnazioni. Invero, il decreto d’inammissibilità della proposta di concordato, ai sensi dell’art. 162, comma 2, l. fall., è espressamente dichiarato non reclamabile, e anche allorché se ne ammette la ricorribilità per cassazione, ai sensi dell’art. Ili Cost., si precisa che il ricorso è consentito solo in quanto non sia stato altresì dichiarato il fallimento (Cass. s.u. 14 aprile 2008, n. 9743; Cass. 25 settembre 2013, n. 21901; Cass. 2 aprile 2010, n. 8186). Se ciò è, invece, avvenuto, l’art. 162, comma 3, prevede la reclamabilità della sentenza che dichiara il fallimento, precisando che con il reclamo possono farsi valere anche motivi attinenti all’ammissibilità della proposta di concordato: con il che il legislatore dice espressamente che con la dichiarazione di inammissibilità del concordato diventa possibile la dichiarazione di fallimento. Quanto ai decreti di revoca e di rigetto del concordato, gli artt. 173 e 180 citati prevedono espressamente la contestualità degli stessi e della possibile sentenza dichiarativa del fallimento, così come l’art. 179 prevede la possibile dichiarazione di fallimento nel caso di mancata approvazione del concordato. Analoga alla previsione dell’art. 163, comma 3, pur nei parziale silenzio del legislatore, è la soluzione accolta da questa Corte con riguardo alla deducibilità con l’impugnazione avverso la dichiarazione di fallimento dei vizi che hanno condotto all’esito negativo della procedura di concordato (Cass. 8 maggio 2014, n. 9998 in un caso di revoca dell’ammissione al concordato. Cass. 30 marzo 1998, n. 3332; Cass. 24 marzo 2000, n. 3521 in tema di mancata approvazione del concordato. Cass. s.u. 23 gennaio 2013, n. 1521; Cass. 26 settembre 2013, n. 22083; Cass. 20 febbraio 2015, n. 3452, in tema di mancata omologazione del concordato).
L’affermazione della dichiarabilità del fallimento, durante le fasi di impugnazione dei provvedimenti che concludono negativamente la procedura di concordato, non è in contraddizione con la precedente affermazione della necessità del previo esaurimento negativo della procedura di concordato preventivo nei casi previsti dagli artt. 162, 173, 179 e 180 l. fall. Infatti, come si ricorderà nel prossimo paragrafo, tale necessità non è il frutto di una pregiudizialità tecnico-giuridica, ma soltanto di una valutazione di opportunità che il legislatore non ha affidato al giudice, ma ha effettuato direttamente, escludendo la non dichiarabilità del fallimento nelle predette fasi di impugnazione.
6. Resta da esaminare come la soluzione accolta possa avere concreta attuazione e come la stessa possa fronteggiare eventuali abusi del debitore.
Il principio da attuare è quello della necessità del preventivo esame della domanda di concordato e della dichiarabilità del fallimento solo al verificarsi di uno dei possibili esiti negativi del concordato preventivo previsti dagli artt. 162, 173, 179 e 180 l. fall..
La contemporanea pendenza di una procedura prefallimentare e di una domanda di concordato non può dare luogo alla sospensione della prima. In senso contrario depongono sia la ricordata disciplina dettata dall’art. 161, comma 10, l. fall., che lascia ferma la possibilità di rigettare l’istanza o la richiesta di fallimento, sia l’assenza di un rapporto di pregiudizialità tecnico-giuridica. Sul punto, ormai pacifico nella giurisprudenza di questa Corte e in dottrina, si può richiamare quanto detto da queste sezioni unite con la citata sentenza n. 1521 del 23 gennaio 2013 e sopra riportato (p.2).
Neppure è possibile, per quanto già detto, definire con una dichiarazione di improcedibilità la procedura prefallimentare che, invece, può proseguire con l’istruttoria e concludersi con il rigetto dell’istanza o della richiesta di fallimento.
La soluzione deve essere, pertanto, ricercata attraverso l’esame del rapporto tra i due procedimenti per giungere ad identificare lo strumento eventualmente posto a disposizione dal codice di rito. Sotto il primo profilo assumono rilievo: 1) la parziale coincidenza dei soggetti, quando l’iniziativa per la dichiarazione di fallimento è assunta dal creditore, che in quanto tale rientra anche tra i soggetti che sono parti sostanziali della procedura di concordato; 2) la coincidenza della causa petendi, rappresentata dallo stato di insolvenza; 3) la parziale coincidenza del petitum, rappresentato in entrambi i casi dalla regolazione della crisi (sub specie dello stato di insolvenza), ma secondo le diverse regole delle due procedure, con conseguente incompatibilità tra le istanze: la dichiarazione di fallimento presuppone per quanto sopra detto l’esito negativo della procedura di concordato e non consente la presentazione di ulteriori domande di concordato preventivo mentre l’omologazione del concordato rende improcedibili le istanze di fallimento già presentate e rimuove lo stato di insolvenza, rendendo possibile la presentazione di nuove istanze solo per fatti sopravvenuti o per la risoluzione o l’annullamento del concordato.
La giurisprudenza di questa Corte ha adottato un concetto di continenza piuttosto ampio, affermando che la continenza di cause ricorre non solo quando due cause siano caratterizzate da identità di soggetti e titolo e da una differenza soltanto quantitativa dell’oggetto, ma anche quando fra le due cause sussista un rapporto di interdipendenza, come nel caso in cui sono prospettate, con riferimento ad un unico rapporto negoziale, domande contrapposte, o in relazione di alternatività (c.d. continenza per specularità: Cass. ord. 14 luglio 2011, n. 15532; Cass. s.u. ord. 1 ottobre 2007, n. 20599; Cass. s.u. 23 luglio 2001, n. 10011; Cass. 30 marzo 2000, n. 3924; Cass. 10 marzo 1999, n. 2077). Tale concetto di continenza si adatta, tenuto conto delle peculiarità dei due procedimenti, all’ipotesi di contemporanea pendenza del procedimento prefallimentare e della procedura di concordato preventivo, sia prima che dopo l’ammissione. Ne consegue che quando i due procedimenti pendono innanzi allo stesso giudice si deve provvedere alla riunione, ai sensi dell’art. 273 c.p.c. (Cass. ord. 23 settembre 2013, n. 21761; Cass. 21 aprile 2010, n. 9510; Cass. 19 luglio 2004, n. 13348); quando, invece, i procedimenti si trovano innanzi a giudici diversi (il che nel caso in questione investe ipotesi marginali legate al trasferimento di sede ed al diverso momento di deposito degli atti introduttivi) trova applicazione l’art. 39, comma 2, c.p.c..
7. La preoccupazione dell’abuso del processo da parte del debitore ha condizionato l’atteggiamento di parte della giurisprudenza di merito e della dottrina rispetto alla questione dei rapporti tra le due procedure, suggerendo le strade, che si sono sopra escluse, del bilanciamento degli interessi affidato al giudice ovvero della competizione delle procedure. La riunione dei procedimenti ridimensiona, almeno nella maggior parte dei casi, i temuti problemi di abuso del diritto attraverso la presentazione di nuove domande di concordato dopo l’esito negativo della prima, quando siano pendenti istanze o richiesta di fallimento (per l’inammissibilità di tali domande v., da ultimo, Cass. 14 gennaio 2015, n. 495).
Infatti, la riunione delle procedure comporta non solo la fruibilità in ciascuna procedura dei materiale probatorio raccolto nell’altra, ma anche Io svolgimento di un pieno contraddittorio tra le parti in ordine ai presupposti oggettivi e soggettivi di entrambe le procedure concorsuali, garantendo il diritto di difesa del debitore. Ne consegue che al momento della pronunzia negativa ex artt. 162, 173, 179 e 180 l. fall., in ordine alla proposta di concordato, il tribunale può decidere in via definitiva anche le istanze di fallimento riunite, dichiarando il fallimento del debitore se ne ricorrono i presupposti; mentre, in caso di esito positivo del giudizio di omologazione ex art. 180 l. fall., il tribunale può dichiarare l’improcedibilità delle istanze di fallimento riunite.
Si deve, inoltre, osservare che il problema dell’abuso è stato ben presente all’attenzione del legislatore della riforma che ha previsto, in generale, la necessità dell’autorizzazione del tribunale per il compimento degli atti urgenti di straordinaria amministrazione e, rispetto alla ipotesi più suscettibile di abusi, ovvero quella del concordato con riserva, ha anche previsto obblighi informativi periodici, la cui inosservanza determina l’inammissibilità della proposta e la dichiarazione di fallimento su istanza dei creditori o su richiesta del pubblico ministero. Il legislatore, poi, con il d.l. n. 69/2013, sempre con riferimento al concordato con riserva, ha anche previsto la possibile nomina di un commissario giudiziale nonché, quando risulta che l’attività compiuta dal debitore è manifestamente inidonea alla predisposizione della proposta e del piano, l’abbreviazione dei termini allo scopo concessi. Rispetto al concordato con riserva, il legislatore ha, infine, previsto una ulteriore ipotesi di inammissibilità “quando il debitore, nei due anni precedenti, ha presentato altra domanda ai sensi del medesimo comma alla quale non abbia fatto seguito l’ammissione alla procedura di concordato preventivo o l’omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti”.
La ricordata disciplina, peraltro, non individua ipotesi di abuso del processo, ma detta una serie di cautele destinate ad operare nell’area in cui maggiore è la possibilità di un abuso. Tali cautele, tuttavia, non possono escludere che il debitore possa presentare domande di concordato, con o senza riserva, con una mera ed evidente finalità dilatoria. In questo caso, quando cioè lo scopo del debitore non è quello di regolare la crisi dell’impresa attraverso un accordo con i suoi creditori, ma quello di differire la dichiarazione di fallimento, la proposta di concordato si deve considerare inammissibile, secondo i principi affermati da questa Corte in tema di abuso del processo, che ricorre quando, con violazione dei canoni generali di correttezza e buona fede e dei principi di lealtà processuale e del giusto processo, si utilizzano strumenti processuali per perseguire finalità eccedenti o deviate rispetto a quelle per le quali l’ordinamento li ha predisposti (Cass. s.u. 15 novembre 2007, n. 23726; Cass. 2 ottobre 2013, n. 22502; Cass. 22 gennaio 2014, n. 1271).
Il tribunale, pertanto, in caso di abuso della domanda di concordato, può procedere alla dichiarazione di inammissibilità della proposta ed alla dichiarazione di fallimento, rispettando così, anche in questo caso, il principio che vuole l’esaurimento della procedura di concordato prima della dichiarazione di fallimento e senza che possa configurarsi eccezione alla regola della deducibilità, in sede di impugnazione della dichiarazione di fallimento, degli eventuali vizi relativi alla declaratoria di inammissibilità della proposta.
8. Si può a questo punto passare all’esame dei primi tre motivi del ricorso. Il primo ed il terzo possono essere esaminati congiuntamente per la sostanziale unitarietà della censura e sono infondati. Nella giurisprudenza di questa Corte è consolidato il principio, invocato dal fallimento ricorrente, secondo cui in materia di impugnazioni civili, dai principi di economia processuale, di ragionevole durata del processo e di interesse ad agire si desume che la denunzia di vizi dell’attività del giudice che comportano la nullità della sentenza o del procedimento, ai sensi dell’art. 360, n. 4, c.p.c., non tutela l’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma garantisce soltanto l’eliminazione del pregiudizio del diritto di difesa concretamente subito dalla parte che denuncia il vizio; pertanto, laddove non sia indicato lo specifico e concreto pregiudizio subito, il dedotto error in procedendo non acquista rilievo idoneo a determinare l’annullamento della sentenza impugnata (e plurimis e da ultimo Cass. 12 dicembre 2014, n. 26157). Tale principio, tuttavia, non conduceva nella specie alla inammissibilità del reclamo, essendo evidente che i vizi processuali denunziati avevano determinato non solo la dichiarazione di inammissibilità della domanda di concordato con riserva, ma anche e soprattutto la dichiarazione di fallimento, con il conseguente pregiudizio in re ipsa di vedere l’insolvenza regolata non attraverso la procedura di concordato preventivo, come richiesto dal debitore, ma attraverso la dichiarazione di fallimento. Si deve, quindi, concludere che la dichiarazione di fallimento può essere impugnata anche allegando soltanto censure in ordine alla mancata ammissione al concordato (Cass. s.u. 14 aprile 2008, n. 9743; Cass. 2 aprile 2010, n. 8186; Cass. 14 febbraio 2011, n. 3586).
Anche il secondo motivo è infondato. La pronunzia della Corte di appello nel merito sottintende, infatti, l’implicito rigetto della eccezione di inammissibilità (Cass. 8 marzo 2007, n. 5351) del reclamo, prescindendo dalla pacifica inconfigurabilità di un vizio di omessa pronunzia per l’omesso esame di una questione procedurale, al quale può connettersi soltanto una nullità della decisione, per la violazione di norme diverse dall’art. 112 c.p.c., qualora sia errata la soluzione implicitamente data dal giudice alla questione sollevata dalla parte (Cass. 24 giugno 2005, n. 13649; Cass. 28 marzo 2014, n. 7406).
9. In conclusione, devono essere affermati i seguenti principi di diritto:
1) in pendenza di un procedimento di concordato preventivo, sia esso ordinario o con riserva, il fallimento dell’imprenditore, su istanza di un creditore o su richiesta del pubblico ministero, può essere dichiarato soltanto quando ricorrono gli eventi previsti dagli artt. 162, 173, 179 e 180 l. fall., e cioè, rispettivamente, quando la domanda di concordato sia stata dichiarata inammissibile, quando sia stata revocata l’ammissione alla procedura, quando la proposta di concordato non sia stata approvata e quando, all’esito del giudizio di omologazione, sia stato respinto il concordato; la dichiarazione di fallimento, peraltro, non sussistendo un rapporto di pregiudizialità tecnico-giuridica tra le procedure, non è esclusa durante le eventuali fasi di impugnazione dell’esito negativo del concordato preventivo;
2) la pendenza di una domanda di concordato preventivo, sia esso ordinario o con riserva, non rende improcedibile il procedimento prefallimentare iniziato su istanza del creditore o su richiesta del pubblico ministero, né ne consente la sospensione, ma impedisce temporaneamente soltanto la dichiarazione di fallimento sino al verificarsi degli eventi previsti dagli artt. 162, 173, 179 e 180 l. fall.; il procedimento, pertanto, può essere istruito e può concludersi con un decreto di rigetto;
3) tra la domanda di concordato preventivo e l’istanza o la richiesta di fallimento ricorre, in quanto iniziative tra loro incompatibili e dirette a regolare la stessa situazione di crisi, un rapporto di continenza. Ne consegue la riunione dei relativi procedimenti ai sensi dell’art. 273 c.p.c., se pendenti innanzi allo stesso giudice, ovvero l’applicazione delle disposizioni dettate dall’art. 39, comma 2, c.p.c. in tema di continenza e competenza, se pendenti innanzi a giudici diversi;
4) la domanda di concordato preventivo, sia esso ordinario o con riserva, presentata dal debitore non per regolare la crisi dell’impresa attraverso un accordo con i suoi creditori, ma con il palese scopo di differire la dichiarazione di fallimento, è inammissibile in quanto integra gli estremi di un abuso del processo, che ricorre quando, con violazione dei canoni generali di correttezza e buona fede e dei principi di lealtà processuale e del giusto processo, si utilizzano strumenti processuali per perseguire finalità eccedenti o deviate rispetto a quelle per le quali l’ordinamento li ha predisposti;
5) in tema di concordato preventivo, quando in conseguenza della ritenuta inammissibilità della domanda il tribunale dichiara il fallimento dell’imprenditore, su istanza di un creditore o su richiesta del pubblico ministero, può essere impugnata con reclamo solo la sentenza dichiarativa di fallimento e l’impugnazione può essere proposta anche formulando soltanto censure avverso la dichiarazione di inammissibilità della domanda di concordato preventivo.
Sussistono giusti motivi, in considerazione delle incertezze giurisprudenziali in ordine ai rapporti tra le procedure, per compensare le spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di cassazione. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.p.r. n. 115/2002, da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

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