Suprema Corte di Cassazione
sezione II
sentenza n. 14902 del 13 giugno 2013
Svolgimento del processo
Mo.Mi. e S.A. con atto di citazione del 10 ottobre 1998 convocavano in giudizio davanti al Tribunale di Foggia i coniugi M.M. e S.S. e M.C. – B.A.M. , e, premettendo di essere proprietari di due capannoni ubicati nella zona PIP di (omissis) e che i convenuti avevano costruito nel giugno del 1997 un capannone su di un fondo attiguo non rispettando la distanza di metri 10 prescritta dal DM 2 aprile 1968, chiedevano, pertanto, che i convenuti venissero condannati alla demolizione dello stabile da essi edificato, oltre il risarcimento dei danni subiti.
Si costituivano i convenuti contestando l’avversa domanda e ne chiedevano i lrigetto.
Sostenevano i convenuti che essi non avevano edificato ex novo il capannone in discussione, ma avevano semplicemente ristrutturato un capannone preesistente sin dal 1976 già ubicato alla distanza di quattro metri dai capannoni degli attori, e che, essendo trascorso oltre un ventennio dalla costruzione dell’originario manufatto, avevano acquisito per usucapione il diritto alla servitù attiva di costruire a distanza inferiore al limite legale.
Il Tribunale di Foggia con sentenza del 7 novembre 2002 accoglieva la domanda attorea e ordinava la demolizione del capannone oggetto di causa, respingeva la richiesta accessoria di condanna generica al risarcimento dei danni.
Secondo il Tribunale, la costruzione realizzata dai convenuti integrava gli estremi di una nuova costruzione e, non già una ristrutturazione del capannone preesistente, considerato che, non solo il capannone preesistente era stato demolito quasi completamente e ricostruito ex novo, ma il nuovo capannone era stato spostato di circa 10-11 metri lungo l’asse longitudinale verso la strada pubblica antistante, sicché si era verificato anche un mutamento di localizzazione dell’originario corpo di fabbrica.
Aggiungeva, altresì, che doveva escludersi l’acquisto per usucapione da parte dei convenuti di una servitù attiva contraria alla limitazione della distanza, non solo perché una siffatta servitù appariva, oltre che atipica, anche illegale, tendente a rimuovere un limite connaturato alla proprietà, ma anche perché nella specie difettava l’elemento materiale del preteso acquisto della servitù e, cioè, l’identità del bene posto a distanza legale, invero, demolito il manufatto precedente, era cessato istantaneamente il supposto diritto reale dei convenuti a violare la legge.
Avverso questa sentenza proponevano appello i coniugi M. – S. e M. – B. , sostenendo che il primo giudice avrebbe errato: a) nel ritenere nuova costruzione una ristrutturazione dell’originario capannone per il solo fatto di aver proceduto alla parziale demolizione del manufatto preesistente, b) nell’aver rigettato l’eccezione da essi appellanti sollevata di avvenuto acquisto per usucapione ventennale della servitù attiva contraria alla delimitazione legale della distanza.
Si costituivano gli appellati chiedendo il rigetto del gravame.
La Corte d’Appello di Bari con sentenza n. 986 del 2006, rigettava l’appello e confermava la sentenza impugnata, condannava gli appellati a rifondere agli appellati anche le spese del grado.
Secondo la Corte di Bari nel caso in esame: a) la costruzione realizzata dagli appellanti non presentava le caratteristiche di una ristrutturazione dato che vi era stata, non solo una demolizione quasi integrale del vecchio manufatto, ma anche uno spostamento in avanti di ben 10 – 11 metri rispetto alle fondamenta e all’area di sedime di quello preesistente; b) era corretta l’affermazione del Giudice di primo gravo secondo cui una servitù attiva contraria alla limitazione della distanza non solo sarebbe stata atipica, ma anche illegale. Al riguardo la Corte barese specificava che secondo il prevalente orientamento della giurisprudenza le prescrizioni contenute in disposizioni di legge, in piani regolatori o nei regolamenti edilizi riguardanti le distane legali sulle costruzioni non potevano esser derogate dai diretti interessati essendo dettate, non solo per disciplinare i rapporti di vicinato tra i privati, ma soprattutto per tutelare interessi generali quale quello di promuovere un ordinato assetto urbanistico. Pertanto, sarebbe illegale l’acquisto per usucapione di una servitù attiva di tenere una costruzione a distanza inferiore a quella legale.
La cassazione di questa sentenza è stata chiesta dai coniugi M. – B. – e M. – S. , con ricorso affidato a due motivi, illustrati con memoria.
Mo.Mi. e S.A. hanno resistito con controricorso.
Motivi della decisione
1.- Con il primo motivo di ricorsoci – coniugi M. – B. e M. – S. lamentano la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 3 comma primo lettera D) del DPR 6.6.2001 n. 380 come modificato ed integrato dall’art. 1 lettera a) del Decreto legislativo 27 dicembre 2002 n. 301 (art. 360 n. 3 cpc). Secondo i ricorrenti, la Corte di Bari avrebbe errato nel non aver qualificato la demolizione e la ricostruzione del capannone, oggetto di causa, quale “ristrutturazione” ritenendo, invece, che si trattasse di “nuova costruzione”.
Epperò, ritengono i ricorrenti, la Corte di appello di Bari, ritenendo che ai fini della qualificazione della ricostruzione di un immobile quale ristrutturazione si rendeva necessario che l’immobile ricostruito fosse identico all’immobile originario, non essendo a tal fine consentito neanche un modesto spostamento in avanti dello stesso all’interno della medesima area di sedime, avrebbe posto in essere un’evidente e manifesta violazione e/o falsa applicazione della norma di cui all’art. 3 comma uno lettera d) del DPR 6 giugno 2001 n. 380, come modificato ed integrato dall’art. 1 lettera a) del decreto legislativo 27 dicembre 2002 n. 301.
Tale disposizione nella sua attuale formulazione, sempre a dire dai ricorrenti, avrebbe ricompreso nella nozione di “ristrutturazione edilizia” anche gli interventi di “demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma”.
Il testo definitivo, infatti, come modificato dall’art. 1 comma 1 lettera a) del Testo unico coordinato, ha sostituito il riferimento alla “fedele ricostruzione di un fabbricato identico quanto a sagoma volume, area di sedime e caratteristiche dei materiali a quello preesistente” con l’espressione “ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quella esistente”.
Sicché, avendo il lesto Unico Coordinato eliminato l’inciso relativo alla fedele ricostruzione quanto a sagoma volume, area di sedime e caratteristiche dei materiali a quello preesistente” lasciando esclusivamente il riferimento solo al requisito della medesima sagoma e volumetria, consentirebbe di ritenere che il legislatore abbia ammesso la possibilità che la ristrutturazione avvenga senza osservare, quanto all’area di sedime, con assoluta fedeltà, la collocazione dell’immobile originario, legittimando delle modeste variazione in tal senso, come sarebbe avvenuto nel caso in esame mediante una modesta traslazione del preesistente edificio in avanti pur sempre all’interno della medesima area di sedime. I ricorrenti concludono formulando il seguente quesito di diritto: Dica la Suprema Corte di Cassazione e ai fini della configurazione della ristrutturazione di cui all’art. 3 comma 1 del d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380 (Testo Unico Edilizia) così come modificato dal primo comma dell’art. 1 lettera a) del Dlgs. N. 301 del 2002 sia necessaria l’assoluta perfetta identità tra l’immobile originario e l’immobile ricostruito, anche in relazione all’area di sedime.
1.1.- Il motivo è infondato.
La sentenza della Corte barese ha correttamente applicato la normativa di cui all’art. 3 del d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380 (Testo Unico Edilizia), integrato e modificato dal primo comma dell’art. 1 lettera a) del Dlgs. N. 301 del 2002, così come chiarita e interpretata dalla giurisprudenza amministrativa e anche dalla giurisprudenza di questa Corte.
1.1.a).-
A bene vedere, stando alla normativa di cui al Testo Unico dell’Edilizia:
a) si parla di semplice ristrutturazione qualora “gli interventi, comportando modificazioni esclusivamente interne, abbiano interessato un fabbricato le cui componenti essenziali, quali muri perimetrali, strutture orizzontali e copertura siano rimasti inalterati”;
b) ci si trova di fronte, invece, a una ricostruzione quando “le componenti dell’edificio, per evento naturale o per fatto umano, siano venute meno e l’intervento successivo non abbia comportato alcuna variazione rispetto alle dimensioni originarie dell’edificio, con particolare riferimento alla volumetria, alla superficie di ingombro occupata e all’altezza”. In questo senso, l’opera di demolizione e ricostruzione può essere qualificata quale ristrutturazione purché la nuova opera mantenga le caratteristiche planovolumetriche dell’edificio precedente.
c) In caso di aumento di una di queste componenti (volumetria, superficie di ingombro occupata e altezza), “si è in presenza di una nuova costruzione, da considerare tale agli effetti del computo delle distanze rispetto agli immobili contigui”, in relazione alle “parti eccedenti le dimensioni dell’edificio originario”.
1.1.b).- A sua volta, la giurisprudenza amministrativa, così come anche la giurisprudenza di questa Corte, ha avuto modo di chiarire che la ristrutturazione o ricostruzione postula necessariamente la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare, cioè di un organismo edilizio dotato delle murature perimetrali, strutture orizzontali e copertura.
In mancanza di tali elementi strutturali, non è possibile valutare l’esistenza e la consistenza dell’edificio da consolidare.
La stessa giurisprudenza ha avuto modo di specificare che i ruderi non possono che considerarsi alla stregua di un’area non edificata considerato che non presentano le caratteristiche di un organismo edilizio dotato delle murature perimetrali, strutture orizzontali e copertura. Con la conseguenza che loro ricostruzione, non costituisce “ristrutturazione”, ma “nuova costruzione” (C. Stato, Sez. V: 28.5.2004, n. 3452; 15.4.2004, n. 2142; 1.12.1999, n. 2021; 4.8.1999, n. 398; 10.3.1997, n. 240).
1.1.c). – D’altra parte come ha evidenziato la stessa Corte barese, il Consiglio di Stato, pur riconoscendo che per effetto delle nuove disposizioni di legge la nozione di ristrutturazione è stata ulteriormente estesa (sicché può ritenersi superato il criterio della fedele ricostruzione di cui all’art. 31 delle legge 457/1978), ha chiarito che non per questo sono venuti meno i limiti che ne condizionano le caratteristiche e che consentono di distinguerla dall’ipotesi di nuova costruzione, vale a dire la necessità che la costruzione sia identica per sagoma volumetria e superficie al fabbricato demolito (Cos. Stato n. 4011 del 2005).
1.1.d).- Ora, la sentenza della Corte barese risponde correttamente a questi principi e all’orientamento, appena richiamati, avendo definitivamente chiarito che il manufatto realizzato dagli attuali ricorrenti e oggetto della controversia integrava gli estremi di una nuova costruzione per due diverse ragioni:
A) sia perché sostanzialmente il capannone preesistente era un rudere fatiscente (i cui reliquati ancora si intravedevano in alcune fotografie in atti).
B) sia perché non poteva dubitarsi del la sostanziale diversità tra il rudere preesistente e il capannone ricostruito, atteso che la nuova costruzione aveva avuto una diversa localizzazione rispetto alle fondamenta e all’area di sedime di quella preesistente, essendo stato spostato in avanti per circa 10 – 11 metri e per quanto nel nuovo “capannone fu modificata in alcune parti anche l’altezza del manufatto originario (essendo stata conservata solo l’altezza media dello stesso).
1.1.e).- Il Collegio osserva, comunque, che il diritto degli attuali ricorrenti a ricostruire l’immobile di cui si dice, a distanza inferiore a quella legale, avrebbe potuto essere fondato sull’acquisto per usucapione del relativo diritto, epperò, la Corte di merito ha negato, esplicitamente, con la sentenza impugnata, che, nel caso concreto, fosse possibile configurare l’acquisto per usucapione (da parte degli attuali ricorrenti) di una servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore a quella fissata dalle norme urbanistiche.
Tale decisione, quale che ne sia la sua ragione, non è stata impugnata, pertanto, sulla stessa si è formato il giudicato, escludendo la possibilità, per gli attuali ricorrenti, di poter invocare il diritto alla ricostruzione a distanza inferiore a quella legale.
2.- Con il secondo motivo i ricorrenti lamentano l’omessa o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 n. 5 cpc). Secondo i ricorrenti, la Corte barese avrebbe considerato il capannone originario quale rudere senza avere compiuto alcun esame delle risultanze processuali. Piuttosto, se la Corte di appello avesse esaminato le risultanze processuali avrebbe costatato che nella concessione edilizia in sanatoria del 18 febbraio 1995 rilasciata alla N.A. dal Comune di (omissis) pochi giorni prima dell’acquisto del capannone de quo da parte degli odierni ricorrenti, si parla di un capannone in muratura di tufi e del prezzo di vendita del capannone in questione pari a L. 70.000.000 non certamente plausibile per un rudere fatiscente.
2.1.- Il motivo è infondato, essenzialmente perché si risolve nella richiesta di una nuova e diversa valutazione delle risultanze probatorie, non proponibile nel giudizio di cassazione non ricorrendo, per altro, l’ipotesi, eccezionale e residuale, della manifesta illogicità. E, comunque, la Corte non ha omesso di indicare le ragioni per le quali ha ritenuto che il capannone preesistente fosse sostanzialmente un rudere fatiscente, avendo puntualmente indicato che lo stato del capannone risultava visibile da alcune fotografie in atti.
In definitiva, il ricorso va rigettato. Considerato l’intervenuto mutamento di giurisprudenza in ordine all’usucapibilità del diritto a costruire in deroga alle distanze legali, si ravvisano giusti i motivi per compensare le spese del presente giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.
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