Un provvedimento abnorme

Corte di Cassazione, sezione terza penale, Sentenza 16 giugno 2020, n. 18297.

Massima estrapolata:

È abnorme, in quanto determina una indebita regressione del procedimento, l’ordinanza del giudice dell’udienza preliminare che, investito di richiesta di rinvio a giudizio, disponga la restituzione degli atti al pubblico ministero sull’erroneo presupposto che debba procedersi con citazione diretta a giudizio. (Fattispecie relativa al reato di cui all’art. 4, comma 4-bis, legge 13 dicembre 1989, n. 401, trasformato in delitto punito con pena detentiva superiore nel massimo a quattro anni dal d.l. 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modifiche, nella legge 28 marzo 2019, n. 26, in cui la Corte ha precisato che, essendo stata esercitata l’azione penale dopo l’anzidetto intervento normativo, correttamente il pubblico ministero aveva formulato richiesta di rinvio a giudizio, anziché procedere con decreto di citazione diretta, trovando applicazione il principio “tempus regit actum”).

Sentenza 16 giugno 2020, n. 18297

Data udienza 4 marzo 2020

Tag – parola chiave: Atto abnorme – Gup – Richiesta di Rinvio a giudizio – Ordinanza di restituzione degli atti al PM – Erroneo presupposto che si debba procedere con citazione diretta a giudizio – E’ atto abnorme – Indebita regressione del procedimento

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LIBERATI Giovanni – Presidente

Dott. CORBETTA Stefano – Consigliere

Dott. REYNAUD Gianni F. – rel. Consigliere

Dott. MACRI’ Ubalda – Consigliere

Dott. ZUNICA Fabio – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo;
nel procedimento a carico di:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso l’ordinanza del 17/10/2019 del G.u.p. del Tribunale di Palermo;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Gianni Filippo Reynaud;
lette le richieste avanzate dal Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Lignola Ferdinando, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza del 17 ottobre 2019, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Palermo, investito della richiesta di rinvio a giudizio di (OMISSIS) in ordine al reato di cui alla L. 13 dicembre 1989, n. 401, articolo 4, comma 4-bis, commesso il (OMISSIS), ritenendo trattarsi di reato per cui si procede con citazione diretta a giudizio ex articolo 550 c.p.p., ha disposto l’a trasmissione degli atti al pubblico ministero ai sensi dell’articolo 33 sexies c.p.p..
2. Avverso detta ordinanza, ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica, rilevandone l’abnormita’ per violazione degli articoli 4, 416 e 550 c.p.p., sul rilievo che l’azione penale era stata esercitata con richiesta di rinvio a giudizio del 16 maggio 2019, allorquando la pena detentiva prevista per il reato contestato era divenuta quella della reclusione da tre a sei anni in forza della modifica attuata con Decreto Legge 28 gennaio 2019, n. 4, articolo 27, comma 6, lettera a), conv., con modiff., in L. 28 marzo 2019, n. 26. Poiche’ in materia di norme processuali vale il principio tempus regit actum, la pena da considerarsi ai fini della scelta delle modalita’ di esercizio dell’azione penale era quella, piu’ grave, stabilita dalla citata “novella”, che imponeva pertanto la celebrazione dell’udienza preliminare, trattandosi peraltro di rito maggiormente garantito. L’illegittima regressione del processo era dunque da considerarsi quale atto abnorme, come tale ricorribile per cassazione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso e’ ammissibile e fondato.
Va premesso che, secondo il preferibile orientamento di questa Corte, condiviso dal Collegio, e’ abnorme, in quanto determina una indebita regressione del procedimento, l’ordinanza del giudice dell’udienza preliminare che, investito di richiesta di rinvio a giudizio, disponga la restituzione degli atti al pubblico ministero sull’erroneo presupposto che debba procedersi con citazione diretta a giudizio (Sez. 5, n. 35153 del 19/04/2016, Branca, Rv. 267766; Sez. 3, n. 51424 del 18/09/2014, Longhi, Rv. 261397). In tali casi, di fatti, il provvedimento – pur in astratto frutto di un potere conferito dalla legge al giudice – determina uno stallo nel procedimento (Sez. 3, n. 25204 del 08/05/2008, Lunetto, Rv. 240246), dovendo, altrimenti, il pubblico ministero porre in essere un atto viziato da nullita’, vale a dire l’esercizio dell’azione penale con citazione diretta a giudizio per un reato che prevede la celebrazione dell’udienza preliminare.
In particolare, le Sezioni unite di questa Corte hanno posto in luce come sussista abnormita’, c.d. funzionale, quando l’atto, pur non essendo estraneo al sistema normativo, determini la stasi del processo e l’impossibilita’ di proseguirlo (cosi’, in motivazione, Sez. U, n. 25957 del 26/03/2009, Toni e a., Rv. 243590), potendosene ravvisare un sintomo nel fenomeno della c.d. regressione anomala del procedimento ad una fase anteriore (cosi’, in motivazione, Sez. U, n. 5307/2008 del 20/12/2007, Battistella; v. anche Sez. 2, n. 7320/2014 del 10/12/2013, Fabozzi, Rv. 259158; Sez. 2, n. 29382 del 16/05/2014, Veccia, Rv. 259830; Sez. 2, n. 2484/2015 del 21/10/2014, Tavoloni e a., Rv. 262275). E si e’ al proposito precisato che “l’abnormita’ funzionale, riscontrabile, come si e’ detto, nel caso di stasi del processo e di impossibilita’ di proseguirlo, va limitata all’ipotesi in cui il provvedimento giudiziario imponga al pubblico ministero un adempimento che concretizzi un atto nullo rilevabile nel corso futuro del procedimento o del processo. Solo in siffatta ipotesi il pubblico ministero puo’ ricorrere per cassazione lamentando che il conformarsi al provvedimento giudiziario minerebbe la regolarita’ del processo; negli altri casi egli e’ tenuto ad osservare i provvedimenti emessi dal giudice” (cosi’, in motivazione, Sez. U, n. 25957 del 26/03/2009, Toni e a., Rv. 243590).
2. Ad avviso del Collegio, nel caso di specie ricorre questa situazione, poiche’, qualora il pubblico ministero esercitasse l’azione penale con citazione diretta a giudizio, porrebbe in essere un atto nullo, con le conseguenze previste dall’articolo 550 c.p.p., comma 3, trattandosi di reato per il quale, al momento della richiesta di rinvio a giudizio correttamente avanzata ex articolo 416 c.p.p., era prevista, come tuttora lo e’, la celebrazione dell’udienza preliminare.
Il provvedimento impugnato non reca, sul punto, alcuna motivazione, limitandosi all’apodittica affermazione giusta la quale “il reato per cui si procede rientra nella previsione di cui all’articolo 550 c.p.p.”.
La particolarita’ del caso di specie – ben delineata dal pubblico ministero ricorrente – induce a ritenere che il giudice abbia inteso considerare che il reato contestato, al momento della sua commissione, rientrava tra quelli per i quali si doveva procedere con citazione diretta a giudizio, non dando invece rilievo al fatto che cosi’ non era piu’ nel momento di avvenuto esercizio dell’azione penale.
Di fatti, il reato di cui alla L. n. 401 del 1989, articolo 4, comma 4-bis, all’epoca della sua commissione, era qualificato come contravvenzione, mentre – con il gia’ citato Decreto Legge n. 4 del 2019, conv., con modiff., in L. n. 26 del 2019 – e’ stato trasformato in delitto, punito con la pena della reclusione da tre a sei anni e con la multa da 20.000 a 50.000 Euro. Allorquando, il successivo 16 maggio 2019, e’ stata esercitata l’azione penale con richiesta di rinvio a giudizio, per il reato ascritto occorreva dunque procedere alla celebrazione dell’udienza preliminare.
3. Rileva, al riguardo, il Collegio che, in materia processuale, vale il principio tempus regit actum (cfr., ex multis, Sez. U, n. 44895 del 17/07/2014, Pinna, Rv. 260927; Sez. U, n. 27919 del 31/03/2011, Ambrogio, Rv. 250196), sicche’ ai fini dell’applicazione del disposto di cui all’articolo 550 c.p.p., comma 1, che, per quanto qui interessa, prevede che il pubblico ministero eserciti “l’azione penale con la citazione diretta a giudizio quando si tratta di contravvenzioni o di delitti puniti con la pena della reclusione non superiore nel massimo a quattro anni o con la multa, sola o congiunta alla predetta pena detentiva” – occorre avere riguardo ai reati siccome qualificati (delitti o contravvenzioni) e puniti al momento in cui viene esercitata l’azione penale, indipendentemente da quale fosse, sul punto, la legge vigente al momento della commissione del fatto. Il diverso principio giusta il quale, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile, “se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono piu’ favorevoli al reo” (articolo 2 c.p., comma 4) ha infatti valenza esclusivamente sostanziale, come chiaramente mostra la sedes materiae. In via generale, del resto, e prescindendosi doverosamente dal caso di specie, l’individuazione della legge piu’ favorevole non e’ sempre agevole e spesso postula una valutazione in concreto (cfr., ad es., Sez. 2, n. 27816 del 22/03/2019, Rovinelli, Rv. 276970; Sez. 4, n. 6369 del 16/12/2016, dep. 2017, Notaroberto e aa., Rv. 268890; Sez. 3, n. 3385 del 17/11/2016, dep. 2017, Rv. 268805) che mal si presta alla gestione delle regole processuali, le quali necessitano invece di univoca, ed immediata, individuazione. Proprio a tal fine, del resto, l’articolo 550 c.p.p., comma 1, precisa che “per la determinazione della pena si osservano le disposizioni dell’articolo 4” cit. codice di rito, vale a dire quelle per la determinazione della competenza, giusta le quali “si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per ciascun reato consumato o tentato” e “non si tiene conto della continuazione, della recidiva e delle circostanze del reato, fatta eccezione delle circostanze aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale”: regole astratte e formali, di semplice individuazione.
4. Nel richiedere il rigetto del ricorso, nella sua requisitoria scritta il procuratore generale ha invocato un recente precedente di questa Corte, reso in caso, definito analogo, in cui sarebbe stato applicato un principio contrario a quello qui affermato. La massima ufficiale di quella decisione riporta il principio che e’ in linea con quanto piu’ sopra ritenuto – secondo cui, in tema di successione di leggi processuali nel tempo, non opera il principio di retroattivita’ della legge piu’ favorevole (Sez. 5, n. 35588 del 03/04/2017, P., Rv. 271207), ma si annota altresi’ che in quel caso era stata giudicata legittima la citazione diretta a giudizio dell’imputato del reato di “stalking” commesso prima della modifica normativa che, aumentando il limite edittale della pena, ha introdotto la necessita’ dell’udienza preliminare. Leggendo la sentenza, tuttavia, si comprende come quel caso fosse diverso da quello qui in esame, posto che (v. § 3.4.) l’azione penale era stata esercitata con citazione diretta nell’ottobre 2011, ben prima che il trattamento sanzionatorio del reato di cui all’articolo 612 bis c.p. fosse inasprito (con. Decreto Legge 14 agosto 2013, n. 93, conv., con modiff., in L. 15 ottobre 2013, n. 119) si’ da rendere necessaria la celebrazione dell’udienza preliminare. Il fatto che, in quel procedimento, l’esercizio dell’azione penale fosse intervenuto per il reato di violenza privata aggravato e che solo in corso di dibattimento – successivamente alla citata modifica normativa – fosse stato suppletivamente contestato anche il reato di atti persecutori ha indotto la Corte a ritenere inapplicabile la previsione di cui all’articolo 521 bis c.p.p., comma 1, nella specie invocata, anche sul rilievo che, nel momento in cui l’azione penale era stata esercitata, per il reato di atti persecutori era prevista la citazione diretta a giudizio ed era alla pena in allora prevista per quel reato che occorreva guardare al fine di individuare, secondo il criterio del tempus regit actum, se dovesse essere celebrata l’udienza preliminare. E’ ben vero – come rileva il procuratore generale nella requisitoria scritta – che nella motivazione della sentenza (§. 11) si fa altresi’ riferimento al fatto l’esercizio dell’azione penale con citazione diretta a giudizio avrebbe costituito “inevitabile conseguenza dell’applicazione della legge sostanziale piu’ favorevole al reo”, ma si tratta di argomentazione addotta ad abuntantiam, che non fa premio sulla piu’ corretta, concorrente, ratio decidendi quale sopra delineata.
5. La notazione, semmai, rende ragione del fatto – di cui il Collegio e’ ben consapevole – che il problema giuridico qui discusso non e’ di agevole soluzione e, ciclicamente posto all’attenzione di questa Corte, non ha sempre portato a conclusioni univoche.
Non ci si nasconde, ad es., che, con riguardo all’applicazione dell’articolo 4 c.p.p., l’indirizzo interpretativo di questa Corte aveva preso una direzione diversa da quella qui indicata in occasione della legge che, inasprendo il trattamento sanzionatorio con riguardo al reato di usura, aveva indirettamente determinato lo spostamento di competenza per materia dal pretore al tribunale. In allora, di fatti, si era ripetutamente affermato il principio secondo cui l’intervenuto aumento, ai sensi del Decreto Legge 8 giugno 1992, n. 306, articolo 11 quinquies, comma 1 (introdotto dalla legge di conversione), conv., con modiff., in L. 7 agosto 1992, n. 356, della pena edittale stabilita per il reato di usura, con conseguente attribuzione della competenza per materia al tribunale e non piu’ al pretore, non incide sulla determinazione della competenza medesima per quanto attiene i reati anteriormente commessi, i quali, non potendo essere puniti, in applicazione della regola di cui all’articolo 2 c.p., comma 3, con pena superiore a quella prevista all’epoca della loro commissione (reclusione fino a due anni e multa), continuano a rientrare, secondo la regola generale di cui all’articolo 7 c.p.p., comma 1, nella competenza del Pretore (Sez. 1, n. 794 del 05/02/1997, Tralucco, Rv. 206972; Sez. 1, n. 1751 del 22/03/1995, Lopez e aa., Rv. 201618; Sez. 1, n. 5559 del 17/12/1993, dep. 1994, Tibando, Rv. 196115).
Diversamente, il principio qui affermato si pone invece in linea con quanto in altre occasioni osservato e ritenuto da questa Corte interpretando l’articolo 4 c.p.p. nel caso di successione di leggi che, modificando il trattamento sanzionatorio, incidano, per un verso, sulle regole processuali (nella specie, quelle sulla competenza per materia) e, per altro verso, sul principio dell’applicabilita’ della lex mitior: se a quest’ultimo proposito deve trovare applicazione il principio codificato nell’articolo 2 c.p., le regole processuali (sulla competenza come sulle modalita’ di esercizio dell’azione penale e sul rito conseguentemente applicabile) dipendono invece dal principio del tempus regit actum. Con riguardo alla legge con cui era stato modificato il trattamento sanzionatorio del reato di guida in stato d’ebbrezza e si era determinata la competenza per il giudizio in capo al tribunale anziche’ al giudice di pace, il maggioritario orientamento di questa Corte (contra, Sez. 1, n. 28545 del 16/06/2004, Murtas, Rv. 228854), poi confermato da una pronuncia delle Sezioni unite che aveva definiti’vamente risolto il contrasto (Sez. U, n. 3821 del 17/01/2006, Timofte, Rv. 232592), aveva, appunto, affermato che, in applicazione del principio “tempus regit actum” che governa la successione nel tempo delle norme processuali, la competenza per materia in relazione al reato di guida in stato di ebbrezza va determinata sulla base della normativa in vigore al momento in cui il pubblico ministero esercita l’azione penale, non assumendo alcun rilievo, in mancanza di una disciplina transitoria “ad hoc”, il momento di consumazione del reato (Sez. 1, n. 26787 del 06/07/2005, Mezzalana, Rv. 231845), ferma restando l’applicazione da parte del giudice competente delle disposizioni sanzionatorie piu’ favorevoli al reo, in considerazione della data di consumazione del reato, ai sensi dell’articolo 2 c.p., comma 3, (Sez. 1, n. 12148 del 02/03/2005, Norcini, Rv. 231844).
Nella motivazione della citata decisione della Sezioni unite, richiamandosi il principio generale secondo il quale “la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo” (articolo 11 preleggi, comma 1), si afferma che “a questa regola non si sottraggono le disposizioni del diritto processuale penale, salvo che il legislatore non abbia previsto apposite norme transitorie, atte a regolare il passaggio dalla vecchia alla nuova disciplina” (Sez. U, n. 3821 del 17/01/2006, Timofte, in motivazione). Dandosi atto che “la regola suddetta condensata con riferimento alla materia processuale nel brocardo latino tempus regit actum – pur essendo universalmente riconosciuta, e’ di difficile applicazione quando deve essere riferita a situazioni che non si esauriscono in un determinato momento, ma perdurano nel tempo”, la decisione limpidamente afferma che “la legge processuale non contempla i reati e non “dispone” rispetto a questi, ma provvede soltanto per l’avvenire, cioe’ per tutti i procedimenti e per tutti gli atti processuali da compiersi nel momento in cui entra in vigore, salve le eccezioni stabilite dalla legge medesima. Con la conseguenza che e’ erroneo parlare di retroattivita’ delle leggi processuali allorquando esse vengono applicate a fatti commessi prima della loro entrata in vigore: tale pretesa retroattivita’ si riferisce infatti ai reati, e cioe’ a cosa in ordine alla quale la legge processuale non dispone; mentre le norme sono irretroattive rispetto ai procedimenti e agli atti processuali, che costituiscono il vero oggetto delle loro disposizioni” (Sez. U, n. 3821 del 17/01/2006, Timofte, in motivazione).
Benche’, nel caso esaminato dalla decisione da ultimo citata, la conclusione raggiunta fosse obiettivamente agevolata dal fatto che lo spostamento della competenza dipendeva non soltanto dall’intervenuto inasprimento della pena, recando la nuova legge anche un’espressa attribuzione (il Decreto Legge 27 giugno 2003, n. 151, conv. in L. 1 agosto 2003, n. 214, nel modificare l’articolo 186 C.d.S. inasprendo la sanzione per chi guida in stato di ebbrezza dispose contestualmente che “per l’irrogazione della pena e’ competente il tribunale”), reputa il Collegio che gli argomenti piu’ sopra esposti inducano a preferire la tesi secondo cui, per quanto qui interessa, il richiamo quod poenam ai reati per i quali l’articolo 550 c.p.p., comma 1, impone che si proceda con citazione diretta a giudizio vada effettuato in relazione al trattamento sanzionatorio previsto nel momento dell’esercizio dell’azione penale, indipendentemente da quale eventualmente sara’ – peraltro, soltanto all’esito del giudizio e soltanto laddove lo stesso dovesse concludersi nel senso dell’affermazione di penale responsabilita’ – l’individuazione del trattamento sanzionatorio applicabile in base alla lex mitior.
6. L’ordinanza impugnata deve pertanto essere annullata senza rinvio, con trasmissione degli atti al Tribunale di Palermo, Ufficio g.i.p., per il seguito di competenza.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata e dispone trasmettersi gli atti al Tribunale di Palermo, Ufficio g.i.p..
Si da’ atto che il presente provvedimento e’ sottoscritto dal solo presidente del collegio per impedimento dell’estensore, ai sensi del D.P.C.M. 8 marzo 2020, articolo 1, comma 1, lettera a).

 

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