Reato di rivelazione del segreto d’ufficio

Corte di Cassazione, sezione seconda penale, Sentenza 5 luglio 2019, n. 29436.

La massima estrapolata:

Per i funzionari pubblici il reato di rivelazione del segreto d’ufficio scatta non solo per la divulgazione di notizie coperte da segreto ma anche per la semplice comunicazione di notizie «accessibili» a chi però non ha diritto di riceverle. Un obbligo esplicitamente rafforzato per il personale dei tribunali. Secondo la legge n. 1196 del ’60 infatti «il funzionario di cancelleria e segreteria e il dattilografo devono osservare il più scrupoloso segreto di ufficio e non possono dare a chi non ne abbia diritto, anche se non si tratti di atti segreti, informazioni o comunicazioni relative a operazioni o provvedimenti giudiziari o amministrativi di qualsiasi natura e dei quali siano venuti comunque a conoscenza a causa del loro ufficio».

Sentenza 5 luglio 2019, n. 29436

Data udienza 21 marzo 2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMMINO Matild – Presidente

Dott. DI PAOLA Sergio – Consigliere

Dott. MESSINI D’AGOSTINI Piero – Consigliere

Dott. BELTRANI S – rel. Consigliere

Dott. COSCIONI Giusep – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
contro la sentenza emessa in data 09/01/2018 dalla Corte di appello di Perugia;
Esaminati gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere SERGIO BELTRANI;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. MOLINO Pietro, che ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilita’ del ricorso;
udito, per l’imputato, l’avv. (OMISSIS), che si e’ riportato ai motivi di ricorso.

RITENUTO IN FATTO

Con sentenza n. 19216 del 2017 (c.c. 4.11.2016), la VI Sezione di questa Corte, in accoglimento del ricorso del P.G. distrettuale, ha annullato la sentenza con la quale, in data 18.6.2015, la Corte d’appello di L’Aquila (in riforma della sentenza con la quale, in data 7.5.2014, il Tribunale di Lanciano aveva dichiarato (OMISSIS), in atti generalizzato, colpevole di rivelazione del segreto d’ufficio e favoreggiamento personale, con la recidiva reiterata, condannandolo alla pena ritenuta di giustizia) aveva assolto l’imputato perche’ i fatti non sussistono.
Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Perugia, decidendo all’esito del giudizio di rinvio, ha confermato integralmente la sentenza di condanna emessa in data 7.5.2014 dal Tribunale di Lanciano.
Contro tale provvedimento, l’imputato ha proposto tempestivamente e nei modi di rito ricorso (redatto, con tecnica non apprezzabile, senza numerazione delle pagine), denunziando i seguenti motivi, enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’articolo 173 disp. att. c.p.p., comma 1:
I – omessa motivazione, illogicita’ della motivazione e travisamento della prova nella parte inerente alla presunta rivelazione della presenza di soggetti da escutere quali persone informate sui fatti nel procedimento penale n. 1153/10, alla iscrizioni ed alle successive annotazioni effettuate a carico di (OMISSIS), in atti generalizzato (l’imputato non avrebbe effettuato gli accessi al (OMISSIS) in riferimento al nominativo (OMISSIS) registrati nei giorni 25.7.2011 e 24.10.2011, prodromici rispetto alle condotte in contestazione; in particolare, il secondo accesso sarebbe stato operato con nominativo (OMISSIS); non corrisponderebbe al vero il fatto che l’imputato abbia ammesso in sede d’interrogatorio l’effettuazione di accessi a nome (OMISSIS) e rivelato informazioni riservate al predetto soggetto); nel terzo foglio il ricorrente lamenta, inoltre, promiscuamente, nel corpo di doglianze inerenti all’affermazione di responsabilita’, anche il diniego delle circostanze attenuanti generiche;
II – illogicita’ della motivazione e travisamento della prova nella parte relativa alla ritenuta presenza del (OMISSIS) nella Procura della Repubblica di Lanciano il giorno 15.11.2011, nel quale l’imputato asserisce di avere documentato di essere in ferie, e quindi non presente in ufficio, come al contrario affermato dalla PG operante;
III – violazione dell’articolo 326 c.p., quanto alla ritenuta sussistenza del relativo reato, avente in realta’ ad oggetto notizie non segrete perche’ gia’ conosciute o facilmente conoscibili;
IV – omessa motivazione ed illogicita’ della motivazione, nonche’ violazione dell’articolo 378 c.p., quanto alla configurazione del relativo reato, in particolare per omessa motivazione sul motivo di appello riguardante la configurazione del reato (per asserita inidoneita’ delle notizie asseritamente rivelate dal (OMISSIS) al (OMISSIS) ad arrecare nocumento per la proficuita’ delle investigazioni, trattandosi di notizie gia’ conosciute dal (OMISSIS), gia’ sottoposto a perquisizione).
All’odierna udienza pubblica, e’ stata verificata la regolarita’ degli avvisi di rito; all’esito, la parte presente ha concluso come da epigrafe, ed il collegio, riunito in camera di consiglio, ha deciso come da dispositivo in atti, pubblicato mediante lettura in udienza.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso e’ integralmente inammissibile.
1. A fondamento dell’assoluzione inizialmente pronunziata in relazione al reato di cui all’articolo 326 c.p. (capo A), la Corte di appello aveva ritenuto che, informando il (OMISSIS) sulla partecipazione alla riunione riservata svolta in Procura del sovrintendente Menna, che doveva riferire sull’esito di una perquisizione per lui importante, l’imputato (OMISSIS) non avesse propalato un segreto, perche’ la porta della stanza del magistrato per alcuni periodi era rimasta aperta, consentendo a chiunque di constatare che vi era una riunione in corso; la Corte di appello aveva, inoltre, escluso che il (OMISSIS) ne avesse riferito il contenuto, anche perche’ egli, dopo una prima telefonata (ore 8,59) nel corso della quale il (OMISSIS) gli aveva chiesto informazioni, aveva chiesto ed ottenuto un giorno di ferie, il che lasciava supporre che fosse fuori dall’ufficio durante le successive telefonate; in ordine all’acquisizione di notizie sulla posizione del (OMISSIS) in concomitanza con l’espletamento di attivita’ d’indagine a suo carico, la Corte d’appello aveva rilevato che “secondo la stessa consulente del Pubblico ministero non vi furono accessi da parte dell’imputato nella data indicata del 25 luglio 2011, mentre il giorno 24 ottobre 2011 vi fu un solo accesso, relativo a nominativo ( (OMISSIS)/ (OMISSIS)) diverso da quello del (OMISSIS)” e che, se anche fossero stati eseguiti, gli accessi non proverebbero la rivelazione delle notizie, che e’ elemento costitutivo del reato contestato.
1.1. Contro questa ricostruzione dei fatti, il P.G. aveva denunciato, in ricorso, che la Corte di appello aveva trascurato il complesso delle conversazioni intercettate intercorse fra il (OMISSIS) ed il (OMISSIS) il giorno della riunione ed il contesto della situazione (la porta della stanza era, comunque, ben chiusa quando la riunione aveva avuto inizio; la riunione aveva riguardato l’organizzazione di un’attivita’ di Polizia giudiziaria ulteriore e successiva rispetto a quella gia’ svolta dalla Procura); aveva, inoltre, trascurato il contenuto di una conversazione (ore 18,44) in cui il (OMISSIS) aveva rassicurato il (OMISSIS) sull’assenza di persone (le vittime delle truffe ordite dall’associazione criminale facente capo al (OMISSIS) stesso) diverse rispetto agli appartenenti alla Polizia giudiziaria.
In particolare, secondo il PG in quella sede ricorrente, la Corte di appello si era erroneamente concentrata solo sulla segretezza del contenuto della riunione, non anche della riunione in se’; in ogni caso, il (OMISSIS) aveva rivelato al (OMISSIS) l’informazione richiesta, ovvero la presenza alla riunione del solo sovrintendente MENNA della Polizia stradale; a tal proposito, il PG aveva richiamato quanto condivisibilmente affermato dal Tribunale a sostegno dell’iniziale condanna, poi riformata dalla Corte d’appello con la sentenza successivamente annullata dalla sentenza rescindente:
“se puo’ convenirsi sul fatto che la presenza di funzionari dell’aliquota di P.G. nella stanza del sostituto procuratore della Repubblica non costituisce notizia segreta (..) altrettanto non puo’ dirsi della presenza di un funzionario di P.G. esterno (nel caso di specie il sovr. (OMISSIS)) del quale sia (OMISSIS) che (OMISSIS) sapevano essersi occupato in prima persona nell’indagine che stava a cuore al primo e che, come sappiamo dalla annotazione di servizio redatta dall’isp. (OMISSIS) si era recato quel giorno in Procura proprio per riferire di tale attivita’”.
1.2. L’assoluzione dell’imputato dal reato di cui all’articolo 326 c.p., e’ stata annullata dalla sentenza rescindente per le seguenti considerazioni:
“L’articolo 326 c.p., protegge il normale funzionamento della Pubblica amministrazione, che costituisce una proiezione dei principi costituzionali contenuti nell’articolo 97 Cost., e si estrinseca anche con l’osservanza del segreto d’ufficio inerente al rapporto funzionale tra il pubblico funzionario e l’amministrazione di appartenenza: il segreto evita che l’efficacia dell’azione dell’ente pubblico sia pregiudicata dalla rilevazione del contenuto di certi atti. Questo giustifica (tanto piu’ quando il segreto concerne indagini penali) il sacrificio della esigenza di conoscibilita’, che esprime il principio della pubblicita’ dell’azione dei pubblici poteri, e spiega anche perche’ il “segreto d’ufficio” per il personale delle cancellerie e segreterie giudiziarie e dei dattilografi non riguarda soltanto gli “atti segreti”. Infatti, la L. 23 ottobre 1960, n. 1196, articolo 159 (segreto d’ufficio), (ordinamento del personale delle cancellerie e segreterie giudiziarie e dei dattilografi) dispone: “Il funzionario di cancelleria e segreteria e il dattilografo devono osservare il piu’ scrupoloso segreto di ufficio e non possono dare a chi non ne abbia diritto, anche se non si tratti di atti segreti, informazioni o comunicazioni relative a operazioni o provvedimenti giudiziari o amministrativi di qualsiasi natura e dei quali siano venuti comunque a conoscenza a causa del loro ufficio”. Nella stessa linea e in termini che valgono per tutti gli impiegati, la L. 7 agosto 1990, n. 241, articolo 28, – che ha sostituito il Decreto del Presidente della Repubblica n. 3 del 1957, articolo 15, (T. U. degli impiegati civili dello Stato) – non si limita a porre l’obbligo per l’impiegato pubblico di “mantenere il segreto d’ufficio”, ma ne definisce anche l’ambito e l’estensione, specificando che l’impiegato “non puo’ trasmettere a chi non ne abbia diritto informazioni riguardanti provvedimenti od operazioni amministrative, in corso o concluse, ovvero notizie di cui sia venuto a conoscenza a causa delle sue funzioni, al di fuori delle ipotesi e delle modalita’ previste dalle norme sul diritto di accesso”. Dalla disposizione emerge che il divieto di divulgazione (e di utilizzo) comprende non solo informazioni sottratte all’accesso, ma anche, nell’ambito delle notizie accessibili, quelle informazioni che non possono essere date alle persone che non hanno il diritto di riceverle, in quanto non titolari dei prescritti requisiti. Ne deriva che sono “notizie d’ufficio, le quali debbono rimanere segrete”, non solo le informazione non divulgabili in ogni tempo e nei confronti di chiunque, ma anche quelle la cui diffusione (pur consentita in un momento successivo) e’ vietata dalle norme sul diritto di accesso, se rivolta a soggetti non titolari del diritto o senza il rispetto delle modalita’ previste (…). Pertanto, oggetto materiale del delitto di rivelazione di segreti d’ufficio sono sia le notizie d’ufficio coperte dal segreto sia quelle indebitamente svelate a chi non e’ titolare del diritto di accesso agli atti amministrativi
o senza il rispetto delle modalita’ previste (…). Del resto, l’articolo 326 c.p., non delimita il novero delle notizie che devono restare segrete a quelle sottratte alla divulgazione in ogni tempo e luogo, per cui ogni delimitazione renderebbe la norma incriminatrice sottodeterminata rispetto al bene giuridico tutelato. Inoltre, e’ lo stesso articolo 326 c.p., che, per definire l’ambito della condotta, rinvia alla “violazione di doveri inerenti alle funzioni
o al servizio”. Ne’ e’ condivisibile l’argomento secondo cui, poiche’ il principio informatore della L. n. 241 del 1990, e’ che l’accesso agli atti non specificamente coperti da segreto, e’ generalmente permesso, le restrizioni previste dalla L. n. 241 del 1990, mirerebbero solo a arginare richieste, non correlate a un interesse, potenzialmente paralizzanti l’attivita’ amministrativa (…). Infatti, deve registrarsi che una specifica previsione normativa di segretezza e’ contenuta proprio nell’articolo 28 della legge”.
2. A fondamento dell’assoluzione inizialmente pronunziata in relazione al reato di cui all’articolo 378 c.p. (capo B), la Corte di appello aveva ritenuto che, non essendo provata la condotta indicata nel capo A), non poteva configurarsi il reato descritto nel capo B).
2.1. Il P.G. aveva denunciato, in ricorso, che il reato di cui all’articolo 326 c.p., ed il reato di cui all’articolo 378 c.p., hanno distinte rationes e diversi elementi oggettivi e soggettivi.
2.2. L’assoluzione dell’imputato dal reato di cui all’articolo 378 c.p., e’ stata annullata dalla sentenza rescindente per le seguenti considerazioni:
“In realta’, il favoreggiamento personale ex articolo 378 c.p. non presuppone che il soggetto favorito abbia conseguito un effettivo vantaggio perche’ il delitto e’ integrato da qualunque condotta (attiva o omissiva) che alteri negativamente il contesto fattuale all’interno del quale le investigazioni e le ricerche sono gia’ in corso o potrebbero essere iniziate: occorre solo che sia provata la oggettiva idoneita’ della condotta favoreggiatrice a intralciare il corso della Giustizia, non anche la dimostrazione dell’effettivo vantaggio conseguito dal soggetto favorito (…). Tuttavia, ferma restando questa precisazione, da intendersi generaliter, vale comunque rilevare, secundum quid, che il capo 8) e’ cosi’ costruito “… perche’, attraverso la condotta di cui al capo A), aiutava…”. Pertanto, nella fattispecie in esame, la condotta descritta nel capo 8) puo’ ritenersi provata nel suo nucleo fattuale penalmente rilevante, tenendo presente che per la realizzazione del reato di favoreggiamento personale non si richiede necessariamente la violazione di un segreto di ufficio. Su queste basi, il secondo motivo di ricorso, puo’ essere accolto”.
3. Cio’ premesso, i motivi dell’odierno ricorso sono in parte non consentiti, in parte privi della necessaria specificita’, in parte manifestamente infondati.
3.1. La giurisprudenza di questa Corte e’, condivisibilmente, orientata nel senso di ritenere l’inammissibilita’, per difetto di specificita’, del ricorso presentato prospettando vizi di motivazione del provvedimento impugnato, i cui motivi siano enunciati in forma perplessa o alternativa (Sez. VI, sentenza n. 32227 del 16 luglio 2010, CED Cass. n. 248037: nella fattispecie il ricorrente aveva lamentato la “mancanza e/o insufficienza e/o illogicita’ della motivazione” in ordine alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari posti a fondamento di un’ordinanza applicativa di misura cautelare personale; Sez. VI, sentenza n. 800 del 6 dicembre 2011 – 12 gennaio 2012, Bidognetti ed altri, CED Cass. n. 251528).
Invero, l’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), stabilisce che i provvedimenti sono ricorribili per “mancanza, contraddittorieta’ o manifesta illogicita’ della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame”.
La disposizione, sia se letta in combinazione con l’articolo 581 c.p.p., comma 1, lettera c), previgente (a norma del quale e’ onere del ricorrente enunciare “i motivi del ricorso, con l’indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta”), sia se letta in combinazione con l’articolo 581 c.p.p., comma 1, lettera d), – come attualmente vigente a seguito dell’intervento novellatore di cui alla L. n. 103 del 2017 – (a norma del quale e’ onere del ricorrente l’enunciazione specifica, a pena d’inammissibilita’, “dei motivi, con l’indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta”), evidenzia che non puo’ ritenersi consentita l’enunciazione perplessa ed alternativa dei motivi di ricorso, essendo onere del ricorrente di specificare con precisione se la deduzione di vizio di motivazione sia riferita alla mancanza, alla contraddittorieta’ od alla manifesta illogicita’ ovvero a una pluralita’ di tali vizi, che vanno indicati specificamente in relazione alle varie parti della motivazione censurata.
Il principio e’ stato piu’ recentemente accolto anche da questa sezione, a parere della quale “E’ inammissibile, per difetto di specificita’, il ricorso nel quale siano prospettati vizi di motivazione del provvedimento impugnato, i cui motivi siano enunciati in forma perplessa o alternativa, essendo onere del ricorrente specificare con precisione se le censure siano riferite alla mancanza, alla contraddittorieta’ od alla manifesta illogicita’ ovvero a piu’ di uno tra tali vizi, che vanno indicati specificamente in relazione alle parti della motivazione oggetto di gravame” (Sez. II, sentenza n. 31811 dell’8 maggio 2012, CED Cass. n. 254329).
Per tali ragioni la censura alternativa ed indifferenziata di mancanza, contraddittorieta’ o manifesta illogicita’ della motivazione risulta priva della necessaria specificita’, il che rende in parte qua il ricorso (I, II, IV motivo) inammissibile.
3.2. Quanto all’accertamento dei fatti, i motivi I e II sono del tutto generici (in difetto del compiuto riferimento alle argomentazioni contenute nel provvedimento impugnato) nonche’ manifestamente infondati, in considerazione dei rilievi con i quali la Corte di appello – con argomentazioni giuridicamente corrette, nonche’ esaurienti, logiche e non contraddittorie, e, pertanto, esenti da vizi rilevabili in questa sede – ha motivato le contestate statuizioni (f. 6 ss. della sentenza impugnata), in particolare valorizzando quanto emerso dalle intercettazioni telefoniche, incensurabilmente interpretate in difetto di documentati travisamenti, e delle quali l’odierno ricorso mostra di disinteressarsi.
Da esse in particolare emerge che la riunione de qua fu svolta anche con la porta chiusa (non quindi soltanto con la porta aperta) e che il (OMISSIS) rassicuro’ il (OMISSIS) sul fatto che ad essa era presente solo “quello della stradale”, non anche le vittime dei comportamenti delittuosi del (OMISSIS) (che di cio’ voleva essere informato).
Vane appaiono le argomentazioni della difesa, risultando le insistite discettazioni sugli accessi al (OMISSIS) non idonee a confutare quanto emerso dalle predette intercettazioni, costituenti formidabile elemento d’accusa; irrilevante e’ anche la questione inerente all’effettivita’ o meno del congedo, secondo la Corte di appello non documentato, e comunque costituente dato meramente formale, che non avrebbe naturalmente impedito all’imputato di essere ugualmente presente in ufficio per riferire quello che egli e’ stato intercettato aver riferito al (OMISSIS).
3.2.1. Del tutto generica (in difetto del compiuto riferimento alle argomentazioni contenute nel provvedimento impugnato) nonche’ manifestamente infondata, appare anche la doglianza inerente al diniego delle circostanze attenuanti generiche, in considerazione dei rilievi con i quali la Corte di appello – con argomentazioni giuridicamente corrette, nonche’ esaurienti, logiche e non contraddittorie, e, pertanto, esenti da vizi rilevabili in questa sede ha motivato la contestata statuizione, valorizzando la premessa gravita’ del reato, nonche’ i precedenti penali dell’imputato e l’assenza di decisivi elementi sintomatici della necessaria meritevolezza (che neppure il ricorrente indica), nel complesso comunque pervenendo all’irrogazione di una pena estremamente mite, perche’ ben lontana dai possibili limiti edittali massimi, ed anzi prossima a quelli minimi.
3.3. Infine, la giurisprudenza di questa Corte e’, ancora, condivisibilmente, orientata nel senso di ritenere non denunciabile il vizio di motivazione con riferimento a questioni di diritto.
Invero, come piu’ volte chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte Suprema (Sez. II, sentenze n. 3706 del 21. – 27 gennaio 2009, CED Cass. n. 242634, e n. 19696 del 20 – 25 maggio 2010, CED Cass. n. 247123), anche sotto la vigenza dell’abrogato codice di rito (Sez. IV, sentenza n. 6243 del 7 marzo – 24 maggio 1988, CED Cass. n. 178442), il vizio di motivazione denunciabile nel giudizio di legittimita’ e’ solo quello attinente alle questioni di fatto e non anche di diritto, giacche’ ove queste ultime, anche se in maniera immotivata o contraddittoriamente od illogicamente motivata, siano comunque esattamente risolte, non puo’ sussistere ragione alcuna di doglianza, mentre, viceversa, ove tale soluzione non sia giuridicamente corretta, poco importa se e quali argomenti la sorreggano.
E, d’altro canto, l’interesse all’impugnazione potrebbe nascere solo dall’errata soluzione di una questione giuridica, non dall’eventuale erroneita’ degli argomenti posti a fondamento giustificativo della soluzione comunque corretta di una siffatta questione (Sez. IV, sentenza n. 4173 del 22 febbraio – 13 aprile 1994, CED Cass. n. 197993).
Va, pertanto, ribadito il seguente principio di diritto:
“nel giudizio di legittimita’ il vizio di motivazione non e’ denunciabile con riferimento alle questioni di diritto decise dal giudice di merito, allorquando la soluzione di esse sia giuridicamente corretta. D’altro canto, l’interesse all’impugnazione potrebbe nascere soltanto dall’errata soluzione delle suddette questioni, non dall’indicazione di ragioni errate a sostegno di una soluzione comunque giuridicamente corretta).
3.3.1. Ne consegue che non sono consentiti i motivi III e IV, che evocano presunti vizi di motivazione in ordine alla configurabilita’ dei reati ascritti all’imputato, correttamente configurati in diritto, peraltro in puntuale ed ineludibile applicazione dei vincolanti principi di diritto affermati dalla sentenza rescindente, con conseguente palese insussistenza anche dei vizi di violazione di legge in proposito contestualmente denunciati (evidenti apparendo la configurabilita’ sia del reato di cui all’articolo 326 c.p., che del reato di cui all’articolo 378 c.p., come gia’ chiarito dalla VI sezione, ai cui rilievi non puo’ che farsi rinvio, innegabile essendo quanto al secondo reato – l’oggettiva idoneita’ della condotta favoreggiatrice accertata ad intralciare il corso delle indagini).
4. La declaratoria d’inammissibilita’ totale del ricorso comporta, ai sensi dell’articolo 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonche’ – apparendo evidente dal contenuto dei motivi che egli ha proposto il ricorso determinando la causa d’inammissibilita’ per colpa (Corte Cost., sentenza 13 giugno 2000, n. 186) e tenuto conto dell’entita’ della predetta colpa, desumibile dal tenore della rilevata causa d’inammissibilita’ della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle Ammende a titolo di sanzione pecuniaria.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle ammende.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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